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LAUREATI, LAVORO E PRECARIETA’

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di Michele De Sanctis

Presentato oggi a Bologna nel corso del Convegno ‘Imprenditorialità e innovazione: il ruolo dei laureati’ il XVI Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. L’analisi ha coinvolto a livello nazionale quasi 450.000 laureati di tutte le 64 università aderenti al consorzio.

Dal 2008, primo anno della crisi, ad oggi, il tasso di disoccupazione tra i neolaureati è più che raddioppiato. Infatti, sei anni fa a rimanere senza impiego a un anno dalla laurea era soltanto il 10% circa dei neodottori, mentre oggi la percentuale dei laureati triennali senza lavoro a un anno dalla tesi è salita al 26,5%, mentre è aumentata fino al 22,9% per le lauree specialistiche e al 24,4% per quelle magistrali a ciclo unico. Il tasso di disoccupazione, poi, si inasprisce in determinati settori: le maggiori difficoltà nella ricerca di un’occupazione sono quelle riscontrate dai laureati in giurisprudenza, architettura e veterinaria. Rispetto al 2008, la percentuale dei senza lavoro tra i laureati in queste discipline appare addirittura triplicata.

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Ma l’indagine condotta dal consorzio AlmaLaurea, realizzata attraverso un’analisi comparata delle generazioni che sono passate per le aule accademiche tra il 2008 e il 2013, non si ferma qua e si spinge anche ai rapporti di lavoro conclusi dai più fortunati, fortunati in senso lato, s’intende. Nel 2008 i giovani che riuscivano a firmare un contratto di lavoro a tempo indeterminato dopo una laurea triennale erano il 41,8% e il 33,9% di quelli che avevano completato anche il biennio successivo. Oggi le percentuali sono rispettivamente di 26,9% e 25,7%, a fronte di una retribuzione diminuita di circa il 20% rispetto a sei anni fa. Le retribuzioni in termini nominali sono, infatti, passate da 1.300 Euro mensili del 2008 ai 1.000 del 2013.

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Nonostante questi dati sconfortanti, che danno da pensare ai genitori di coloro che frequentano l’ultimo anno di scuola e preoccupano chi si avvicina al conseguimento della sudata laurea, ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, sono stati proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici. Tra il 2007 e il 2013, infatti, il differenziale tra il tasso di disoccupazione dei neolaureati e dei neodiplomati è passato da 2,6 punti percentuali a 11,9. La laurea, pertanto, benché destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, continua ad essere un importante strumento nella ricerca di un lavoro, per lo meno più utile del solo diploma. Molte famiglie negli ultimi tempi non riescono ad affrontare le tasse universitarie che, anche per effetto di certi meccanismi di finanziamento introdotti dall’ex Ministro Gelmini con la L. 240/2010, diventano più alte di anno in anno. Soprattutto dinanzi ad una crisi che sembra non guardare in faccia a nessuno, molti giovani abbandonano gli studi dopo il diploma, pensando che laurearsi non serva a nulla, che sia un sacrificio economico inutile, finendo, così, per allargare le fila di quella parte di popolazione che non solo è bloccata dalla recessione, ma anche dallo scarso tasso di specializzazione delle proprie conoscenze, senza cui è impensabile un recupero dei livelli di sviluppo socioeconomici raggiunti prima della crisi.

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Per uscire da questa situazione, gli autori del rapporto AlmaLaurea suggeriscono di dare maggior peso alla conoscenza e alla competenza, piuttosto che perseverare nel premiare, come ancora accade, l’anzianità anagrafica e di servizio. I laureati entrati da poco nel mercato del lavoro avranno sicuramente avuto a che fare con figure apicali non curriculate. Ed indicano, peraltro, due linee di intervento assolutamente necessarie. Da una parte, chiedono misure di sostegno all’imprenditorialità dei laureati, dunque sviluppo di venture capital, cioè apporto di capitale di rischio da parte di investitori per finanziare l’avvio di attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo, oltreché una più capillare presenza di business angels, ossia di quegli investitori informali, ex titolari di impresa, manager in pensione o in attività, liberi professionisti che abbiano il gusto della sfida imprenditoriale, il desiderio di poter acquisire parte di una società che operi in un business, spesso innovativo, rischioso ma ad alto rendimento atteso, e, infine, una maggiore diffusione dell’educazione imprenditoriale. Dall’altra parte, invitano a puntare al rientro dei cervelli in fuga attraverso l’offerta di migliori prospettive occupazionali, sia in termini retributivi che di qualità del lavoro, di accrescere le risorse destinate alla ricerca sia dallo Stato sia dai privati e di introdurre strumenti di valorizzazione del merito.

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Circa dieci giorni fa Matteo Renzi ha annunciato attraverso Twitter un programma per il rilancio del lavoro: il Jobs Act. Noi di BlogNomos ne abbiamo parlato, riportandovi i punti che il premier intende sviluppare e le prime indiscrezioni su quali saranno le novità in materia previdenziale ed occupazionale. E seguiremo l’iter dei lavori, tenendovi aggiornati costantemente. Quelli descritti finora sono stati solo i dettagli. Il Presidente del Consiglio ha twittato in più di un’occasione la necessità di fare qualcosa per intervenire in un’area così delicata. Da un lato i giovani neolaureati ed inoccupati che chiedono interventi urgenti per favorire la loro entrata nel mercato del lavoro, dall’altro quelli che di lavoro non ne sono riusciti a trovare e che tentano adesso la via dell’imprenditorialità, chiedendo riforme in materia di semplificazione e defiscalizzazione. Rispondere ad entrambe le richieste aumenterebbe il numero di posti di lavoro, senza, peraltro, ricorrere ancora una volta alla stipula generalizzata di contratti precari di lavoro. Ad essere precarie sono, infatti, solo le condizioni contrattuali che la Trojka ci ha costretti ad introdurre nei nostri rapporti di lavoro, ma la vita di un giovane che esce oggi dall’università non può diventare essa stessa precaria solo perché ce lo chiede l’Europa. Abbiamo diritto a un futuro ed è un diritto che vogliamo esercitare subito. L’augurio è, quindi, che questo rapporto di AlmaLaurea influenzi positivamente e in maniera ‘fattiva’ le scelte che il Governo prenderà nella stesura del Jobs Act.

Riflessioni di un pendolare qualunque

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Il vero metro è la ferrovia che come la CIA te può insegnà che una differenza sostanziale e profonda tra prima e seconda ci deve stà, così cantava il dissacrante Rino Gaetano tanti anni fa. Ed è ancora quello il metro. Per noi viaggiatori dei giorni feriali lo è sempre. Ma al sabato e alla domenica torniamo gente normale che, nel conforto delle proprie dimore, prova a non sentirsi in seconda classe. E per due giorni ci concediamo il lusso di essere cittadini. Punto.

di Michele De Sanctis

È notizia recente: due treni si sono scontrati in un tratto a binario unico tra Gimigliano e Cicala, nei pressi di Catanzaro. È  solo l’ultimo di una serie di incidenti ferroviari, che sebbene in diminuzione negli ultimi tempi, restano comunque un fenomeno preoccupante per chi sul treno sale ogni giorno per andare a lavorare e per tutti quelli che, anche se sporadicamente, scelgono di viaggiare con Trenitalia. Anche il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, in seguito a quest’ultimo fatto di cronaca ha sottolineato l’emergenza del sistema ferroviario italiano, segnalando che gli incidenti ferroviari in Italia sono ancora troppi e che è necessario intervenire per incrementare la sicurezza sulle rotaie del nostro Paese, aggiungendo, inoltre, che è assolutamente necessario migliorare controlli e manutenzione.

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È vero. Serve manutenzione. Soprattutto sui trasporti locali in tutta Italia, sulle Frecce della tratta adriatica, dove la Freccia Bianca “corre” su binari insufficienti, nelle giornate di pioggia quasi lambiti dalle onde del mare in tempesta nel tratto fermano ed ascolano e quasi sommersi tra San Benedetto e Pescara da innocui fiumi secondari che l’imperizia, la negligenza e la connivenza dei nostri amministratori hanno trasformato in bombe ad orologeria. Treni regionali cancellati, Eurostar che viaggiano con 30, a volte anche 60 minuti di ritardo a causa di un guasto ai motori. E il ritardo non è un avvenimento così raro, così come la cancellazione dei treni regionali, quando il ritardo non è più recuperabile. La scorsa settimana l’Intercity per Rimini, con partenza da Ancona Marittima, ha impiegato quasi venti minuti per arrivare ad Ancona Centrale. Io ero su quel treno. Non so come sia proseguita la corsa, perché alla stazione centrale ho effettuato il cambio per salire sulla Freccia per Taranto, che, per fortuna, era in ritardo di dieci minuti, ma vi giuro che venti minuti sono quelli che avrei impiegato dal porto alla stazione se avessi scelto di muovermi sulle mie gambe.

E che dire del tratto ligure dove a gennaio un treno Intercity è deragliato, a causa di una frana, sulla linea Genova-Ventimiglia, in un tratto a binario unico, bloccando tutto il traffico ferroviario, anche quello con la Francia? Lo sapete che quel treno è rimasto lì fino a metà febbraio, quando finalmente è stata portata a termine la demolizione della  terrazza parcheggio franata per lo smottamento? Le foto che circolavano in rete con quel treno in bilico tra terra e mare sembravano quasi simboleggiare l’immobilismo in cui versa attualmente il nostro Paese tra crollo e ripresa e nessuna azione per rimetterlo sui binari. Un’istantanea di questi anni terribili di crisi. La tempistica per ripristinare il tratto ferroviario non sarà breve e nel frattempo la viabilità di questa linea resterà un inferno. E a pagarne il prezzo saranno principalmente i pendolari, cui verrà intanto negato (o quanto meno diminuito) un servizio essenziale. Per non parlare, poi, dei danni sotto il profilo commerciale e turistico. Merci provenienti dalla vicina Francia che non potranno transitare verso il porto di Genova per settimane, la provincia di Imperia isolata, il timore che a inizio stagione la Riviera sarà ancora interrotta con pesanti ripercussioni sul settore alberghiero.

