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LAUREATI, LAVORO E PRECARIETA’

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di Michele De Sanctis

Presentato oggi a Bologna nel corso del Convegno ‘Imprenditorialità e innovazione: il ruolo dei laureati’ il XVI Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. L’analisi ha coinvolto a livello nazionale quasi 450.000 laureati di tutte le 64 università aderenti al consorzio.

Dal 2008, primo anno della crisi, ad oggi, il tasso di disoccupazione tra i neolaureati è più che raddioppiato. Infatti, sei anni fa a rimanere senza impiego a un anno dalla laurea era soltanto il 10% circa dei neodottori, mentre oggi la percentuale dei laureati triennali senza lavoro a un anno dalla tesi è salita al 26,5%, mentre è aumentata fino al 22,9% per le lauree specialistiche e al 24,4% per quelle magistrali a ciclo unico. Il tasso di disoccupazione, poi, si inasprisce in determinati settori: le maggiori difficoltà nella ricerca di un’occupazione sono quelle riscontrate dai laureati in giurisprudenza, architettura e veterinaria. Rispetto al 2008, la percentuale dei senza lavoro tra i laureati in queste discipline appare addirittura triplicata.

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Ma l’indagine condotta dal consorzio AlmaLaurea, realizzata attraverso un’analisi comparata delle generazioni che sono passate per le aule accademiche tra il 2008 e il 2013, non si ferma qua e si spinge anche ai rapporti di lavoro conclusi dai più fortunati, fortunati in senso lato, s’intende. Nel 2008 i giovani che riuscivano a firmare un contratto di lavoro a tempo indeterminato dopo una laurea triennale erano il 41,8% e il 33,9% di quelli che avevano completato anche il biennio successivo. Oggi le percentuali sono rispettivamente di 26,9% e 25,7%, a fronte di una retribuzione diminuita di circa il 20% rispetto a sei anni fa. Le retribuzioni in termini nominali sono, infatti, passate da 1.300 Euro mensili del 2008 ai 1.000 del 2013.

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Nonostante questi dati sconfortanti, che danno da pensare ai genitori di coloro che frequentano l’ultimo anno di scuola e preoccupano chi si avvicina al conseguimento della sudata laurea, ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, sono stati proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici. Tra il 2007 e il 2013, infatti, il differenziale tra il tasso di disoccupazione dei neolaureati e dei neodiplomati è passato da 2,6 punti percentuali a 11,9. La laurea, pertanto, benché destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, continua ad essere un importante strumento nella ricerca di un lavoro, per lo meno più utile del solo diploma. Molte famiglie negli ultimi tempi non riescono ad affrontare le tasse universitarie che, anche per effetto di certi meccanismi di finanziamento introdotti dall’ex Ministro Gelmini con la L. 240/2010, diventano più alte di anno in anno. Soprattutto dinanzi ad una crisi che sembra non guardare in faccia a nessuno, molti giovani abbandonano gli studi dopo il diploma, pensando che laurearsi non serva a nulla, che sia un sacrificio economico inutile, finendo, così, per allargare le fila di quella parte di popolazione che non solo è bloccata dalla recessione, ma anche dallo scarso tasso di specializzazione delle proprie conoscenze, senza cui è impensabile un recupero dei livelli di sviluppo socioeconomici raggiunti prima della crisi.

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Per uscire da questa situazione, gli autori del rapporto AlmaLaurea suggeriscono di dare maggior peso alla conoscenza e alla competenza, piuttosto che perseverare nel premiare, come ancora accade, l’anzianità anagrafica e di servizio. I laureati entrati da poco nel mercato del lavoro avranno sicuramente avuto a che fare con figure apicali non curriculate. Ed indicano, peraltro, due linee di intervento assolutamente necessarie. Da una parte, chiedono misure di sostegno all’imprenditorialità dei laureati, dunque sviluppo di venture capital, cioè apporto di capitale di rischio da parte di investitori per finanziare l’avvio di attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo, oltreché una più capillare presenza di business angels, ossia di quegli investitori informali, ex titolari di impresa, manager in pensione o in attività, liberi professionisti che abbiano il gusto della sfida imprenditoriale, il desiderio di poter acquisire parte di una società che operi in un business, spesso innovativo, rischioso ma ad alto rendimento atteso, e, infine, una maggiore diffusione dell’educazione imprenditoriale. Dall’altra parte, invitano a puntare al rientro dei cervelli in fuga attraverso l’offerta di migliori prospettive occupazionali, sia in termini retributivi che di qualità del lavoro, di accrescere le risorse destinate alla ricerca sia dallo Stato sia dai privati e di introdurre strumenti di valorizzazione del merito.

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Circa dieci giorni fa Matteo Renzi ha annunciato attraverso Twitter un programma per il rilancio del lavoro: il Jobs Act. Noi di BlogNomos ne abbiamo parlato, riportandovi i punti che il premier intende sviluppare e le prime indiscrezioni su quali saranno le novità in materia previdenziale ed occupazionale. E seguiremo l’iter dei lavori, tenendovi aggiornati costantemente. Quelli descritti finora sono stati solo i dettagli. Il Presidente del Consiglio ha twittato in più di un’occasione la necessità di fare qualcosa per intervenire in un’area così delicata. Da un lato i giovani neolaureati ed inoccupati che chiedono interventi urgenti per favorire la loro entrata nel mercato del lavoro, dall’altro quelli che di lavoro non ne sono riusciti a trovare e che tentano adesso la via dell’imprenditorialità, chiedendo riforme in materia di semplificazione e defiscalizzazione. Rispondere ad entrambe le richieste aumenterebbe il numero di posti di lavoro, senza, peraltro, ricorrere ancora una volta alla stipula generalizzata di contratti precari di lavoro. Ad essere precarie sono, infatti, solo le condizioni contrattuali che la Trojka ci ha costretti ad introdurre nei nostri rapporti di lavoro, ma la vita di un giovane che esce oggi dall’università non può diventare essa stessa precaria solo perché ce lo chiede l’Europa. Abbiamo diritto a un futuro ed è un diritto che vogliamo esercitare subito. L’augurio è, quindi, che questo rapporto di AlmaLaurea influenzi positivamente e in maniera ‘fattiva’ le scelte che il Governo prenderà nella stesura del Jobs Act.

Womenomics. Un ruolo per l’occupazione e la valorizzazione del talento femminile nell’attuale crisi finanziaria ed economica.

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Le donne oggi costituiscono un immenso serbatoio di talento nel mondo del lavoro e rappresentano più della metà del mercato dei beni di consumo. Raggiungere le consumatrici e sviluppare il talento femminile è essenziale per far fronte alle sfide del ventunesimo secolo. È dimostrato infatti che un miglior equilibrio di genere nelle imprese – a tutti i livelli, ma soprattutto ai piani alti – porta a risultati migliori. Perché allora sono ancora così poche le donne in ruoli di leadership nelle aziende? Perché le imprese hanno difficoltà a rispondere adeguatamente alle esigenze delle consumatrici di oggi? Perché in tutto il mondo continua a persistere un divario salariale tra uomini e donne? Gli attuali sistemi aziendali e le relative culture non sono più adeguati né all’articolazione dell’odierna forza lavoro, né alla complessità della società, né alle sfide future. Bisogna uscire dai vecchi schemi e compiere una vera e propria rivoluzione culturale per rendersi conto che le donne nel mondo del lavoro non costituiscono un problema etico, ma una necessità economica. Portatrici di attitudini e capacità diverse, esse costituiscono una gigantesca opportunità e favorirne l’ascesa alle posizioni di vertice è urgente per assicurare una crescita sostenibile dell’economia.

Ad oggi, il mondo paga ancora (e a caro prezzo) i costi di una situazione in cui le donne probabilmente hanno le chiavi, ma gli uomini continuano a controllare l’accesso alla serratura.

Il nostro Paese, poi, non si è mai distinto per politiche di genere particolarmente efficienti. Maurizio Ferrera, professore presso l’Università degli Studi di Milano nel saggio “Il fattore D” (edito da Mondadori) analizza le implicazioni che sul piano economico avrebbe la valorizzazione delle risorse femminili. Da anni l’Italia cresce poco o nulla. Cresce poco dal punto di vista economico. E cresce ancora meno sul piano demografico. Negli ultimi tempi sono state scritte molte pagine e sono state spese fin troppe parole per elencare tutto quello che andrebbe fatto per rimettere in moto il Paese: liberalizzazioni, mercati più efficienti, fisco più leggero, investimenti in ricerca e innovazione. Eppure esiste una risorsa più importante di ogni altra, di cui si parla poco: il lavoro femminile. Fare largo alle donne e promuoverne l’occupazione femminile è diventato urgente non solo per ragioni di pari opportunità e di giustizia sociale, ma soprattutto perché senza di loro l’Italia non cresce. Si pensi ai crescenti tassi di disoccupazione femminile, che si attestano intorno al 13% circa, con un tasso di aumento pari allo 0,9% su base annua. Percentuali che su base geografica lasciano basiti: nel secondo trimestre 2012 l’Istat evidenziava che nel solo Mezzogiorno il tasso di disoccupazione tra le 15-24enni era salito del 48% rispetto al primo trimestre. L’Italia, senza rendersene conto, sta quindi rinunciando a quello che recentemente si è rivelato essere il vero motore dell’economia mondiale: nell’ultimo decennio l’incremento dell’occupazione femminile negli altri Paesi sviluppati ha contribuito alla crescita globale più dell’intera economia cinese. Il fattore D, il lavoro delle donne, è un fattore decisivo di crescita, perché garantisce più ricchezza alle famiglie.

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Ma cos’è il fattore D? Bene, pensiamo che in Italia per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. L’ingresso nel mercato di 100 mila donne oggi inattive, infatti, farebbe crescere il nostro PIL di 0,3 punti l’anno. La Banca d’Italia stima, peraltro, che se la percentuale di lavoratrici donne (oggi il 47%) raggiungesse gli obiettivi dei Lisbona (il 60%), ci sarebbe un impatto sul PIL di 7 punti. Questo fattore di crescita è, appunto, il fattore D. Ed è un dato sorprendente. Ma com’è possibile? Se più donne lavorassero otterremmo un nuovo moltiplicatore di benessere perché ogni donna che inizia a lavorare avrebbe necessità di delegare il lavoro di casa ad altri: dalla spesa alla cura dei figli, degli anziani e della casa. In questo modo ogni donna occupata potrebbe generare nuova domanda di lavoro in altri settori. E, ai fini dell’economia domestica, l’apporto di uno stipendio in più non può che accrescere il benessere della famiglia.

Anche The Economist stima che in Paesi come il Giappone, la Germania e l’Italia, che sono tutti in difficoltà demografica, lavorano molte meno donne che in America, per non parlare della Svezia. Il problema non è solo italiano, per una volta. Ma se la forza lavoro femminile arrivasse ai livelli americani, ciò darebbe una potente spinta alla crescita economica.

Il fattore D, la rivoluzione economica che aiuterebbe il vecchio continente a riprendersi dalla peggior crisi di sempre è una nuova formula della crescita: donne, lavoro, economia, fecondità. In altre parole, womenomics! Fu proprio l’Economist a coniare per primo questo neologismo nel 2007 (Womenomics revisited, The Economist 19/04/2007), riprendendo una tesi lanciata da Goldman Sachs già nel 1999. Come si accennava poco fa, la prima interessante scoperta è la stretta connessione tra lavoro femminile e crescita economica, per cui si stima che verrà dal lavoro femminile l’impulso più importante alla crescita nel prossimo futuro. La formula della womenomics in base alla quale la crescita economica dipende dall’impiego di donne, lavoro, economia e fecondità è la prima a legare le tematiche delle cosiddette pari opportunità agli indicatori di crescita economici di un Paese: senza un maggior apporto alla produzione da parte delle donne l’economia mondiale non cresce sufficientemente. Nei Paesi dove questa partecipazione è alta anche i problemi demografici sono minori. Il corollario della womenomics è quindi che se più donne lavorano, aumenta anche la fertilità di un’intera Nazione. E questo dato, peraltro, aumenta ancora di più se sul territorio ci sono buoni servizi di conciliazione come gli asili. L’assunto alla base è che le donne non devono più trovarsi nella condizione di scegliere se fare un figlio o lavorare.

Le basi culturali per la rivoluzione in rosa ci sono già, anche nel nostro Paese, dove purtroppo la mentalità del maschio dominante è ancora abbastanza diffusa. Il professor Ferrera, però, spiega che negli ultimi anni è senza dubbio cambiata la qualità del dibattito. Le tesi della womenomics sono diventate patrimonio comune, sono uscite ricerche e libri importanti, si sono creati siti, blog, movimenti. Anche a livello parlamentare, qui in Italia, sono nate alleanze trasversali su alcuni temi e quindi la qualità del dibattito è ora simile a quella degli altri Paesi europei. A questa evoluzione sul piano culturale non è però corrisposta un’azione di governo capace di mettere in pratica le ricette proposte. Il tasso di occupazione femminile è ancora fermo al palo, sul tema della conciliazione non si è andato molto avanti, stesso discorso per i congedi parentali. Il progetto asili nidi lanciato dal governo Prodi è stato frenato a livello regionale e non è stato più ripreso dai Governi successivi e le politiche per la famiglia e la conciliazione non sono state finanziate. Eppure, nonostante la politica e le istituzioni siano lente nel percepire e nell’attivarsi, rimane questa la formula dello sviluppo: le donne che lavorano saranno il motore dell’economia di domani, anche come via di fuga dalla crisi. L’attenzione è da porre sui soggetti che ne beneficeranno. Womenomics significa benessere e crescita per tutti, non solo per le donne.