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Ma i disagi che i pendolari italiani devono affrontare non sono solo quelli dovuti alla scarsa manutenzione dei binari. Anche i treni lasciano un po’ a desiderare. Quando c’è un guasto ai motori, non solo il treno non riparte, nemmeno l’aria condizionata funziona. Sapete che vuol dire stare per più di mezz’ora in pieno inverno alle sei di mattina in un treno fermo e al buio? Vi auguro di non scoprirlo mai, non è una bella esperienza. Ma è sicuramente meglio che viaggiare in agosto con l’aria condizionata fuori servizio, quando la temperatura percepita dai viaggiatori si avvicina a quella di termofusione. E vogliamo parlare di ciò che è accaduto lo scorso 21 novembre ai viaggiatori del treno Pisa-Aulla? Fuori pioveva e anche nel treno le condizioni meteo non erano delle migliori: i pendolari sono stati costretti a viaggiare con l’ombrello aperto per ripararsi dall’acqua. La scena è stata immortalata in una foto scattata e pubblicata su Facebook da uno degli utenti del gruppo ‘I problemi della Linea Fs Pisa-Aulla’ che commenta ”i pendolari ormai ci sono abituati… è bello vedere le facce delle persone che usano la nostra linea per la prima volta”. Un altro utente del gruppo aggiunge che ”era già successo! Ed era successo d’estate per giunta quando si era rotto il condizionatore e gocciolava in testa alla gente. Mamma mia… ridiamo per non piangere”. La foto ha fatto il giro della rete fino a diventare virale tra i pendolari di tutto il Paese.

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Intanto si spera che a Roma vengano prese delle iniziative immediate per trovare soluzioni. Invece no. È il solito scaricabarile all’italiana, con Trenitalia che punta il dito contro Governo e Regioni, Regioni che accusano Trenitalia e chiedono iniziative al Governo, il Governo che promette e i cittadini, intanto, trattati come merci, le bestie forse viaggiano con confort maggiori sui treni italiani. Lupi prometteva un tavolo di incontro (o scontro?), ma non ne sono riuscito a reperire notizia alcuna in rete. C’è mai stato?

E poi e poi…e poi ci sono tutti quei treni soppressi per carenza di fondi nel corso del 2013. A ottobre varie Regioni hanno deciso di usare le forbici. In Piemonte tagli per 5 milioni con la soppressione di 18 treni che collegano la regione con la Liguria e disagi per oltre duemila pendolari. Gli interregionali Milano-Venezia sono diventati una barzelletta: a luglio la Regione Veneto ne aveva soppressi 8, sostituendoli con i più lenti regionali, causando disagio per circa diecimila utenti. A dicembre la Lombardia ha ripristinato la tratta, ma solo fino a Verona senza, peraltro, garantire le coincidenze. Così per andare a Venezia ed evitare il trasbordo a Verona, i quattromila pendolari giornalieri tra le due regioni sono ora costretti a servirsi dei Frecciabianca, che costano dal doppio al triplo di un interregionale. Un favore all’Alta Velocità. A settembre in Calabria 14 sono stati i treni locali soppressi, decisione che aveva spinto il Pd a presentare un’interrogazione alla Camera. La scure si è poi abbattuta anche sugli Intercity: a fine ottobre Trenitalia ha deciso di tagliarne 12 tra la Toscana e altre 8 Regioni, dal Friuli alla Campania. I pendolari sono scesi sul piede di guerra e la politica si è mossa: il 24 ottobre i governatori interessati hanno scritto al presidente del Consiglio Enrico Letta e il Pd ha presentato un’interpellanza alla Camera.

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Intanto, il 20 novembre 2013 l’Italia è finita nel mirino della Commissione UE per lo scarso interesse mostrato verso le condizioni di vita dei suoi 3 milioni di pendolari. Bruxelles ha inviato a Roma un parere motivato (secondo stadio della procedura di infrazione) perché lo Stato, a 4 anni dal regolamento che avrebbe dovuto essere attuato entro il 3 dicembre 2009, non ha ancora istituito un’agenzia nazionale permanente per vigilare sulla corretta applicazione dei diritti dei passeggeri nelle ferrovie, né stabilito norme volte a sanzionare le violazioni della legislazione comunitaria. Se l’Italia non avesse provveduto entro 2 mesi, la Commissione avrebbe avuto facoltà di deferire lo Stato alla Corte di Giustizia del Lussemburgo. Cosa aspetta la Commissione a deferirci. Che sia la volta buona per i pendolari d’Italia.

Da Trenitalia, poi, Mauro Moretti, amministratore delegato della società, che da tempo sostiene che il trasporto locale è un problema, perché non si ripaga con i biglietti, ha prima minacciato, a fine 2012, di interrompere il servizio, mentre nel 2013 ha proposto di tassare i pendolari per fare cassa e svuotare i treni locali, istituendo fasce tariffarie differenziate, con sistemi di incentivazione e disincentivazione di certi orari. Per l’a.d. di Trenitalia i biglietti dei treni più affollati dovrebbero costare più degli altri. A novembre ha inoltre dichiarato: “Stiamo investendo 3 miliardi per comprare treni locali, peccato che dalla politica non abbiamo visto un centesimo”.

Per gennaio il gruppo aveva annunciato l’arrivo di 70 nuovi treni per il trasporto locale in Piemonte, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo e Calabria, per un investimento di 450 milioni di euro. Utili, peccato per le quotidiane inefficienze. Sapevate che per andare da Ancona a Fabriano, provincia di Ancona, con un regionale, ci vuole circa mezz’ora in più che per arrivare a Pescara sulla Frecciabianca? Treno nuovo, ma stessi binari.

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Vero è che ai nostri politici il trasporto ferroviario sta particolarmente a cuore. Ma negli ultimi anni, il trasporto che più attira il loro interesse è quello sulle Frecce e Italo. A fine anno, il Ministro Lupi aveva persino annunciato sconti sull’alta velocità, per incentivarne lo sviluppo. Sembra quasi che sul fronte trasporti il nostro Paese abbia sposato il concetto europeista delle due velocità. C’è chi viaggia lento e male sui treni locali e gli utenti dell’Alta Velocità, che, come recita lo slogan, viaggiano sulla metropolitana d’Italia. Sulla tratta tirrenica e al Nord. Provate a farvi Taranto Milano sulla Frecciabianca: tranquilli, non va così veloce, anche se siete deboli di cuore, sarà come un viaggio in calesse.

La verità è che i treni ad alta velocità stanno uccidendo la rete ferroviaria italiana. Se la storia ci insegna che ogni volta che la società è avanzata economicamente, la velocità dei trasporti è aumentata, per facilitare gli scambi commerciali è, altresì, vero che questa volta è arrivata l’onda lunga di una rete ferroviaria che prima di essere completata era già stata investita da una crisi economico-finanziaria senza precedenti. Il risultato è che per incentivare l’uso dei treni ad alta velocità vengono meno i servizi ferroviari essenziali, il tempo di percorrenza finisce per essere più o meno lo stesso ma con costi tre volte superiori. E s’inverte la parabola per cui il trasporto ferroviario giocherebbe un ruolo chiave nel contenimento delle emissioni dannose all’ambiente, poiché il suo diretto concorrente, il trasporto aereo, paradossalmente prolifica. L’aumento di linee ferroviarie ad alta velocità produce un aumento di compagnie aeree low-cost, così che invece di sottrarre viaggiatori al trasporto aereo lo favoriscono, cambiando di fatto la tipologia stessa dei viaggiatori: mentre prima a utilizzare l’aereo era il benestante mentre il treno risultava accessibile a tutti, oggi il treno ad alta velocità diventa prerogativa di pochi e i molti approfittano di tariffe aeree competitive.

Restano, infine, quei pendolari qualunque che ogni giorno affrontano la sfida dei trasporti locali, sperando ogni mattina di riuscire a smarcare il cartellino a un orario decente. E magari di riuscire anche a tornare a casa.

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Womenomics. Un ruolo per l’occupazione e la valorizzazione del talento femminile nell’attuale crisi finanziaria ed economica.

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Le donne oggi costituiscono un immenso serbatoio di talento nel mondo del lavoro e rappresentano più della metà del mercato dei beni di consumo. Raggiungere le consumatrici e sviluppare il talento femminile è essenziale per far fronte alle sfide del ventunesimo secolo. È dimostrato infatti che un miglior equilibrio di genere nelle imprese – a tutti i livelli, ma soprattutto ai piani alti – porta a risultati migliori. Perché allora sono ancora così poche le donne in ruoli di leadership nelle aziende? Perché le imprese hanno difficoltà a rispondere adeguatamente alle esigenze delle consumatrici di oggi? Perché in tutto il mondo continua a persistere un divario salariale tra uomini e donne? Gli attuali sistemi aziendali e le relative culture non sono più adeguati né all’articolazione dell’odierna forza lavoro, né alla complessità della società, né alle sfide future. Bisogna uscire dai vecchi schemi e compiere una vera e propria rivoluzione culturale per rendersi conto che le donne nel mondo del lavoro non costituiscono un problema etico, ma una necessità economica. Portatrici di attitudini e capacità diverse, esse costituiscono una gigantesca opportunità e favorirne l’ascesa alle posizioni di vertice è urgente per assicurare una crescita sostenibile dell’economia.

Ad oggi, il mondo paga ancora (e a caro prezzo) i costi di una situazione in cui le donne probabilmente hanno le chiavi, ma gli uomini continuano a controllare l’accesso alla serratura.

Il nostro Paese, poi, non si è mai distinto per politiche di genere particolarmente efficienti. Maurizio Ferrera, professore presso l’Università degli Studi di Milano nel saggio “Il fattore D” (edito da Mondadori) analizza le implicazioni che sul piano economico avrebbe la valorizzazione delle risorse femminili. Da anni l’Italia cresce poco o nulla. Cresce poco dal punto di vista economico. E cresce ancora meno sul piano demografico. Negli ultimi tempi sono state scritte molte pagine e sono state spese fin troppe parole per elencare tutto quello che andrebbe fatto per rimettere in moto il Paese: liberalizzazioni, mercati più efficienti, fisco più leggero, investimenti in ricerca e innovazione. Eppure esiste una risorsa più importante di ogni altra, di cui si parla poco: il lavoro femminile. Fare largo alle donne e promuoverne l’occupazione femminile è diventato urgente non solo per ragioni di pari opportunità e di giustizia sociale, ma soprattutto perché senza di loro l’Italia non cresce. Si pensi ai crescenti tassi di disoccupazione femminile, che si attestano intorno al 13% circa, con un tasso di aumento pari allo 0,9% su base annua. Percentuali che su base geografica lasciano basiti: nel secondo trimestre 2012 l’Istat evidenziava che nel solo Mezzogiorno il tasso di disoccupazione tra le 15-24enni era salito del 48% rispetto al primo trimestre. L’Italia, senza rendersene conto, sta quindi rinunciando a quello che recentemente si è rivelato essere il vero motore dell’economia mondiale: nell’ultimo decennio l’incremento dell’occupazione femminile negli altri Paesi sviluppati ha contribuito alla crescita globale più dell’intera economia cinese. Il fattore D, il lavoro delle donne, è un fattore decisivo di crescita, perché garantisce più ricchezza alle famiglie.