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Le azioni più urgenti da intraprendere (e che il Governo Renzi, così sensibile al tema delle quote rosa, dovrebbe perseguire) sono diverse. In particolare la possibilità, per le donne che già lavorano, di poter usufruire di un orario flessibile, che permetta loro di conciliare i tempi della famiglia (le esigenze dei bambini come anche degli anziani) con quelli del lavoro. Flessibilità degli orari, non dei contratti. Anzi, sul punto andrebbero prese azioni urgenti contro la prassi delle cd. dimissioni in bianco e rivista la disciplina del congedo parentale per incentivare il ruolo del padre nella cura dei figli e anche per evitare che le carriere delle donne siano influenzate negativamente da una concentrazione del congedo solo sulla madre. Nonostante i papà ne abbiano la facoltà, sono rari i casi in cui siano loro ad usufruirne, soprattutto nel lavoro privato. Per quanto riguarda le agevolazioni per incentivare la womenomics, quello che più convince l’autore di Il Fattore D è il modello francese: l’introduzione, cioè, di maggiori agevolazioni fiscali ai nuclei familiari, così da consentire lo sviluppo di nuovi servizi alle famiglie e creare nuovi posti di lavoro.

Da ultimo, si evidenzia l’importanza della womenomics non solo a livello macro, ma anche nella gestione dell’impresa privata. Molteplici esperienze e casi aziendali hanno già provato, non solo negli States, che l’equilibrio tra i generi porta più innovazione e migliori risultati nel business e nel governo aziendale; dopotutto le donne costituiscono la maggioranza del mercato e gran parte del talento attivo nel mondo del lavoro. A rivelarlo è Avivah Wittenberg-Cox – autorità mondiale su temi di leadership, genere e impresa – che nel saggio ‘Womenomics in azienda. Come valorizzare i telenti femminili e trarre profitto da un buon equilibrio di genere’ mostra come sia necessario raggiungere nel mondo del lavoro e del business un proficuo e salutare equilibrio dei due generi, maschile e femminile, e come mettere in pratica questo postulato in quattro semplici fasi: Audit, Consapevolezza, Allineamento e Sostegno. Alcune tra le più grandi aziende di punta nel mondo hanno già tratto beneficio e profitto dal riequilibrio delle loro attività.

È un’occasione che non possiamo perdere. E’ una sfida alla mentalità ottusa e machista, è il punto da cui ripartire, uomini e donne, per avviare la ripresa della nostra più grande ‘azienda’: l’Italia.

Michele De Sanctis

Lavoro somministrato nella Pubblica Amministrazione. Quer pasticciaccio brutto della spending review.

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Il decreto 276 del 2003 e successive modifiche, con particolare riguardo a quelle introdotte dal decreto legislativo del 2 marzo 2012, n. 24, sostituendo il lavoro interinale con quello somministrato, ha disciplinato, tra l’altro, la materia del contratto di somministrazione di lavoro applicabile, entro determinati limiti e vincoli, anche alle Pubbliche Amministrazioni. Sebbene, infatti, l’art. 1, comma 2 del decreto in parola escluda espressamente le Pubbliche Amministrazioni e il relativo personale dalla sua applicazione, il successivo articolo 86, comma 9 prevede espressamente che la somministrazione di lavoro trovi applicazione anche alla P.A. limitatamente ai contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Si tratta di una norma di raccordo che consente quindi l’applicazione dell’istituto previsto dalla cd. Legge Biagi anche alla Pubblica Amministrazione.

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Più di recente l’Unione Europea è poi intervenuta sul tema con la direttiva 2008/104/CE, pubblicata in G.U.R.I. n. 69 del 22/03/2012, dedicata, per l’appunto, al lavoro tramite agenzia interinale e finalizzata all’armonizzazione dei diversi ordinamenti degli Stati membri così da promuovere il completamento del mercato interno attraverso un miglioramento della vita e delle condizioni dei lavoratori nella Comunità europea. Nel considerando 2 della direttiva si legge che ciò avverrà mediante il ravvicinamento dei diversi ordinamenti soprattutto per quanto riguarda forme di lavoro come quello a tempo determinato, a tempo parziale, il contratto mediante agenzia di lavoro interinale e il lavoro stagionale. Secondo l’Unione, il lavoro tramite agenzia interinale risponde non solo ad esigenze di flessibilità delle imprese, ma anche al bisogno dei dipendenti di conciliare vita professionale e vita privata e può validamente contribuire alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione e integrazione nel mercato del lavoro (v. considerando 11 della direttiva). Difficile in tempi di crisi capire come per l’Unione un lavoro precario e privo di aspettative di carriera (ma anche di stabilità) possa conciliarsi con la vita privata del lavoratore: vita che è naturalmente fatta di progetti, che dinanzi all’instabilità del rapporto lavorativo difficilmente possono essere realizzati. Dal mutuo per la casa ai risparmi per gli studi dei figli. Ai figli stessi: difficile metterne in cantiere uno, a queste condizioni, diciamo anche rischioso.

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Il rapporto somministrato, poi, si complica ulteriormente (ai danni del solo lavoratore, ovviamente) se il lavoro lo si presta in favore di una P.A.: l’art. 97 Cost. regola l’accesso nella stessa e stabilisce la via del concorso pubblico come modalità principale, salvo poi riservare ad alcune categorie protette l’accesso tramite liste di collocamento. Tuttavia, le politiche di contenimento della spesa per il personale nella P.A. previste dalle ultime leggi finanziarie ma anche dai recenti interventi in tema di spending review e anche dalla legge di stabilità, hanno determinato la riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato e in alcuni casi introdotto il cd. blocco del turn over, determinando il ricorso all’utilizzo sempre più frequente dei contratti di somministrazione di lavoro temporaneo o di altre forme flessibili di reclutamento, anche in considerazione del favore dimostrato dal legislatore verso tali tipologie contrattuali, soprattutto in seguito alle diverse modifiche apportate all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e nonostante i vari interventi legislativi sui limiti di spesa.
In termini di opportunità amministrativa, quando non anche politica, è necessaria un’analisi dei costi per valutare la convenienza dello strumento flessibile (ed atipico, lato sensu) che il nuovo mercato del lavoro propone.

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S’è detto che la P.A., soggetto utilizzatore, stipula un contratto di tipo commerciale col somministratore, questo perché la somministrazione prevede tre tipi di rapporti derivanti da due distinti accordi: un rapporto commerciale discendente dal contratto stipulato tra utilizzatore e somministratore, un rapporto lavorativo tra questi e il dipendente che firma un contratto di lavoro con l’agenzia e, infine, un rapporto funzionale tra il lavoratore e l’utilizzatore che si avvale delle sue prestazioni. Per una Pubblica Amministrazione, sottoposta a spending review, ricorrere alla somministrazione significa spendere per un singolo lavoratore più di quanto non farebbe se quell’unità fosse stata selezionata tramite concorso ed assunta a tempo indeterminato, ovvero determinato.
Se in origine il presupposto per ricorrere a tale contratto, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003, era individuato “nelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”, evoluzione/involuzione rispetto alle sole esigenze di carattere temporaneo previste per il lavoro interinale dalla l. 196/97, ora l’articolo 4, comma 1 lettera c), del d.lgs. n. 24/2012, nell’aggiungere all’articolo 20 il comma 5-quater, ha previsto una deroga alle suindicate ragioni di utilizzo del contratto di somministrazione a tempo determinato nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. I CCNL, nei diversi comparti del pubblico impiego, possono, infatti, disciplinare tutti i casi in cui la somministrazione può essere utilizzata per fronteggiare specifici fabbisogni temporanei riguardanti determinate professionalità. L’articolo 2 del CCNL del 14/9/2000, ad esempio, relativo al personale appartenente al Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali prevede che i contratti di fornitura di lavoro temporaneo possano essere stipulati dalle Regioni e dagli enti locali per consentire la temporanea utilizzazione di professionalità non previste nell’ordinamento dell’amministrazione ovvero in presenza di eventi eccezionali e motivati non considerati in sede di programmazione dei fabbisogni o per la temporanea copertura di posti vacanti, per un periodo massimo di 60 giorni e a condizione che siano state avviate le procedure per la loro copertura; ovvero per l’acquisizione di profili professionali non facilmente reperibili o comunque necessari a garantire standard definiti di prestazioni, in particolare nell’ambito dei servizi assistenziali.