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Ma cos’è il fattore D? Bene, pensiamo che in Italia per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. L’ingresso nel mercato di 100 mila donne oggi inattive, infatti, farebbe crescere il nostro PIL di 0,3 punti l’anno. La Banca d’Italia stima, peraltro, che se la percentuale di lavoratrici donne (oggi il 47%) raggiungesse gli obiettivi dei Lisbona (il 60%), ci sarebbe un impatto sul PIL di 7 punti. Questo fattore di crescita è, appunto, il fattore D. Ed è un dato sorprendente. Ma com’è possibile? Se più donne lavorassero otterremmo un nuovo moltiplicatore di benessere perché ogni donna che inizia a lavorare avrebbe necessità di delegare il lavoro di casa ad altri: dalla spesa alla cura dei figli, degli anziani e della casa. In questo modo ogni donna occupata potrebbe generare nuova domanda di lavoro in altri settori. E, ai fini dell’economia domestica, l’apporto di uno stipendio in più non può che accrescere il benessere della famiglia.

Anche The Economist stima che in Paesi come il Giappone, la Germania e l’Italia, che sono tutti in difficoltà demografica, lavorano molte meno donne che in America, per non parlare della Svezia. Il problema non è solo italiano, per una volta. Ma se la forza lavoro femminile arrivasse ai livelli americani, ciò darebbe una potente spinta alla crescita economica.

Il fattore D, la rivoluzione economica che aiuterebbe il vecchio continente a riprendersi dalla peggior crisi di sempre è una nuova formula della crescita: donne, lavoro, economia, fecondità. In altre parole, womenomics! Fu proprio l’Economist a coniare per primo questo neologismo nel 2007 (Womenomics revisited, The Economist 19/04/2007), riprendendo una tesi lanciata da Goldman Sachs già nel 1999. Come si accennava poco fa, la prima interessante scoperta è la stretta connessione tra lavoro femminile e crescita economica, per cui si stima che verrà dal lavoro femminile l’impulso più importante alla crescita nel prossimo futuro. La formula della womenomics in base alla quale la crescita economica dipende dall’impiego di donne, lavoro, economia e fecondità è la prima a legare le tematiche delle cosiddette pari opportunità agli indicatori di crescita economici di un Paese: senza un maggior apporto alla produzione da parte delle donne l’economia mondiale non cresce sufficientemente. Nei Paesi dove questa partecipazione è alta anche i problemi demografici sono minori. Il corollario della womenomics è quindi che se più donne lavorano, aumenta anche la fertilità di un’intera Nazione. E questo dato, peraltro, aumenta ancora di più se sul territorio ci sono buoni servizi di conciliazione come gli asili. L’assunto alla base è che le donne non devono più trovarsi nella condizione di scegliere se fare un figlio o lavorare.

Le basi culturali per la rivoluzione in rosa ci sono già, anche nel nostro Paese, dove purtroppo la mentalità del maschio dominante è ancora abbastanza diffusa. Il professor Ferrera, però, spiega che negli ultimi anni è senza dubbio cambiata la qualità del dibattito. Le tesi della womenomics sono diventate patrimonio comune, sono uscite ricerche e libri importanti, si sono creati siti, blog, movimenti. Anche a livello parlamentare, qui in Italia, sono nate alleanze trasversali su alcuni temi e quindi la qualità del dibattito è ora simile a quella degli altri Paesi europei. A questa evoluzione sul piano culturale non è però corrisposta un’azione di governo capace di mettere in pratica le ricette proposte. Il tasso di occupazione femminile è ancora fermo al palo, sul tema della conciliazione non si è andato molto avanti, stesso discorso per i congedi parentali. Il progetto asili nidi lanciato dal governo Prodi è stato frenato a livello regionale e non è stato più ripreso dai Governi successivi e le politiche per la famiglia e la conciliazione non sono state finanziate. Eppure, nonostante la politica e le istituzioni siano lente nel percepire e nell’attivarsi, rimane questa la formula dello sviluppo: le donne che lavorano saranno il motore dell’economia di domani, anche come via di fuga dalla crisi. L’attenzione è da porre sui soggetti che ne beneficeranno. Womenomics significa benessere e crescita per tutti, non solo per le donne.

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Le azioni più urgenti da intraprendere (e che il Governo Renzi, così sensibile al tema delle quote rosa, dovrebbe perseguire) sono diverse. In particolare la possibilità, per le donne che già lavorano, di poter usufruire di un orario flessibile, che permetta loro di conciliare i tempi della famiglia (le esigenze dei bambini come anche degli anziani) con quelli del lavoro. Flessibilità degli orari, non dei contratti. Anzi, sul punto andrebbero prese azioni urgenti contro la prassi delle cd. dimissioni in bianco e rivista la disciplina del congedo parentale per incentivare il ruolo del padre nella cura dei figli e anche per evitare che le carriere delle donne siano influenzate negativamente da una concentrazione del congedo solo sulla madre. Nonostante i papà ne abbiano la facoltà, sono rari i casi in cui siano loro ad usufruirne, soprattutto nel lavoro privato. Per quanto riguarda le agevolazioni per incentivare la womenomics, quello che più convince l’autore di Il Fattore D è il modello francese: l’introduzione, cioè, di maggiori agevolazioni fiscali ai nuclei familiari, così da consentire lo sviluppo di nuovi servizi alle famiglie e creare nuovi posti di lavoro.

Da ultimo, si evidenzia l’importanza della womenomics non solo a livello macro, ma anche nella gestione dell’impresa privata. Molteplici esperienze e casi aziendali hanno già provato, non solo negli States, che l’equilibrio tra i generi porta più innovazione e migliori risultati nel business e nel governo aziendale; dopotutto le donne costituiscono la maggioranza del mercato e gran parte del talento attivo nel mondo del lavoro. A rivelarlo è Avivah Wittenberg-Cox – autorità mondiale su temi di leadership, genere e impresa – che nel saggio ‘Womenomics in azienda. Come valorizzare i telenti femminili e trarre profitto da un buon equilibrio di genere’ mostra come sia necessario raggiungere nel mondo del lavoro e del business un proficuo e salutare equilibrio dei due generi, maschile e femminile, e come mettere in pratica questo postulato in quattro semplici fasi: Audit, Consapevolezza, Allineamento e Sostegno. Alcune tra le più grandi aziende di punta nel mondo hanno già tratto beneficio e profitto dal riequilibrio delle loro attività.

È un’occasione che non possiamo perdere. E’ una sfida alla mentalità ottusa e machista, è il punto da cui ripartire, uomini e donne, per avviare la ripresa della nostra più grande ‘azienda’: l’Italia.

Michele De Sanctis

Lavoro somministrato nella Pubblica Amministrazione. Quer pasticciaccio brutto della spending review.

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Il decreto 276 del 2003 e successive modifiche, con particolare riguardo a quelle introdotte dal decreto legislativo del 2 marzo 2012, n. 24, sostituendo il lavoro interinale con quello somministrato, ha disciplinato, tra l’altro, la materia del contratto di somministrazione di lavoro applicabile, entro determinati limiti e vincoli, anche alle Pubbliche Amministrazioni. Sebbene, infatti, l’art. 1, comma 2 del decreto in parola escluda espressamente le Pubbliche Amministrazioni e il relativo personale dalla sua applicazione, il successivo articolo 86, comma 9 prevede espressamente che la somministrazione di lavoro trovi applicazione anche alla P.A. limitatamente ai contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Si tratta di una norma di raccordo che consente quindi l’applicazione dell’istituto previsto dalla cd. Legge Biagi anche alla Pubblica Amministrazione.

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Più di recente l’Unione Europea è poi intervenuta sul tema con la direttiva 2008/104/CE, pubblicata in G.U.R.I. n. 69 del 22/03/2012, dedicata, per l’appunto, al lavoro tramite agenzia interinale e finalizzata all’armonizzazione dei diversi ordinamenti degli Stati membri così da promuovere il completamento del mercato interno attraverso un miglioramento della vita e delle condizioni dei lavoratori nella Comunità europea. Nel considerando 2 della direttiva si legge che ciò avverrà mediante il ravvicinamento dei diversi ordinamenti soprattutto per quanto riguarda forme di lavoro come quello a tempo determinato, a tempo parziale, il contratto mediante agenzia di lavoro interinale e il lavoro stagionale. Secondo l’Unione, il lavoro tramite agenzia interinale risponde non solo ad esigenze di flessibilità delle imprese, ma anche al bisogno dei dipendenti di conciliare vita professionale e vita privata e può validamente contribuire alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione e integrazione nel mercato del lavoro (v. considerando 11 della direttiva). Difficile in tempi di crisi capire come per l’Unione un lavoro precario e privo di aspettative di carriera (ma anche di stabilità) possa conciliarsi con la vita privata del lavoratore: vita che è naturalmente fatta di progetti, che dinanzi all’instabilità del rapporto lavorativo difficilmente possono essere realizzati. Dal mutuo per la casa ai risparmi per gli studi dei figli. Ai figli stessi: difficile metterne in cantiere uno, a queste condizioni, diciamo anche rischioso.

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Il rapporto somministrato, poi, si complica ulteriormente (ai danni del solo lavoratore, ovviamente) se il lavoro lo si presta in favore di una P.A.: l’art. 97 Cost. regola l’accesso nella stessa e stabilisce la via del concorso pubblico come modalità principale, salvo poi riservare ad alcune categorie protette l’accesso tramite liste di collocamento. Tuttavia, le politiche di contenimento della spesa per il personale nella P.A. previste dalle ultime leggi finanziarie ma anche dai recenti interventi in tema di spending review e anche dalla legge di stabilità, hanno determinato la riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato e in alcuni casi introdotto il cd. blocco del turn over, determinando il ricorso all’utilizzo sempre più frequente dei contratti di somministrazione di lavoro temporaneo o di altre forme flessibili di reclutamento, anche in considerazione del favore dimostrato dal legislatore verso tali tipologie contrattuali, soprattutto in seguito alle diverse modifiche apportate all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e nonostante i vari interventi legislativi sui limiti di spesa.
In termini di opportunità amministrativa, quando non anche politica, è necessaria un’analisi dei costi per valutare la convenienza dello strumento flessibile (ed atipico, lato sensu) che il nuovo mercato del lavoro propone.

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S’è detto che la P.A., soggetto utilizzatore, stipula un contratto di tipo commerciale col somministratore, questo perché la somministrazione prevede tre tipi di rapporti derivanti da due distinti accordi: un rapporto commerciale discendente dal contratto stipulato tra utilizzatore e somministratore, un rapporto lavorativo tra questi e il dipendente che firma un contratto di lavoro con l’agenzia e, infine, un rapporto funzionale tra il lavoratore e l’utilizzatore che si avvale delle sue prestazioni. Per una Pubblica Amministrazione, sottoposta a spending review, ricorrere alla somministrazione significa spendere per un singolo lavoratore più di quanto non farebbe se quell’unità fosse stata selezionata tramite concorso ed assunta a tempo indeterminato, ovvero determinato.
Se in origine il presupposto per ricorrere a tale contratto, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003, era individuato “nelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”, evoluzione/involuzione rispetto alle sole esigenze di carattere temporaneo previste per il lavoro interinale dalla l. 196/97, ora l’articolo 4, comma 1 lettera c), del d.lgs. n. 24/2012, nell’aggiungere all’articolo 20 il comma 5-quater, ha previsto una deroga alle suindicate ragioni di utilizzo del contratto di somministrazione a tempo determinato nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. I CCNL, nei diversi comparti del pubblico impiego, possono, infatti, disciplinare tutti i casi in cui la somministrazione può essere utilizzata per fronteggiare specifici fabbisogni temporanei riguardanti determinate professionalità. L’articolo 2 del CCNL del 14/9/2000, ad esempio, relativo al personale appartenente al Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali prevede che i contratti di fornitura di lavoro temporaneo possano essere stipulati dalle Regioni e dagli enti locali per consentire la temporanea utilizzazione di professionalità non previste nell’ordinamento dell’amministrazione ovvero in presenza di eventi eccezionali e motivati non considerati in sede di programmazione dei fabbisogni o per la temporanea copertura di posti vacanti, per un periodo massimo di 60 giorni e a condizione che siano state avviate le procedure per la loro copertura; ovvero per l’acquisizione di profili professionali non facilmente reperibili o comunque necessari a garantire standard definiti di prestazioni, in particolare nell’ambito dei servizi assistenziali.

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Nel comparto degli EPNE, invece, l’articolo 35 del CCNL stipulato in data 14/2/2001 ammette il ricorso alla somministrazione per particolari fabbisogni professionali connessi all’attivazione ed all’aggiornamento di sistemi di controllo di gestione e di elaborazione di manuali di qualità e carte dei servizi nonché per soddisfare specifiche esigenze di supporto tecnico nel campo della prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, purché l’autonomia professionale e le relative competenze siano acquisite dal personale in servizio entro e non oltre quattro mesi.
tro mesi.
Nel comparto degli enti di ricerca, poi, troviamo l’articolo 22 del CCNL stipulato in dato 21/2/2001 (normativo 1998 – 2001 economico 1998 – 1999) il quale stabilisce che il ricorso al lavoro temporaneo deve essere fatto nel rispetto dei divieti posti dalla vigente disciplina legislativa, per soddisfare esigenze a carattere non continuativo e/o a cadenza periodica, o collegate a situazioni di urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o attraverso le modalità di reclutamento ordinario, previste dal D. Lgs. 165/2001 e deve essere improntato all’esigenza di contemperare l’efficienza operativa e l’economicità di gestione.
L’attuale fase di congiuntura economica, la spending review, il piano di rientro relativo all’amministrazione sanitaria di diverse regioni italiane, giustificano sicuramente il ricorso a tale forma di lavoro, stante il blocco delle assunzioni per lo meno relativamente al personale amministrativo. Il Legislatore, da Brunetta in poi, ha preteso dal pubblico impiego standard quali-quantitativi sempre più elevati. La richiesta di efficienza rivolta a lavoratori stipendiati con denaro pubblico è certamente una scelta giusta, giuridicamente ineccepibile, in linea di principio. Tuttavia tale richiesta sembra travalicare i limiti dell’umanamente possibile, se d’altro canto le Amministrazioni non possono procedere al cd. ricambio generazionale se non in percentuali minime nei prossimi anni, quando addirittura le assunzioni di nuovo personale non risultino del tutto bloccate dai criteri introdotti nell’ordinamento italiano dal Decreto Milleproroghe in poi. E se le Amministrazioni Pubbliche sono deputate all’erogazione di servizi, sarà anche necessario che ci sia qualcuno che ‘materialmente’ quei servizi li dispensi. Come far fronte alla carenza di personale se non con la somministrazione? Ed ecco che si profila un circolo vizioso, difficile da spezzare a legislazione invariata (o per lo meno – e per ora – fino al 2017, quando il turnover dovrebbe essere ripristinato). Circolo vizioso perché un Ente costretto al risparmio, di fatto spende per il personale somministrato cifre improponibili in un momento storico come questo.

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Per essere più chiaro userò, a titolo esemplificativo, dei termini impropri, ma di sicuro più efficaci. Io, Amministrazione costretta a limitare le spese anche per il personale, mi ritrovo con quattro impiegati, ma per raggiungere gli obiettivi che la Direzione mi ha imposto, in ragione delle stesse leggi che mi sottopongono a tale regime di austerità, avrei bisogno di almeno dieci dipendenti, così ne affitto altri quattro pagandoli quasi il doppio di quanto pagherei per quattro impiegati neoassunti con una posizione economica di primo livello. Quindi mi ritrovo con otto persone, quando me ne servirebbero invece dieci, e spendo di più di quanto non farei con dieci unità direttamente assunte da me, ma non posso fare diversamente. Non posso perché da un lato c’è il blocco delle assunzioni e dall’altro il mancato raggiungimento degli obiettivi per quest’anno comporterà, per esempio, una minor afflusso di fondi dall’Amministrazione Centrale o dal Ministero nel corso dell’anno venturo.
La domanda è allora quali sono i costi che un’Amministrazione affronta per un lavoratore somministrato? Il costo del lavoro per un lavoratore somministrato deve essere calcolato considerando le seguenti voci derivanti dall’applicazione del CCNL, dal CCNL integrativo e dalla normativa che disciplina il medesimo contratto di somministrazione:
1. retribuzione oraria, tredicesima mensilità, ratei tredicesima, ex festività, permessi retribuiti, ferie, ratei trattamento fine rapporto, oneri assicurativi contributivi. Gli oneri contributivi sono calcolati sulla base del CCNL applicato all’agenzia per il lavoro;
2. trattamento economico accessorio, la produttività, il servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto e altre voci derivanti dall’applicazione di contratti decentrati integrativi;
3. oneri di costo aggiuntivi previsti dalla normativa che disciplina il contratto di somministrazione. Ad esempio, quelli previsti dall’articolo 12, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 276,
sono i cd. fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare in misura pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l’esercizio di attività di somministrazione e destinati ad interventi a favore dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato intesi, in particolare, a promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione anche in funzione di continuità di occasioni di impiego e a prevedere specifiche misure di carattere previdenziale (comma 1), e destinati, inoltre, (comma 2) a:
a) iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori;
b) iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto agli appalti illeciti;
c) iniziative per l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori svantaggiati anche in regime di accreditamento con le regioni;
d) per la promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale;
4. da ultimo, ma più rilevante di tutti, il ‘prezzo’ di un lavoratore somministrato è dato da possibili scostamenti del costo dovuti a rinnovi contrattuali.

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Limitatamente al punto 4), il valore dell’offerta alla medesima Agenzia dovrà essere aggiornato prevedendo nel contratto una clausola di revisione dei prezzi in ragione dell’aumento del costo del lavoro legato ad aumenti contrattuali. Al riguardo, l’articolo 115, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 prevede che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi”.
Alla luce di queste voci di costo, rivolgo a voi la domanda: è opportuno il ricorso alla somministrazione da parte di una P.A. sottoposta a spending review? Anzi, poiché è di soldi pubblici che parliamo, è opportuno il ricorso alla somministrazione, a prescindere dalla fase economica che stiamo attraversando?
È opportuno che la politica consenta questo? E non solo…

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Negli ultimi anni, infatti, la nostra classe dirigente ha introdotto nel mercato del lavoro (evidentemente anche in quello pubblico) la nozione di flessibilità. A parte i maggiori oneri sostenuti dalle Amministrazioni, è possibile ravvisare una convenienza nell’immissione di queste atipiche tipologie di lavoratori anche nel settore pubblico. E in caso affermativo, a chi conviene? La stessa domanda può essere posta da un altro punto di vista: chi seleziona il personale somministrato? Nel Paese del clientelismo è naturale che sorga il dubbio e, come recita un vecchio adagio, a pensar male si fa peccato, ma si sbaglia raramente. Già, perché oltre ai maggiori oneri a carico dell’Amministrazione utilizzatrice, il lavoro somministrato si caratterizza per un’altra preoccupante peculiarità: la totale elusione dell’art. 97 della Costituzione. La ratio della norma costituzionale, benché svuotata del suo contenuto dopo anni di clientelismo, è quella di dotare gli Uffici Pubblici del miglior personale possibile, appunto mediante selezione concorsuale. Di fatto, nei sessant’anni di vita della Costituzione, il clientelismo italiota ha reso il disposto dell’art. 97 operativo solo in alcuni casi in cui è poco probabile che tutti i vincitori siano parenti e amici di chi conta: sono quei maxi concorsi da 300, 400, 500 anche fino a 1000 posti, che ora come ora la Corte dei Conti non potrebbe più autorizzare, salve le eccezioni del personale militare,di polizia e di quello ispettivo in Ministeri ed Agenzie. Chi sceglie, quindi, il lavoratore somministrato? O meglio chi lo segnala? Potremmo argomentare analogicamente partendo dallo svolgimento dei concorsi in certi Enti Locali, in cui si concorre in 700 per un posto solo. Ma lascio a voi le debite conclusioni. Vero è che eccezioni ve ne sono, nei concorsi per un posto solo come anche nel lavoro somministrato. Non tutti hanno la fortuna di conoscere la gente giusta. E mi rifiuto di pensare che il malcostume sia divenuto la sola regola imperante. Capita, infatti, di essere somministrati inizialmente per la sostituzione di una lunga malattia o di una maternità e poi di rimanere a fare quel lavoro anche dopo, magari per una serie di circostanze fortuite, ad esempio perché, nel frattempo, chi sostituivi ha trovato di meglio. C’è poi anche chi è arrivato dall’agenzia senza alcun appoggio per svolgere mansioni talmente infime che nessun ‘amico degli amici’ avrebbe mai accettato. Oggi forse sarebbe diverso, ma fino a sei, sette anni fa, assolutamente no.