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Nel comparto degli EPNE, invece, l’articolo 35 del CCNL stipulato in data 14/2/2001 ammette il ricorso alla somministrazione per particolari fabbisogni professionali connessi all’attivazione ed all’aggiornamento di sistemi di controllo di gestione e di elaborazione di manuali di qualità e carte dei servizi nonché per soddisfare specifiche esigenze di supporto tecnico nel campo della prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, purché l’autonomia professionale e le relative competenze siano acquisite dal personale in servizio entro e non oltre quattro mesi.
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Nel comparto degli enti di ricerca, poi, troviamo l’articolo 22 del CCNL stipulato in dato 21/2/2001 (normativo 1998 – 2001 economico 1998 – 1999) il quale stabilisce che il ricorso al lavoro temporaneo deve essere fatto nel rispetto dei divieti posti dalla vigente disciplina legislativa, per soddisfare esigenze a carattere non continuativo e/o a cadenza periodica, o collegate a situazioni di urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o attraverso le modalità di reclutamento ordinario, previste dal D. Lgs. 165/2001 e deve essere improntato all’esigenza di contemperare l’efficienza operativa e l’economicità di gestione.
L’attuale fase di congiuntura economica, la spending review, il piano di rientro relativo all’amministrazione sanitaria di diverse regioni italiane, giustificano sicuramente il ricorso a tale forma di lavoro, stante il blocco delle assunzioni per lo meno relativamente al personale amministrativo. Il Legislatore, da Brunetta in poi, ha preteso dal pubblico impiego standard quali-quantitativi sempre più elevati. La richiesta di efficienza rivolta a lavoratori stipendiati con denaro pubblico è certamente una scelta giusta, giuridicamente ineccepibile, in linea di principio. Tuttavia tale richiesta sembra travalicare i limiti dell’umanamente possibile, se d’altro canto le Amministrazioni non possono procedere al cd. ricambio generazionale se non in percentuali minime nei prossimi anni, quando addirittura le assunzioni di nuovo personale non risultino del tutto bloccate dai criteri introdotti nell’ordinamento italiano dal Decreto Milleproroghe in poi. E se le Amministrazioni Pubbliche sono deputate all’erogazione di servizi, sarà anche necessario che ci sia qualcuno che ‘materialmente’ quei servizi li dispensi. Come far fronte alla carenza di personale se non con la somministrazione? Ed ecco che si profila un circolo vizioso, difficile da spezzare a legislazione invariata (o per lo meno – e per ora – fino al 2017, quando il turnover dovrebbe essere ripristinato). Circolo vizioso perché un Ente costretto al risparmio, di fatto spende per il personale somministrato cifre improponibili in un momento storico come questo.

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Per essere più chiaro userò, a titolo esemplificativo, dei termini impropri, ma di sicuro più efficaci. Io, Amministrazione costretta a limitare le spese anche per il personale, mi ritrovo con quattro impiegati, ma per raggiungere gli obiettivi che la Direzione mi ha imposto, in ragione delle stesse leggi che mi sottopongono a tale regime di austerità, avrei bisogno di almeno dieci dipendenti, così ne affitto altri quattro pagandoli quasi il doppio di quanto pagherei per quattro impiegati neoassunti con una posizione economica di primo livello. Quindi mi ritrovo con otto persone, quando me ne servirebbero invece dieci, e spendo di più di quanto non farei con dieci unità direttamente assunte da me, ma non posso fare diversamente. Non posso perché da un lato c’è il blocco delle assunzioni e dall’altro il mancato raggiungimento degli obiettivi per quest’anno comporterà, per esempio, una minor afflusso di fondi dall’Amministrazione Centrale o dal Ministero nel corso dell’anno venturo.
La domanda è allora quali sono i costi che un’Amministrazione affronta per un lavoratore somministrato? Il costo del lavoro per un lavoratore somministrato deve essere calcolato considerando le seguenti voci derivanti dall’applicazione del CCNL, dal CCNL integrativo e dalla normativa che disciplina il medesimo contratto di somministrazione:
1. retribuzione oraria, tredicesima mensilità, ratei tredicesima, ex festività, permessi retribuiti, ferie, ratei trattamento fine rapporto, oneri assicurativi contributivi. Gli oneri contributivi sono calcolati sulla base del CCNL applicato all’agenzia per il lavoro;
2. trattamento economico accessorio, la produttività, il servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto e altre voci derivanti dall’applicazione di contratti decentrati integrativi;
3. oneri di costo aggiuntivi previsti dalla normativa che disciplina il contratto di somministrazione. Ad esempio, quelli previsti dall’articolo 12, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 276,
sono i cd. fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare in misura pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l’esercizio di attività di somministrazione e destinati ad interventi a favore dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato intesi, in particolare, a promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione anche in funzione di continuità di occasioni di impiego e a prevedere specifiche misure di carattere previdenziale (comma 1), e destinati, inoltre, (comma 2) a:
a) iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori;
b) iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto agli appalti illeciti;
c) iniziative per l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori svantaggiati anche in regime di accreditamento con le regioni;
d) per la promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale;
4. da ultimo, ma più rilevante di tutti, il ‘prezzo’ di un lavoratore somministrato è dato da possibili scostamenti del costo dovuti a rinnovi contrattuali.