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Per esempio, nella mia vita lavorativa ho conosciuto un imbustatore inizialmente assunto a chiamata e poi somministrato: un ragazzo che per poche centinaia di euro imbustava lettere per sei ore ogni due o tre giorni, in un primo periodo, e poi anche tutti i giorni: piegato su una scrivania fantozziana da cui, tra altissime pile di buste, sbucava fuori la sua testa. Io, nel frattempo, ho cambiato lavoro, città e regione, ma so che lui è riuscito a mostrare di saper fare ‘qualcosa’ di più che incollare buste e la dirigenza del suo Ufficio lo ha ‘promosso’ a impiegato. Nel frattempo è stata acquistata un’imbustatrice meccanica e questo giovane senza sponsor si è via via reso indispensabile e prezioso per il suo Ufficio. Di eccezioni ce ne sono, quindi. Ma queste rappresentano la terza ‘croce’ del lavoro somministrato nella P.A.: le competenze che nel tempo vengono acquisite dai lavoratori che fine fanno? Un lavoratore non può essere somministrato a vita in un’Amministrazione Pubblica, pur cambiando agenzia, vi sono dei limiti che impone la Legge, in primis quelli previsti dal D.Lgs 165/2001 per il t.d., e se, nonostante le riserve previste dal decreto D’Alia, la P.A. non indice alcun concorso, l’Ufficio si dovrà privare di un valido elemento per cedere il posto a un altro inesperto somministrato?

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Quanto agli stessi lavoratori vi è, infine, da considerare un quarto ed ultimo problema. Queste persone lavorano con l’ansia perenne del contratto in scadenza, prorogato anche di soli tre mesi in tre mesi, senza alcuna prospettiva futura, senza la possibilità di acquistare neppure un monolocale, anzi nemmeno un TV a rate, perché nessuna finanziaria ne accetterà mai la richiesta. Queste persone, che da contratto osservano l’orario di 36 ore settimanali, di fatto ne fanno molte di più. Per conservare il proprio precarissimo posto farebbero di tutto, di questi tempi. E quel di più non è certo retribuito. Talora è svolto in remoto da casa: fogli Excel, lettere, documenti elaborati la sera tardi affinché siano fruibili e pronti per la firma del Capo Struttura domattina alle otto. Il tutto con la sudditanza psicologica del precario dinanzi al classico impiegato pubblico in attesa della pensione: magari quello entrato con la 285 e che si aggira nei corridoi col bicchierino da caffè in mano e si lamenta ogni giorno della Riforma Fornero che lo obbliga a stare ancora lì, che rivendica pretese sindacali ad ogni ordine superiore e che a sua volta ‘scarica’ le proprie responsabilità sul precario non incardinato.

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A questo punto rinnovo la domanda. Ma a chi conviene tenere ancora certi carichi sul libro paga? Che vantaggio c’è nell’impedire l’accesso nella P.A. a giovani ben più svegli preparati e bisognosi di lavorare. Non c’è spending che giustifichi i costi della somministrazione. Come ho dimostrato, il blocco del turnover è un paradosso contabile. Lasciamo quindi che chi pesa sul bilancio della P.A. senza apportare alcun contributo vada in pensione e lasciamo una volta per tutte la flessibilità fuori dagli Uffici Pubblici, che necessitano di continuità nell’erogazione dei servizi. E infine miglioriamo qualità ed efficienza. Come? Per esempio applicando l’art. 97 della Costituzione.

Michele De Sanctis

Presentate oggi le candidature per la Lista Tsipras

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Presentata oggi la Lista Tsipras per le Europee. Non senza polemiche dell’ultima ora, la sinistra alternativa ha reso pubblici poche ore fa i nomi dei candidati, collegio per collegio, alle prossime consultazioni del 25 maggio. A poche ore dall’annuncio delle candidature la Lista si è però spaccata sul nome di Luca Casarini, leader dei Disobbedienti e volto che potrebbe raccogliere i voti dei movimenti sociali e della sinistra cosiddetta radicale – sebbene nei social network una parte di questo mondo abbia già ripudiato la candidatura dell’ex no-global per Tsipras. La candidatura di Casarini era stata messa in discussione per via delle diverse inchieste giudiziarie che lo vedono protagonista, ma tutte per reati sociali, cioè relativi all’attività politica. Il suo nome è stato confermato nel collegio centro, ma apprendiamo da Il Fatto Quotidiano che ‘Il caso ha tenuto occupati i sei garanti della Lista per tutta la sera dello scorso 2 marzo fino a produrre una spaccatura: Camilleri, Flores D’Arcias e Gallino contrari alla candidatura mentre Spinelli, Revelli e Viale si sono dichiarati favorevoli’.

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Come rivela Gad Lerner, la polemica su Casarini precede quelle create dal conseguente ritiro dello scrittore Camilleri, inizialmente dato come uno dei capilista. Tuttavia, dalle pagine web di MicroMega arriva netta la smentita: la candidatura di Camilleri non c’è mai stata. Evidentemente. Ma forse, trattandosi di uno dei garanti, qualcuno se l’era aspettata e l’avrebbe gradita. Forse. A ciò si aggiunga la questione Sonia Alfano. Secondo la ricostruzione de Il Fatto Quotidiano, il nome di Sonia Alfano, europarlamentare eletta con l’Italia dei Valori nel 2009 e molto apprezzata a sinistra, ha creato problemi non indifferenti tra i garanti della Lista in ragione dei suoi incarichi di parlamentare, consigliere regionale e parlamentare europeo a partire dal 2004. A differenza di Casarini, Sonia Alfano è perciò rimasta fuori.

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Nella liste, spiccano i nomi dell’editorialista Barbara Spinelli, della capolista al centro Lorella Zanardo, autrice del documentario ‘Il corpo delle donne’, lo scrittore e giornalista Ermanno Rea, il giornalista di Repubblica Curzio Maltese, Adriano Prosperi, Ermanno Rea, la scrittrice Valeria Parrella, Maria Elena Ledda, Giuliana Sgrena, la No Tav Nicoletta Dosio e dirigenti di partito come Fabio Amato ed Eleonora Forenza (Prc), Teresa Masciopinto, responsabile Culturale Area Sud di Banca Popolare Etica, Enzo Di Salvatore, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Teramo e l’economista Antonio Maria Perna.

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Da ultimo, si osserva quanto riportato da Repubblica nelle ultime ore, che rivela una notizia che con buona dose di probabilità porterà su queste candidature altre polemiche, poiché una parte dei candidati sarebbero stati inseriti nelle liste solo per trainare voti, ma qualora dovessero essere eletti si dimetteranno per lasciare il passo a quelli che sono i ‘veri’ candidati della lista L’Altra Europa con Tsipras.

Michele De Sanctis

BACK TO 1977. Disoccupazione da record: sale al 12,9%

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Record dei senza lavoro a gennaio 2014. Nello scorso mese di gennaio la disoccupazione è balzata al 12,9%, un aumento dell’1,1% su base annuale, mentre la disoccupazione giovanile è salita al 42,4%. Le rilevazioni sono state effettuate dall’Istat. Un tasso così alto di disoccupazione non si vedeva dal 1977. La percentuale dei disoccupati è, infatti, la più alta tra quelle registrate dall’Istituto di statistica dall’inizio delle serie sto­ri­che nel 1977.
Secondo i rilevamenti Istat, aumenta anche il numero dei cd. “scoraggiati”, quelli cioè che hanno ormai rinunciato a cercare lavoro: il dato si attesta intorno ai 2 milioni.
L’Istat segnala, inol­tre, il crollo dell’occupazione anche tra i pre­cari. Gli «ati­pici», così ven­gono defi­niti, sono dimi­nuiti di 197 mila unità.

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Di fronte a queste cifre e alle voci sempre più insistenti sul contenuto del Jobs Act, non siamo certi che sia sufficiente introdurre altra flessibilità nel mercato del lavoro per innescare un fenomeno di controtendenza e così miglio­rarne l’efficienza. L’Italia ha già assecondato il FMI e la Commissione UE (oltreché la Signora Merkel) e il risultato è stata una disastrosa riforma che ha persino creato una nuova categoria di senza lavoro e senza reddito, quella degli esodati. Dai rumors intorno al Jobs Act si apprende infatti la volontà dell’Esecutivo di intro­durre un nuovo con­tratto di inse­ri­mento, sospen­dendo l’articolo 18 (sic!) per tre anni a bene­fi­cio delle imprese. La finalità è quella di creare nuova occu­pa­zione, ma sospen­dere i diritti sui nuovi con­tratti di inse­ri­mento, impro­pria­mente defi­niti dal Jobs Act ‘con­tratto unico’ equivale a pre­ca­riz­zare ulteriormente il lavoro.
Bisogna puntare, invece, al repe­ri­mento delle risorse neces­sa­rie a finan­ziare il sus­si­dio uni­ver­sale di disoc­cu­pa­zione, prima di mirare alla riforma dei contratti di lavoro. L’estensione dell’Aspi isti­tuita dalla riforma For­nero, infatti, susciterà nei prossimi giorni forti polemiche, soprattutto se quei fondi verranno tolti alla Cassa Integrazione in deroga, come pare dalle prime indiscrezioni. Ma l’estensione è oramai divenuta necessaria per tanti, vitale per troppi. Nel contempo, il mondo del lavoro ha altresì bisogno di inve­sti­menti pub­blici per far ripar­tire la cre­scita, e di finanziamenti finalizzati al taglio del cuneo fiscale, almeno da 10 miliardi di euro come prospettato anche dal leader della minoranza PD Cuperlo e dalla CGIL.
Le cifre sulla disoccupazione sono più che preoccupanti: aumentano un allarme sociale, giunto ormai a livelli altissimi, a cui il Governo sarà chiamato a breve a dare una risposta.

Michele De Sanctis

I PUNTI DEL JOBS ACT DI MATTEO RENZI. SARÀ LA VERA CONTRORIFORMA FORNERO O LO SPIRITO RIFORMISTA RESTERÀ SOLO NEI TWEET DEL PREMIER 2.0?

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Annunciata da un tweet: la riforma del lavoro che il Governo Renzi si appresta a varare. L’obiettivo dichiarato è quello di creare posti di lavoro, rendendo semplice il sistema, incentivando la voglia di investire dei nostri imprenditori, attraendo capitali stranieri. Tra il 2008 e il 2012 l’Italia ha attratto 12 miliardi di euro all’anno di investimenti stranieri: metà della Germania, 25 miliardi, un terzo della Francia e della Spagna, 37 miliardi. Per la Banca Mondiale siamo al 73° posto al mondo per facilità di fare impresa (dopo la Romania, prima delle Seychelles). Per il World Economic Forum siamo al 42° posto per competitività (dopo la Polonia, prima della Turchia).
Sul suo sito, il Presidente del Consiglio, dopo questa premessa e l’invito a mettersi sotto per cambiare l’Italia, lasciando da parte l’ideologia, elenca i punti cruciali di quello che sarà il suo Jobs Act, che trovate anche di seguito.

Parte A – Il Sistema

1. Energia. Il dislivello tra aziende italiane e europee è insostenibile e pesa sulla produttività. Il primo segnale è ridurre del 10% il costo per le aziende, soprattutto per le piccole imprese che sono quelle che soffrono di più (Interventi dell’Autorità di Garanzia, riduzione degli incentivi cosiddetti interrompibili).
2. Tasse. Chi produce lavoro paga di meno, chi si muove in ambito finanziario paga di più, consentendo una riduzione del 10% dell’IRAP per le aziende. Segnale di equità oltre che concreto aiuto a chi investe.
3. Revisione della spesa. Vincolo di ogni risparmio di spesa corrente che arriverà dalla revisione della spesa alla corrispettiva riduzione fiscale sul reddito da lavoro.
4. Azioni dell’agenda digitale. Fatturazione elettronica, pagamenti elettronici, investimenti sulla rete.
5. Eliminazione dell’obbligo di iscrizione alle Camere di Commercio. Piccolo risparmio per le aziende, ma segnale contro ogni corporazioni. Funzioni delle Camere assegnate a Enti territoriali pubblici.
6. Eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico. Un dipendente pubblico è a tempo indeterminato se vince concorso. Un dirigente no. Stop allo strapotere delle burocrazie ministeriali.
7. Burocrazia. Intervento di semplificazione amministrativa sulla procedura di spesa pubblica sia per i residui ancora aperti (al Ministero dell’Ambiente circa 1 miliardo di euro sarebbe a disposizione immediatamente) sia per le strutture demaniali sul modello che vale oggi per gli interventi militari. I Sindaci decidono destinazioni, parere in 60 giorni di tutti i soggetti interessati, e poi nessuno può interrompere il processo. Obbligo di certezza della tempistica nel procedimento amministrativo, sia in sede di Conferenza dei servizi che di valutazione di impatto ambientale. Eliminazione della sospensiva nel giudizio amministrativo.
8. Adozione dell’obbligo di trasparenza: amministrazioni pubbliche, partiti, sindacati hanno il dovere di pubblicare online ogni entrata e ogni uscita, in modo chiaro, preciso e circostanziato.

Parte B – I nuovi posti di lavoro

Per ognuno di questi sette settori, il JobsAct conterrà un singolo piano industriale con indicazione delle singole azioni operative e concrete necessarie a creare posti di lavoro.
a) Cultura, turismo, agricoltura e cibo.
b) Made in Italy (dalla moda al design, passando per l’artigianato e per i makers)
c) ICT
d) Green Economy
e) Nuovo Welfare
f) Edilizia
g) Manifattura

Parte C – Le regole

I. Semplificazione delle norme. Presentazione entro otto mesi di un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero.
II. Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti.
III. Assegno universale per chi perde il posto di lavoro, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto, con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro.
IV. Obbligo di rendicontazione online ex post per ogni voce dei denari utilizzati per la formazione professionale finanziata da denaro pubblico. Ma presupposto dell’erogazione deve essere l’effettiva domanda delle imprese. Criteri di valutazione meritocratici delle agenzie di formazione con cancellazione dagli elenchi per chi non rispetta determinati standard di performance.
V. Agenzia Unica Federale che coordini e indirizzi i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali.
VI. Legge sulla rappresentatività sindacale e presenza dei rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori nei CDA delle grandi aziende.

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Dal 2008 ad oggi in Ita­lia si sono persi un milione di posti di lavoro. Circa 3 milioni e 300 mila disoc­cu­pati. Più del dop­pio dal gen­naio 2007. E tutti gli osser­va­tori con­fer­mano, ormai da anni, che anche dinanzi ad una ripresa, non si recu­pe­re­ranno i posti di lavoro persi. D’altro canto, l’Italia non vede neppure la timida luce di un inizio di ripresa.
Il Pre­si­dente del Con­si­glio, tuttavia, sa bene che serve qual­cosa di più con­creto di un semplice tweet e una serie di dichiarazioni di principio sul suo sito, perché gli italiani possano guardare al Jobs Act con fiducia. E infatti, sul punto sono già arrivate un paio di inter­vi­ste al respon­sa­bile eco­no­mia del PD Filippo Tad­dei (La Stampa) e a Ste­fano Sac­chi (La Repub­blica), quest’ultimo stu­dioso di Wel­fare, co-autore del libro Flex-insecurity (2009) e, probabilmente, neo con­su­lente del Governo Renzi. Ambe­due riten­gono prio­ri­ta­ria la tutela delle per­sone più svan­tag­giate. Si parla di Naspi, Nuova Aspi, per dif­fe­ren­ziarla da quell’ASPI intro­dotta dal Mini­stro For­nero. Sem­bre­rebbe una uni­ver­sa­liz­za­zione del sus­si­dio di disoc­cu­pa­zione, per venire incon­tro ai milioni di per­sone escluse dall’attuale sus­si­dio. Una risposta alle richieste dell’opposizione, peraltro: SEL e M5S, in particolare. Sembra positivo.

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Tuttavia i dati che forniscono sia Taddei che Sacchi sono pressoché discordanti. Se, infatti, dalle parole di Tad­dei leggiamo che «la pla­tea dei poten­ziali bene­fi­ciari si allar­ghe­rebbe di oltre 300mila» lavo­ra­tori a pro­getto, attual­mente senza garan­zie, Sac­chi aggiunge un altro milione di dipen­denti a ter­mine, som­mi­ni­strati, inte­ri­nali, anche loro fuori dai para­me­tri della Riforma For­nero. Qualcosa non torna, evidentemente. 300.000 o 1.300.000? E poi c’è da considerare cosa le parti sociali, sindacati e rappresentanze dei datori di lavoro, opporranno a questa riforma, anche per­ché i soldi andreb­bero presi dalla Cassa Inte­gra­zione Guadagni in deroga, fino ad oggi pro­lun­gata per far fronte alla crisi e a quegli effetti perversi della Riforma Fornero non preventivati dall’ex Ministro né dall’esecutivo del Prof. Monti. Ed è, inoltre, preoccupante il fatto che colla NASPI, comunque, rimar­reb­bero fuori dall’estensione del sus­si­dio i lavo­ra­tori auto­nomi, molti dei quali ridotti in con­di­zioni di pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento, con fisco e ver­sa­menti alla Gestione Sepa­rata INPS che restano impla­ca­bili, con Equitalia alla porta, ancor più implacabile. Si paventa, perciò, una riforma priva di una concreta equità sociale: assenza, questa, che man­tiene la nostra demo­cra­zia fuori da qual­siasi para­me­tro di redi­stri­bu­zione delle ric­chezze in favore delle per­sone a rischio di esclu­sione sociale. E ciò mentre il Paese resta immo­bile, anzi no, il Paese si muove, ma in caduta libera verso la defla­zione, tanta è ormai la carenza di liqui­dità economica. E nel frattempo si assiste ad una quotidiana guerra tra poveri. Sui social, per strada, negli Uffici Pubblici. Adesso chi spiegherà ai lavoratori autonomi per quale ragione dovranno versare i contributi INPS e pagare le tasse, anche se l’accesso al sussidio è a loro precluso. L’impiegato di turno allo sportello dell’INPS e dell’A.E.? E quale compagine politica lucrerà sul malcontento di un’intera classe di lavoratori? Lo vedremo presto: su certi blog, su Facebook e Twitter compariranno slogan e notizie recriminatorie annunciate da titoli shock e abbinate a immagini sommariamente photoshoppate e a banner sgrammaticati.
L’augurio e la speranza di chi scrive è che la Riforma sia concertata, che il dialogo con le parti sociali porti in primis equità sostanziale. Perché è di questo che abbiamo bisogno. Senza non ci sarà alcuna ripresa. Un guru che prometteva soluzioni miracolose c’è già stato: ed è dal ’94 che aspettiamo quel milione di posti di lavoro. Una riforma che comprenda tutti, nessuno escluso, è ciò che il Paese merita, perché senza, nessun Jobs Act potrebbe funzionare davvero. Il resto sono solo tweet, post e reblog: dal Governo all’Opposizione. Ma di concreto ancora niente…

Michele De Sanctis

Guasta è l’economia. La crisi, il lavoro, le risposte del mercato e le proposte per un nuovo progetto comune.