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Limitatamente al punto 4), il valore dell’offerta alla medesima Agenzia dovrà essere aggiornato prevedendo nel contratto una clausola di revisione dei prezzi in ragione dell’aumento del costo del lavoro legato ad aumenti contrattuali. Al riguardo, l’articolo 115, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 prevede che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi”.
Alla luce di queste voci di costo, rivolgo a voi la domanda: è opportuno il ricorso alla somministrazione da parte di una P.A. sottoposta a spending review? Anzi, poiché è di soldi pubblici che parliamo, è opportuno il ricorso alla somministrazione, a prescindere dalla fase economica che stiamo attraversando?
È opportuno che la politica consenta questo? E non solo…

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Negli ultimi anni, infatti, la nostra classe dirigente ha introdotto nel mercato del lavoro (evidentemente anche in quello pubblico) la nozione di flessibilità. A parte i maggiori oneri sostenuti dalle Amministrazioni, è possibile ravvisare una convenienza nell’immissione di queste atipiche tipologie di lavoratori anche nel settore pubblico. E in caso affermativo, a chi conviene? La stessa domanda può essere posta da un altro punto di vista: chi seleziona il personale somministrato? Nel Paese del clientelismo è naturale che sorga il dubbio e, come recita un vecchio adagio, a pensar male si fa peccato, ma si sbaglia raramente. Già, perché oltre ai maggiori oneri a carico dell’Amministrazione utilizzatrice, il lavoro somministrato si caratterizza per un’altra preoccupante peculiarità: la totale elusione dell’art. 97 della Costituzione. La ratio della norma costituzionale, benché svuotata del suo contenuto dopo anni di clientelismo, è quella di dotare gli Uffici Pubblici del miglior personale possibile, appunto mediante selezione concorsuale. Di fatto, nei sessant’anni di vita della Costituzione, il clientelismo italiota ha reso il disposto dell’art. 97 operativo solo in alcuni casi in cui è poco probabile che tutti i vincitori siano parenti e amici di chi conta: sono quei maxi concorsi da 300, 400, 500 anche fino a 1000 posti, che ora come ora la Corte dei Conti non potrebbe più autorizzare, salve le eccezioni del personale militare,di polizia e di quello ispettivo in Ministeri ed Agenzie. Chi sceglie, quindi, il lavoratore somministrato? O meglio chi lo segnala? Potremmo argomentare analogicamente partendo dallo svolgimento dei concorsi in certi Enti Locali, in cui si concorre in 700 per un posto solo. Ma lascio a voi le debite conclusioni. Vero è che eccezioni ve ne sono, nei concorsi per un posto solo come anche nel lavoro somministrato. Non tutti hanno la fortuna di conoscere la gente giusta. E mi rifiuto di pensare che il malcostume sia divenuto la sola regola imperante. Capita, infatti, di essere somministrati inizialmente per la sostituzione di una lunga malattia o di una maternità e poi di rimanere a fare quel lavoro anche dopo, magari per una serie di circostanze fortuite, ad esempio perché, nel frattempo, chi sostituivi ha trovato di meglio. C’è poi anche chi è arrivato dall’agenzia senza alcun appoggio per svolgere mansioni talmente infime che nessun ‘amico degli amici’ avrebbe mai accettato. Oggi forse sarebbe diverso, ma fino a sei, sette anni fa, assolutamente no.

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Per esempio, nella mia vita lavorativa ho conosciuto un imbustatore inizialmente assunto a chiamata e poi somministrato: un ragazzo che per poche centinaia di euro imbustava lettere per sei ore ogni due o tre giorni, in un primo periodo, e poi anche tutti i giorni: piegato su una scrivania fantozziana da cui, tra altissime pile di buste, sbucava fuori la sua testa. Io, nel frattempo, ho cambiato lavoro, città e regione, ma so che lui è riuscito a mostrare di saper fare ‘qualcosa’ di più che incollare buste e la dirigenza del suo Ufficio lo ha ‘promosso’ a impiegato. Nel frattempo è stata acquistata un’imbustatrice meccanica e questo giovane senza sponsor si è via via reso indispensabile e prezioso per il suo Ufficio. Di eccezioni ce ne sono, quindi. Ma queste rappresentano la terza ‘croce’ del lavoro somministrato nella P.A.: le competenze che nel tempo vengono acquisite dai lavoratori che fine fanno? Un lavoratore non può essere somministrato a vita in un’Amministrazione Pubblica, pur cambiando agenzia, vi sono dei limiti che impone la Legge, in primis quelli previsti dal D.Lgs 165/2001 per il t.d., e se, nonostante le riserve previste dal decreto D’Alia, la P.A. non indice alcun concorso, l’Ufficio si dovrà privare di un valido elemento per cedere il posto a un altro inesperto somministrato?

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Quanto agli stessi lavoratori vi è, infine, da considerare un quarto ed ultimo problema. Queste persone lavorano con l’ansia perenne del contratto in scadenza, prorogato anche di soli tre mesi in tre mesi, senza alcuna prospettiva futura, senza la possibilità di acquistare neppure un monolocale, anzi nemmeno un TV a rate, perché nessuna finanziaria ne accetterà mai la richiesta. Queste persone, che da contratto osservano l’orario di 36 ore settimanali, di fatto ne fanno molte di più. Per conservare il proprio precarissimo posto farebbero di tutto, di questi tempi. E quel di più non è certo retribuito. Talora è svolto in remoto da casa: fogli Excel, lettere, documenti elaborati la sera tardi affinché siano fruibili e pronti per la firma del Capo Struttura domattina alle otto. Il tutto con la sudditanza psicologica del precario dinanzi al classico impiegato pubblico in attesa della pensione: magari quello entrato con la 285 e che si aggira nei corridoi col bicchierino da caffè in mano e si lamenta ogni giorno della Riforma Fornero che lo obbliga a stare ancora lì, che rivendica pretese sindacali ad ogni ordine superiore e che a sua volta ‘scarica’ le proprie responsabilità sul precario non incardinato.

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A questo punto rinnovo la domanda. Ma a chi conviene tenere ancora certi carichi sul libro paga? Che vantaggio c’è nell’impedire l’accesso nella P.A. a giovani ben più svegli preparati e bisognosi di lavorare. Non c’è spending che giustifichi i costi della somministrazione. Come ho dimostrato, il blocco del turnover è un paradosso contabile. Lasciamo quindi che chi pesa sul bilancio della P.A. senza apportare alcun contributo vada in pensione e lasciamo una volta per tutte la flessibilità fuori dagli Uffici Pubblici, che necessitano di continuità nell’erogazione dei servizi. E infine miglioriamo qualità ed efficienza. Come? Per esempio applicando l’art. 97 della Costituzione.

Michele De Sanctis

Ammortizzatori Sociali per Tutte e Tutti (oppure Solidali e Universali): Estendere, Includere, Garantire. Sostenere il Lavoro per garantire Reddito

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Ieri la CGIL ha presentato una propria proposta di riforma degli ammortizzatori sociali a carattere inclusivo ed universale. Cosa significa? Significa un meccanismo che funzioni per tutti, subordinati e parasubordinati, atipici e partite IVA. Un meccanismo che da un lato sostenga chi ha perso il posto di lavoro o ha subito una riduzione dell’orario o la sospensione. Dall’altro che punti al reinserimento lavorativo.
Vediamo come.

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L’idea di fondo è quella di rovesciare i termini di solito il dibattito ed incentrato sul sostegno al reddito, di cui il lavoro è componente variabile, la prospettiva della CGIL è, invece, opposta: guardare al lavoro, accompagnando la transizione con un sostegno al reddito.

Una proposta semplice e sostenibile…

…costruire un sistema totalmente pubblico e assicurativo che tuteli chi perde l’occupazione e chi è coinvolto dalla crisi e che, nel contempo, non gravi sulla fiscalità generale è possibile estendendo la contribuzione a tutti i lavoratori e a tutte le imprese.

Una proposta inclusiva…

…se tutti i lavoratori e tutte le imprese contribuiscono al sistema universale di ammortizzatori, si può estendere il sostegno al reddito anche ai precari, includendo tutte le tipologie contrattuali subordinate e parasubordinate.

Una proposta equa…

…se tutte le imprese di qualsiasi dimensione e settore contribuiscono in base alle specificità ad un sistema universale, le prestazioni erogate alle stesse imprese e il carico contributivo sulle stesse sarà più sostenibile e solidaristico.

Una proposta che risponde al presente ed al futuro…

…a prescindere dagli andamenti dell’economia e delle relative fluttuazioni del mercato del lavoro un sistema di questo tipo può rispondere all’esigenza di affrontare le crisi congiunturali, di settore, territoriali con strumenti che rispondano al nuovo mercato del lavoro caratterizzato da sempre maggiori transizioni dei lavoratori da una condizione di occcupazione a quella di non occupazione, da un lavoro ad un altro, da contratto a contratto, tra lavoro e formazione.

Le ragioni e il senso della proposta
La Cgil da anni chiede e propone una vera Riforma degli Ammortizzatori Sociali a carattere inclusivo e universale.
Pensiamo a due soli istituti : uno per la tutela della disoccupazione, l’altro per la sospensione di attività e ore lavorate.
Entrambi gli strumenti devono ricollegarsi alle politiche attive di modo che il sostegno al reddito di modo che sempre il fine ultimo sia l’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo, guardando alla riqualificazione, aggiornamento, ricollocazione delle lavoratrici e dei lavoratori.
In questi anni di crisi prolungata e di assenza di politiche di settore che sviluppassero nuove e innovative attività produttive il lavoro è diminuito, si è svalorizzato ed impoverito.
Senza aumento dell’occupazione qualsiasi politica di regolazione o deregolazione del mercato del lavoro cambia solo la condizione dei soggetti esclusi o inclusi, non ha effetti di crescita del ciclo economico ma anzi rischia di aumentare l’effetto recessivo di maggiore difficoltà di collocazione nel mercato del lavoro, tempi più lunghi di disoccupazione, minore disponibilità di reddito, con pesanti effetti sociali che hanno riflessi sull’altra gamba della protezione sociale che è quella previdenziale.
Per questa ragione la proposta della Cgil ha sempre guardato al tema del sostegno al reddito come diritto del lavoratore o disoccupato ad avere insieme ad una politica “passiva” una prestazione “attiva” che ricollegasse il lavoratore al lavoro sia come fonte di realizzazione; di espressione della propria professionalità e attitudine; come elemento di dignità, libertà dalla povertà e di cittadinanza democratica.
La legge 92 ha introdotto una prima rivisitazione degli Ammortizzatori ipotizzando scenari di crescita irrealistici e contrapponendo una logica estensiva sulla rimodulazione della tutela della disoccupazione (aspi/miniaspi invece di indennità ordinaria di disoccupazione/indennità a requisiti ridotti) ad una logica parcellizzante, divisiva e non inclusiva del sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro (ovvero l’istituzione dei Fondi di Solidarietà che non estendono tutele a tutte le imprese e a tutti i lavoratori).
Per questo oggi più che mai è necessario correggere il sistema rivedendo l’Aspi e Mini aspi, superando gli ammortizzatori in deroga e i fondi di solidarietà con un modello assicurativo simile agli ammortizzatori ordinari basato sui contributi di imprese e lavoratori.
Le risorse che oggi dalla fiscalità generale vanno verso gli ammortizzatori in deroga dovrebbero sostenere la fase di avvio del nuovo sistema e il potenziamento delle risorse stanziate per le nuove politiche attive necessarie a superare la logica dell’assistenza.

Disoccupazione : Aspi, Mini Aspi, Mobilità.
Nella tutela per disoccupazione involontaria occorre intervenire sulle previsioni, sulle modalità e sulle articolazioni dell’assicurazione sociale per l’impiego, anche in relazione a quanto si è evidenziato nel primo anno di utilizzo dell’istituto.La lettura delle criticità presenti, il cui superamento è necessario, conduce alle proposte di rivisitazione.
Nello strumento di tutela per la perdita del posto di lavoro, articolato nella indennità di disoccupazione ASPI e Mini ASPI, non sono comprese le tipologie contrattuali non in subordinazione, escludendo quindi dal campo di applicazione la para-subordinazione e il lavoro autonomo ( a partire dalle collaborazioni a progetto alle Partite Iva).
In ragione della differente tipologia tra queste due fattispecie, sia per gli aspetti contributivi che per la natura dei contratti, occorre individuare le necessarie soluzioni d’intervento: la natura del rapporto di collaborazione – per temporalità, limiti di reddito e progressivo allineamento della contribuzione al lavoro dipendente – può agevolare l’estensione della tutela a fronte del versamento del contributo individuato.
Per il lavoro autonomo occorre aprire uno spazio di riflessione, anche attraverso la eventuale natura volontaria della copertura assicurativa. Resta evidente la necessità di una previsione che garantisca una tutela più ampia – commisurata evidentemente all’anzianità contributiva – dalla disoccupazione ( Es: una Partita Iva, fatta la media tra reddito percepito per anno fiscale ed anno solare che sia sotto il parametro definito per l’esclusione del trattamento in ragione di una contribuzione volontaria al sistema assicurativo pubblico potrebbe ricevere una prestazione parametrata alla minore contribuzione ma comunque accedere ad un’indennità di mancata occupazione)
Nel finanziamento del sistema persiste una disomogeneità nell’aliquota di contribuzione: per alcuni settori in termini transitori, con un progressivo allineamento previsto al 2017 che ha avuto effetto sulla entità delle prestazioni (soci lavoratori cooperative settore industria e commercio, personale dipendente dello spettacolo settore industria).
Per altri (artigianato, radio-televisione, pubblici esercizi) la riduzione del contributo ordinario ha confermato quanto già in essere nel finanziamento della indennità di disoccupazione ponendo a rischio le coperture.
Relativamente alla prestazione dell’ASPI occorre superare il decalage del 15% prevsito dopo il 6° mese di fruzione e dell’ulteriore 15% previsto dopo il 12° mese.
La transizione della indennità di mobilità verso l’ASPI si presenta troppo rapida, anche in ragione – come era prevedibile – del perdurare della crisi e di come questa ricade in alcuni settori produttivi e in alcune realtà geografiche.
Tra il 2015 e il 2016 da una copertura massima di 36/48 mesi si passa a una copertura di 12/18 mesi.
Occorre ampliare il periodo di transizione con l’esigenza, però, d’incrementare strutturalmente i periodi di copertura dell’ASPI ad almeno 18/24 mesi.
Il superamento della indennità di disoccupazione a requisiti ridotti, sostituita dalla Mini ASPI, sul versante dei requisiti ha introdotto elementi di rigidità che penalizzano nell’accesso alla prestazione: le 13 settimane non sono l’equivalenza delle 78 giornate lavorative.
Costituiscono un limite rigido all’accesso alla prestazione, in considerazione dei periodi di lavoro brevi e discontinui.
Per questo occorre riportare il requisito alle 78 giornate lavorative, superando la rigidità introdotta con il vincolo delle 13 settimane di contribuzione nell’anno.
Inoltre la corresponsione della indennità per la metà delle settimane lavorate ha prodotto una riduzione sensibile della prestazione se paragonata per analoghi periodi al precedente sistema di calcolo.
Nel quadro di una rivisitazione dell’ ASPI, per l’ esigenza di superare le difficoltà di accesso alla prestazione, occorre valutare il superamento del vincolo del biennio di anzianità assicurativa e dell’anno di contribuzione (le 52 settimane con contribuzione erogata o dovuta): l’incrocio tra questi due criteri costituisce spesso un “muro” non superabile per ottenere la prestazione.
Commisurando la durata della prestazione alla anzianità lavorativa (agli anni di versamento del contributo DS/ASPI) si potrebbe superare il vincolo biennio assicurazione/anno di contribuzione individuando un requisito minimo che possono essere le 78 giornate lavorative nell’anno.
Tale intervento ridurrebbe l’area di esclusione dalla prestazione e questa sarebbe comunque commisurata alla durata della contribuzione, come è in un sistema di natura assicurativa quale quello di tutela della perdita dell’occupazione.
Resta da approfondire la questione del contributo straordinario, oggi previsto nella misura del 1,4%, per le tipologie contrattuali non subordinate che comunque hanno la caratteristica di essere “a termine” e quindi omogenee alla specificità dei contratti a tempo determinato per le quali la Cgil chiede la generalizzazione del contributo del 1,4%.
L’orizzonte di una tutela a carattere universale per la perdita involontaria dell’occupazione passa necessariamente attraverso un intervento sugli strumenti in essere.
In realtà la Mini Aspi potrebbe essere assorbita dall’Aspi, che potrebbe agire anche su periodi variabili a seconda del numero di giornate lavorative annue accumulate per i precari e allungando anche al di là dei 24 mesi massimi, previsti nella proposta della Cgil, nel caso di lavoratori che volontariamente prima del raggiungimento dei requisiti di anzianità contributiva decidano di interrompere il rapporto di lavoro. In questo caso l’Aspi assorbirebbe la funzione che in parte ha avuto la Mobilità ma nella previsione di riforma la condizione è che parte della prestazione venga pagata dall’impresa che avvii la procedura garantendo l’occupazione di un nuovo lavoratore.