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di Michele De Sanctis

Dal 2008 ad oggi, tutto ciò che è apparso come qualcosa di nuovo, fin dal default degli Usa, è, in realtà, la riproposizione di quanto accade dal 1971. Dall’abbandono da parte degli Stati Uniti degli accordi di Bretton Woods, per l’esattezza. Durante la conferenza di Bretton Woods del ’44, infatti, erano stati presi degli accordi che avevano dato vita ad un sistema di regole e procedure volte a regolare la politica monetaria internazionale con l’obiettivo di governare i futuri rapporti economici e finanziari, impedendo di ritornare alla situazione che diede vita al secondo conflitto mondiale. La decisione si rese necessaria poiché tra le cause del secondo conflitto mondiale andavano, altresì, annoverate le diffuse pratiche protezionistiche portate avanti dai singoli Stati, le svalutazioni dei tassi di cambio per ragioni competitive e la scarsa collaborazione tra i Paesi in materia di politica monetaria. I due principali compiti della conferenza furono, perciò, la creazione di condizioni idonee ad una stabilizzazione dei tassi di cambio rispetto al dollaro (eletto a valuta principale) e la eliminazione di quelle condizioni di squilibrio determinate dai pagamenti internazionali (tale compito fu affidato al FMI). Secondo il sistema definito da Bretton Woods il dollaro era l’unica valuta convertibile in oro in base al cambio di 35 dollari contro un oncia del metallo prezioso. Il dollaro venne così eletto valuta di riferimento per gli scambi, mentre alle altre valute furono consentite solo oscillazioni limitate entro un regime di cambi fissi a parità centrale. Per raggiungere l’obiettivo di vigilare sulle nuove regole e sul sistema dei pagamenti internazionali furono creati il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Banca Mondiale), due importanti istituzioni esistenti ancora oggi, che diventarono operative nel 1946. Inizialmente il numero di Paesi aderenti al FMI era ridotto: per aderire ogni Stato doveva versare una quota in oro e una in valuta nazionale sulla base delle quali veniva deciso il proprio peso decisionale. L’obiettivo del Fondo era quello controllare la liquidità internazionale e coadiuvare i vari Paesi nel caso di difficoltà nella bilancia dei pagamenti.
Tuttavia, la guerra del Vietnam, il forte aumento della spesa pubblica e del debito americano segnarono la fine i questo sistema.
Infatti, il 15 agosto 1971 a Camp David Richard Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro le riserve americane si stavano sempre più assottigliando. Successivamente, il dicembre di quello stesso anno segnò il definitivo abbandono degli accordi di Bretton Woods da parte dei membri del G10 (il gruppo dei dieci Paesi formato da Germania, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia). Con lo Smithsonian Agreement il dollaro venne svalutato e si diede il via alla fluttuazione dei cambi.
Nondimeno, le istituzioni create a Bretton Woods sopravvissero ma si trovarono a ridefinire priorità e obiettivi. In particolare, il FMI, con la caduta di Bretton Woods, vide di fatto cambiare il proprio ruolo di sorveglianza. Con l’introduzione dei cambi flessibili e l’abbandono dello standard aureo, venne meno la necessità di gestire la liquidità internazionale e l’attenzione del FMI fu piuttosto portata sulle politiche macroeconomiche interne perseguite dai membri e sugli elementi strutturali dei loro mercati. Venne poi data priorità all’obiettivo di finanziamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti dei Paesi in via di sviluppo trasformando il FMI da prestatore a breve termine a prestatore a lungo termine. Pertanto, il FMI si trovò investito del compito di effettuare prestiti vincolati al rispetto di specifiche condizioni e a piani di rigorosa stabilizzazione macroeconomica. Una funzione che il FMI mantiene ancora oggi, come dimostrano i recenti sviluppi collegati alla crisi dell’Euro e ai piani di salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo, che vedono il Fondo quale prestatore di prima istanza insieme all’UE.
Con la fine degli accordi di Bretton Woods, dunque, gli USA hanno deciso, in base al loro potere politico e militare, di imporre il proprio indebitamento come peculiare modello di sviluppo, il cui costo, però, veniva fatto pagare agli altri. Debito privato, debito pubblico e consumo sostenuti dal mix tra debito interno ed esterno, tuttavia con dei fondamentali macroeconomici alquanto deboli: l’economia reale, già allora, mostrava, infatti, i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
È da questo momento in poi che può analizzarsi la genesi dell’attuale crisi, che altro non è che un sintomo di esaurimento messo in moto dal capitale americano in quegli anni per continuare ad attrarre manodopera a basso costo privata, tra l’altro, della garanzia dei diritti sindacali minimi, oltreché risorse materiali dal resto del mondo in forma di merci. Sempre a credito.

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Lo scenario economico internazionale, peraltro, acuisce le proprie criticità sistemiche all’indomani della caduta del muro di Berlino e il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare degli Stati Uniti, che, imponendo l’acquisto dei loro titoli hanno altresì imposto il sostegno della loro crescita basata su indebitamento ed economia di guerra. Successivamente, nel corso degli anni ’90 si aprì una fase di competizione globale, basata non tanto e non solo sul modello importatore degli americani, quanto segnata dai tentativi dell’Europa di trovare i suoi spazi di affermazione economica, puntando a un ruolo internazionale, con una forte posizione di esportatore svolto dalla Germania. Nel contempo, lo stesso modello di economia basata sulle esportazioni viene realizzato dalla Cina, che, grazie ai suoi avanzi nella bilancia dei pagamenti, decide di diventare il maggior compratore del debito statunitense. Il modello tirava e fu così che le banche tedesche e lo Stato cinese iniziarono ad acquistare titoli USA e, in parte, anche di altri Stati membri dell’UE. Questi ultimi, d’altro canto, dovevano subire lo strapotere tedesco e con questo la costruzione dell’Unione Europea come nuovo polo imperialista che, pur mancando di grande forza interna politica e militare, imponeva una logica economico-finanziaria tedesca.
Ma, come è ovvio, un sistema basato sull’indebitamento non può reggere all’infinito. Capita sempre che, a un certo punto, qualcuno presenti il conto!
Siamo a cavallo del 2007-2008. Negli USA scoppia la crisi dei subprime: il crack viene subito evidenziato come crisi finanziaria dovuto allo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie, ma è solo la punta dell’iceberg. In realtà, più che finanziaria è una crisi dell’economia reale, dei meccanismi stessi dell’accumulazione: erano, cioè, gli stessi meccanismi del modo di produzione capitalistico che si erano ‘inceppati’ già nei primi anni ’70 e che nel 2008 dimostravano quanto quella crisi fosse divenuta ineluttabile, irreversibile e di carattere sistemico. Le privatizzazioni, l’attacco indiscriminato al costo del lavoro, al sistema del welfare e ai diritti, ma soprattutto la finanziarizzazione dell’economia finora hanno soltanto cercato di coprire una crisi dell’economia reale che si porta dietro il carattere della strutturalità e della sistemicità.
La competizione globale si inasprisce, così come pure il tentativo di centralizzare la ricchezza in poche mani, tentativo, peraltro, accompagnato da sempre più frequenti ‘guerre’: economico-finanziaria, commerciale e sociale. E infine da guerre militari per accaparrarsi nuove risorse. La caduta del regime di Gheddafi, per esempio, non è stata solo esportazione di democrazia, ma prima ancora è stata una conquista di matrice imperialista.
Contemporaneamente, la finanziarizzazione allargava il proprio giro, segnando l’arrivo dei Paesi che prima venivano denominati paesi in via di sviluppo, che ora divengono emergenti: i cosiddetti BRICS.
Sul fronte UE, invece, il modello esportatore tedesco, che aveva ormai sempre più bisogno di importatori, anche direttamente europei, porta la Germania ad investire l’avanzo che matura comprando titoli dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). A loro volta, questi Paesi sono costretti ad indebitarsi per rispondere alle regole dell’euro, soffocando le proprie economie e massacrando il mondo del lavoro per garantire che la “questione” dell’Euro rimanga funzionale allo sviluppo esportatore della Germania (e in seconda battuta agli interessi francesi). Gli stessi Stati Uniti hanno un indebitamento in parte sostenuto dalla Germania oltre che dalla Cina. La competizione, però, oggi è ancora più aspra, come si è già accennato, perché ci sono nuovi competitor e i BRICS rivendicano il loro spazio.
A questo punto gli USA che non hanno più la forza politica e militare per imporre al mondo il proprio modello di sviluppo fondato sul loro indebitamento, si vedono costretti a chiedere l’innalzamento del debito appunto perché sanno che fuori dai loro confini non troverebbero poi tanti soggetti disposti a finanziare il Paese come avveniva nella vigenza del precedente modello economico. E questa è la prova che il mondo a guida unipolare basato sull’egemonia statunitense è ormai tramontato.
Quello di spostare il problema del debito più avanti, cioè di tentare di far fronte al deficit, che è un dato congiunturale di flusso, trasformandolo in esposizione strutturale di stock, è un problema non solo americano, ma anche italiano. L’Italia sembra, infatti, entrata in una spirale perversa tra recessione e maggiori interessi sulla vendita dei titoli che dovrebbero servire a finanziare il debito (sic!). Il dato preoccupante, però, è che un esposizione strutturale di stock oggi sarà debito sovrano domani. Cioè il debito che penderà sulle future generazioni di lavoratori. E i meccanismi per far fronte al deficit, certe manovre ‘lacrime e sangue’ che ci vengono imposte per la prima volta, diventeranno la norma. Perché fintantoché si continuerà a far cassa a discapito dei lavoratori ogni manovra sarà lacrime e sangue. Ma se il debito continuerà ad essere finanziato con altro debito, con la vendita, cioè, di altri titoli, il circolo vizioso che s’è creato potrà spezzarsi con molta difficoltà. Perché diventerà il sistema. La parte di deficit che si capitalizza, quindi, è una mannaia per le generazioni del futuro.