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Tutele in costanza di rapporto di lavoro
Per le tutele in costanza di rapporto di lavoro, pur tenendo conto dell’articolazione tra settori e degli strumenti oggi previsti, occorre una rivisitazione profonda per realizzare l’obiettivo non raggiunto della universalità per settori merceologici e classi dimensionali neanche con l’istituzione dei Fondi di Solidarietà.
Sulle tutele in costanza di rapporto di lavoro l’intervento legislativo di riforma rischia di produrre frammentazione, eccesso di articolazione e non inclusività del sistema e non rispondere alle esigenze di superamento della cassa integrazione e mobilità in deroga.
Inclusività e universalità contrastano con la differenziazione per settori e classi dimensionali che si sta profilando.
Nel contesto attuale, inoltre, il progressivo superamento degli strumenti in deroga rischia di ridurre gli strumenti di protezione e di difesa dell’occupazione a disposizione delle aziende e dei lavoratori, soprattutto perche non si incentivano adeguatamente e generalizzano i contratti di solidarietà espansivi e difensivi.
Per queste ragioni il sistema delle tutele in costanza di rapporto di lavoro va profondamente ripensato e ridisegnato alla luce delle criticità già evidenti.
L’orizzonte da intraprendere doveva essere quello di prevedere un unico strumento di sostegno al reddito, da garantire attraverso l’obbligatorietà, articolando il livello di contribuzione per settori e per classi dimensionali (incidenza delle sospensioni per settore non sono omogenee, come non lo sono le coorti di addetti e quindi il monte retributivo/contributivo), di versare un’aliquota ad hoc ripartita nella misura di 2/3 a carico dell’impresa e 1/3 a carico del lavoratore per tutte le aziende e tutte le tipologie contrattuali, una sorta di “assicurazione contro la sospensione momentanea dell’attività” in ragione delle causali che già oggi operano: crisi per riconversione, riorganizzazione, cessazione attività.
I nuovi Fondi di Solidarietà, compresi il Fondo cd “residuale”, non prevedono alcuna forma obbligatoria di copertura per le imprese con meno di 15 dipendenti né per i lavoratori non subordinati.
C’è il rischio di una frammentazione per settori, con fondi articolati sulla dimensione contrattuale; una pluralità di fondi che non avrebbero la massa critica per garantire le prestazioni.
Al momento nei fondi per i quali sono intervenute intese l’aliquota di finanziamento va dallo 0,20% allo 0,5%, mentre l’aliquota del fondo residuale è stata fissata – nella legge di stabilità – nella misura dello 0,5%.
Il raffronto delle aliquote di contribuzione della cassa integrazione evidenzia, in termini oggettivi, questo limite: per la straordinaria l’aliquota di finanziamento è fissata nello 0,90% della retribuzione con lo 0,3% a carico del lavoratore, mentre per il finanziamento della ordinaria le aliquote variano dal 1,90% (industria con meno di 15 dipendenti) al 5,20% del settore edile.

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Inoltre la valutazione sulla entità di finanziamento della cassa integrazione in deroga, che copre settori e classi dimensionali che fanno riferimento all’ambito dei fondi di solidarietà, rende evidente il rischio di sotto-finanziamento e quindi d’impossibilità di erogazione delle prestazioni che comunque sono di molto inferiori a quelle della cassa ordinaria, straordinaria e deroga come periodi di copertura ( massimo 1/8 delle ore lavorate).
E’ utile evidenziare due aspetti: sia il finanziamento della cassa integrazione in deroga che l’erogazione dell’ASPI ai lavoratori sospesi sono soggetti a finanziamenti a carattere transitorio che cesseranno – cosi è previsto dall’attuale legislazione – nel 2016.
Quindi tutto il carico della copertura delle prestazioni ricadrà sui fondi già attivati e su quello residuale, secondo il perimetro di copertura degli stessi: i fondi per legge hanno l’obbligo del pareggio di bilancio e non potranno erogare prestazioni in assenza di disponibilità.
In tal caso la norma prevede o una rimodulazione della prestazione oppure la modifica dell’aliquota di contribuzione, su proposta del Comitato Amministratore.
Per queste ragioni, sinteticamente esposte, il sistema delle tutele in costanza in rapporto di lavoro ha necessità di un ripensamento profondo e radicale.
Il rischio che all’attivazione dei fondi segua l’incapacità di erogazione delle prestazioni è oggettivamente misurabile.
Obbligatorietà, inclusione di tutte le classi dimensionali e tipologia di lavoratori, aliquota di finanziamento articolata per settori merceologici e per dimensione delle aziende: di fatto l’estensione del modello della cassa integrazione ma includendo i precari.