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Ho parlato di spirale perversa, di circolo vizioso, ma, in realtà, il meccanismo descritto altro non è che semplice speculazione finanziaria. Eppure, all’indomani del crollo dei subprime americani ad essere messi sotto accusa non era stata proprio la finanza speculativa? La risposta è ovvia quanto evidente. Il mercato non conosce sazietà. “Guasto e’ il mondo, preda di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula mentre gli uomini vanno in rovina” recita la tomba del poeta inglese Oliver Goldsmith.
Guasto è il mondo, diceva Tony Judt nel testo che ha lasciato in eredità al l’umanità. Guasto perché il mercato è lasciato a se stesso, senza controlli o con meno controlli, perché il mercato che ha divorato se stesso ha ancor più necessità d’essere alimentato. Guasto perché gli appetiti personali sono diventati di colpo coraggiose virtù, la diseguaglianza s’è diffusa; la finanza, non più il lavoro e la produzione, è diventata la risorsa prima dell’economia. Guasto perché alla fine è arrivato il conto da pagare, salatissimo.
Il problema che si pone non è quello della crisi finanziaria ma di una crisi del modello di accumulazione: in crisi è quindi l’intero sistema capitalista. La finanza speculativa, che doveva essere quella in crisi, si sta, invece, riaffacciando in modo prepotente sfoderando armi diverse e combattendo su nuovi terreni. La speculazione finanziaria è ancora lì, come un avvoltoio, con quegli strumenti creativi con cui aggredisce chi non accetta le regole di dominio e che non effettua attacchi sempre più pesanti contro il salario diretto, indiretto e differito.
Sotto l’effetto di interessi particolari ed appetiti economici Gli ideali e la volontà di costruire una società coesa, prevalenti in Occidente nel dopoguerra, sono stati colpevolmente lasciati cadere. Per qualche decennio, hanno fatto da guida gli ideali keynesiani di un mercato temperato dall’intervento dello Stato. Le migliori leggi e le migliori politiche sociali adottate dall’America nel corso del XX secolo corrispondono in gran parte a ciò che gli europei chiamano socialdemocrazia. Ma poi qualcosa si è rotto: “Dovunque ti girassi” scrive Judt, “trovavi un economista o un ‘esperto’ che decantava le virtù della deregolamentazione, dello Stato minimo e delle tasse basse”. L’abbiamo sentita cantare anche noi questa canzone e ne stiamo sopportando i risultati.
Per uscire dal debito greco, per esempio, si stanno approntando nuovi strumenti di finanza creativa che dilazionano l’indebitamento e creano le premesse di nuovi collassi. La finanzia continua a svolgere il suo ruolo speculativo, in questo gioco al massacro ai danni delle casse pubbliche, dei salari e dello Stato sociale.
Il problema non è dunque la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ma il fatto – piuttosto – che per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale, anzi, ormai questo è diventato l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane.
In questo modo di fare, anzi di vivere, lo Stato è diventato un problema non una soluzione; le disuguaglianze sociali aumentano perché tutto si incentra sulla capacità e sulla furbizia di ciascun individuo, mentre i redditi tendono a concentrarsi nella cuspide della piramide in quanto lo sviluppo “sociale” del dopoguerra diventa “personale” per essere definitivamente abbandonato.
Il problema, pertanto, non è solo economico, ma altresì etico e politico. Secondo Hessel, le società civili, i giovani, in particolare, hanno il dovere morale di reagire di fronte a questa situazione. Di indignarsi! Secondo Judt, poi, avere idee nuove, per una società nuova, intendo, è fondamentale, in quanto è da qui che si parte per nuove correnti di pensiero, correnti che un giorno, magari, si trasformeranno in vere e proprie leggi.
Se la società è scomparsa a favore degli individui e se tutto ma proprio tutto verte sull’economia, ciò che riguarda l’etica – che implicitamente significa eguaglianza – diventa ogni giorno di più una cosa risibile. Ma questa cosa risibile è proprio il nostro punto da cui ripartire per riformare l’intera società. Oggi rivoluzione significa che dobbiamo tendere alla formazione di una “società nuova”. Bisogna, infatti, coniugare l’efficienza del capitalismo con la società, riducendo gli squilibri e permettendo allo Stato di rimanere un attore fondamentale all’interno del sistema sociale e del mercato.

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La politica, dunque, è la strada maestra, l’unica via percorribile affinché si possano regolamentare difendere i cittadini più deboli e vessati da questo sistema, cittadini che ogni giorno aumentano sempre di più. È, pertanto, indispensabile l’impegno politico e sociale di tutti i cittadini, che devono continuamente spronare e stimolare il dibattito pubblico, al fine di evitare che si spenga tra le ceneri del potere.
Se infatti ci si arrendesse, il gioco al massacro a cui stiamo assistendo continuerà finché il numero delle vittime non sarà superiore a quello dei salvati. E accadrà davvero se non ci riappropriamo di un’etica della politica e se, nel contempo, non smettiamo di pensarci come singoli individui, piuttosto che come membri di un’unica società.
Dal punto di vista pratico, per mettere un argine a questa situazione, per lo meno nel vecchio continente, bisogna innanzitutto abbandonare la via tracciata dalla Trojka. Infatti, la cosa assurda è che chi dovrebbe confezionare proposte in grado di tirarci fuori da questa situazione in realtà pensa agli interessi di una sola parte dei Paese di Eurolandia, i ricchi e i soliti noti, banchieri e finanzieri, come dimostrano le ultime leggi finanziarie e la legge di stabilità. Secondo Luciano Vasapollo, docente di Economia applicata a La Sapienza, una prima risposta può essere lanciare una campagna del mondo del lavoro non contro l’Europa, ma contro le regole del massacro sociale imposte dalle compatibilità economico-finanziarie dell’euro. La seconda questione che va posta all’ordine del giorno è rilanciare una serie di politiche in ordine ad un’efficiente nazionalizzazione e statalizzazione delle banche e dei settori strategici dell’economia. Il debito sovrano sta diventando un nodo nei Paesi deboli, perché con i soldi pubblici si sono finanziate le banche. Quindi la prima nazionalizzazione deve essere del sistema bancario. E poi è necessario porre immediatamente la soluzione del nodo dei settori strategici di energia, trasporti e comunicazioni che devono da subito ritornare in mano allo Stato. Quello che Vasapollo prospetta nel suo illuminante saggio del 2011 ‘Il risveglio dei maiali. PIIGS. Le proposte di CESTES-PROTEO’ sembrerebbe un ritorno agli anni 50-60, quando si creò in Italia una forte economia mista, con un welfare vero e un futuro per i giovani.
Tuttavia, le tesi di Vasapollo sono in linea con quelle di altri economisti critici ed eterodossi, che, nelle loro varie componenti, stanno cercando di trovare un accordo su un programma minimo di controtendenza da proporre e insieme praticare con il ruolo centrale del sindacalismo conflittuale di classe. In ogni caso, se da un punto di vista logico, esistono, infatti, varie alternative possibili alla attuale competizione globale, fino alla maggiore determinazione del superamento del modo di produzione capitalista, d’altro canto ognuna presenta distinti gradi di probabilità in funzione di ragioni tecnico-economiche o politico-sociali. Ciò che più rileva, comunque, è che qualsiasi proposta attuabile dovrà “fare i conti”, in primo luogo, con la tecnologia. Il cambio tecnologico può rappresentare un progresso tecnico e sociale solo se è frutto di una decisione collettiva dei lavoratori, maggioritaria, responsabile, aperta al dialogo, negoziata e contrattata. Dall’epoca “luddista” – l’epoca di quegli operai che distruggevano le macchine che andavano ormai a prendere il loro posto nelle fabbriche tessili -, i sindacati dei lavoratori hanno rinunciato a controllare, a regolare e a partecipare nel senso e nell’orientamento del cambio tecnico. È stata una decisione che si è lasciata sempre in mano agli imprenditori e al capitale. Invertire questa tendenza secolare implica intendere in altra maniera lo sviluppo democratico, comprendere che il dibattito sulla tecnologia, che è in fondo parte del dibattito tra marxisti, esige che tra i lavoratori vi sia una cultura tecnologica – che oggi non c’è -, delle strutture che servano a canalizzare e organizzare il dibattito sul cambio tecnico. L’attuale processo di privatizzazione delle risorse, per esempio, verrebbe superato proprio da questa nuova cultura tecnologica. In secondo luogo, anche l’economista Vasapollo dichiara la necessità etica di un cambiamento radicale di tipo socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune): un cambio che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica. La politica, infatti, è sempre stata al servizio dell’economia, quantomeno dal XIX secolo. Il discorso politico occultava precedentemente questi interessi nell’essenza dell’economia; ma nel XX secolo c’è stata una svolta, il discorso politico è stato colonizzato dagli interessi economici, tanto che oggi sembra che parlare di politica sia esclusivamente parlare di economia, di spesa pubblica, di interessi, di imposte, di marche legali, di legislazione del lavoro o legislazione commerciale. Questo è logico solamente in un sistema che subordina lo sviluppo sociale agli interessi di mercato.

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Le proposte concrete e immediate sono quindi quelle offerte da nazionalizzazioni, investimenti in edilizia pubblica, lavoro e salario pieno e a totalità di diritti veri, di uscita dall’euro (o quantomeno di creazione di un euro debole nell’area mediterranea e in Irlanda), ma più importante di tutte è la proposta di azzeramento del debito. Questi sono i primi punti qualificanti il programma minimo di controtendenza.
Il problema è che l’economia finanziaria non crea risorse perché sul medio periodo è un gioco a somma zero, quindi in questo ballo mascherato delle celebrità , cioè dei potentati finanziari devono entrarci gli Stati, i lavoratori, in ultima istanza, su cui si scarica tutta la durezza e drammaticità della crisi. Per esempio, in Grecia non bisogna dilazionare ma dare un taglio netto. E del resto è quanto è già stato fatto in Sud America, ad esempio quando l’Argentina girò le spalle al Fondo Monetario Internazionale. Se si entra nella logica della diminuzione del tasso di interesse e di allungamento del debito, il ricatto diventa continuo e l’economia reale perde completamente i parametri di sostenibilità sociale e ambientale. Per questo, un’alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia. L’Europa deve costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito in piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi. Solo così l’autonomia di classe potrà assumere un vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da quel sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione che il capitale sia stato in grado di conoscere. E in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi, ma nella crisi deve trovare gli elementi del rafforzamento della sua soggettività politica. Ciò vuol dire che non è accettabile alcuna gestione della crisi da parte dei lavoratori, né è ammissibile un nuovo sistema compatibile con la sopravvivenza del capitalismo: l’indipendenza del mondo del lavoro dal cosiddetto ‘sviluppismo’ capitalista significa in primis non collaborare ma offrire un proprio programma minimo di classe al di là delle compatibilità del capitale, esprimendo, così, tutta la propria autonomia nella conflittualità. Entrare nel gioco significherebbe piuttosto morire nel gioco! Sono sempre i più deboli che soccombono: prosperano, cioè, i fondi pensione e di investimento e perdono i lavoratori con la privazione di pensioni e salari, del welfare e dei diritti sociali.

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Subordinare l’economia alla politica sarebbe quindi un’alternativa alla mondializzazione capitalista realmente esistente. Non è, in fondo, altra cosa del vecchio, ma non antico né superato, programma delle organizzazioni internazionali di classe: la subordinazione del capitale al lavoro, della produzione all’essere umano.

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