Fonte: CGIL

BACK TO 1977. Disoccupazione da record: sale al 12,9%

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Record dei senza lavoro a gennaio 2014. Nello scorso mese di gennaio la disoccupazione è balzata al 12,9%, un aumento dell’1,1% su base annuale, mentre la disoccupazione giovanile è salita al 42,4%. Le rilevazioni sono state effettuate dall’Istat. Un tasso così alto di disoccupazione non si vedeva dal 1977. La percentuale dei disoccupati è, infatti, la più alta tra quelle registrate dall’Istituto di statistica dall’inizio delle serie sto­ri­che nel 1977.
Secondo i rilevamenti Istat, aumenta anche il numero dei cd. “scoraggiati”, quelli cioè che hanno ormai rinunciato a cercare lavoro: il dato si attesta intorno ai 2 milioni.
L’Istat segnala, inol­tre, il crollo dell’occupazione anche tra i pre­cari. Gli «ati­pici», così ven­gono defi­niti, sono dimi­nuiti di 197 mila unità.

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Di fronte a queste cifre e alle voci sempre più insistenti sul contenuto del Jobs Act, non siamo certi che sia sufficiente introdurre altra flessibilità nel mercato del lavoro per innescare un fenomeno di controtendenza e così miglio­rarne l’efficienza. L’Italia ha già assecondato il FMI e la Commissione UE (oltreché la Signora Merkel) e il risultato è stata una disastrosa riforma che ha persino creato una nuova categoria di senza lavoro e senza reddito, quella degli esodati. Dai rumors intorno al Jobs Act si apprende infatti la volontà dell’Esecutivo di intro­durre un nuovo con­tratto di inse­ri­mento, sospen­dendo l’articolo 18 (sic!) per tre anni a bene­fi­cio delle imprese. La finalità è quella di creare nuova occu­pa­zione, ma sospen­dere i diritti sui nuovi con­tratti di inse­ri­mento, impro­pria­mente defi­niti dal Jobs Act ‘con­tratto unico’ equivale a pre­ca­riz­zare ulteriormente il lavoro.
Bisogna puntare, invece, al repe­ri­mento delle risorse neces­sa­rie a finan­ziare il sus­si­dio uni­ver­sale di disoc­cu­pa­zione, prima di mirare alla riforma dei contratti di lavoro. L’estensione dell’Aspi isti­tuita dalla riforma For­nero, infatti, susciterà nei prossimi giorni forti polemiche, soprattutto se quei fondi verranno tolti alla Cassa Integrazione in deroga, come pare dalle prime indiscrezioni. Ma l’estensione è oramai divenuta necessaria per tanti, vitale per troppi. Nel contempo, il mondo del lavoro ha altresì bisogno di inve­sti­menti pub­blici per far ripar­tire la cre­scita, e di finanziamenti finalizzati al taglio del cuneo fiscale, almeno da 10 miliardi di euro come prospettato anche dal leader della minoranza PD Cuperlo e dalla CGIL.
Le cifre sulla disoccupazione sono più che preoccupanti: aumentano un allarme sociale, giunto ormai a livelli altissimi, a cui il Governo sarà chiamato a breve a dare una risposta.

Michele De Sanctis

Prime indiscrezioni sul Jobs Act. La NASPI sarà il nuovo sussidio di disoccupazione universale

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Uno degli istituti più rilevanti del Jobs Act di Matteo Renzi è la NASPI, ovvero la Nuova Assicurazione Sociale Per l’Impiego. Pertanto, come si evince dal nome, la NASPI sostituirà l’ASPI e la mini-ASPI, il sussidio introdotto dall’ex Ministro del Lavoro Elsa Fornero. Si tratta di un sussidio di disoccupazione universale, destinato a tutti coloro che hanno perso un posto di lavoro. Di conseguenza, tale istituto intende offrire una tutela anche a tutti i lavoratori precari (come ad esempio, i collaboratori a progetto), che attualmente risultano essere esclusi da ogni forma di sostegno al reddito, in caso di loro uscita dal mercato del lavoro.
Stando alle prime indiscrezioni governative, la NASPI comporterà un costo per le casse dello Stato pari ad 8,8 miliardi di euro. Pertanto, essa determinerà un aumento di 1,6 miliardi di euro della spesa pubblica destinata ai sussidi.
A fronte di tale aumento di spesa pubblica, ci sarà la creazione di una forma di protezione a favore del milione e 200 mila lavoratori, attualmente privi di ogni forma di sostegno al reddito, in caso di disoccupazione.
Per trovare la copertura finanziaria necessaria, si vocifera che verrà operato uno spostamento delle risorse finora destinate alla CIG in deroga, la quale comporta una spesa annua di circa 3 miliardi di euro. Nulla è dato sapere sul destino finanziario delle CIG in deroga ancora in esecuzione.
Ovviamente, l’intera questione è ancora in fase di studio ed analisi da parte del Ministero del Lavoro, anche se alcuni esponenti del PD caldeggiano tale situazione come l’unica capace di prevedere una tutela, seppur minima, a favore dei lavoratori atipici.
La NASPI dovrebbe essere corrisposta a favore di coloro che hanno terminato un rapporto di lavoro durato almeno tre mesi. Una simile previsione è in grado di offrire una forma di protezione a tutti lavoratori atipici, ivi comprese, quelle forme di precariato, come i collaboratori a progetto, attualmente prive di qualsiasi sostegno al reddito.
Rispetto all’attuale ASPI, la NASPI avrà una durata più lunga, in quanto si prevede che essa debba avere una arco temporale di operatività pari alla metà del numero di settimane contributive corrisposte dal lavoratore interessato negli ultimi quattro anni.
In ogni caso, la NASPI non potrà durare più di due anni, per tutti i lavoratori dipendenti (anziché, come ora prevede l’ASPI, 8 mesi o 12 mesi per chi ha rispettivamente meno o più di 50 anni ed ha perso il lavoro nell’anno 2013) e non più di sei mesi, per tutti i lavoratori atipici.
L’importo dell’assegno erogato con la NASPI non varierà rispetto alla somma attualmente garantita con l’ASPI. Pertanto, utilizzando i valori riconosciuti all’ASPI nell’anno 2013 (in quanto, attualmente non si sa nulla circa possibili aggiornamenti dei valori vigenti nell’ambito del nuovo istituto), dovrebbero essere erogati assegni individuali dell’importo massimo di € 1.180 mensili all’inizio del periodo di copertura, per, poi, scendere ad€ 639,41mensilialla fine del predetto periodo, confermando le regole vigenti della c.d. Legge Fornero (cioè, il 75% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dell’ultimo periodo con il tetto citato, con l’espressa previsione che tale percentuale debba essere abbattutadel 15% ogni sei mesi).
In altri termini, con la NASPI, l’importo rimarrebbe lo stesso, mentre la durata sarebbe più lunga, sia dell’ASPI, che della mini-ASPI, vista la previsione di una durata pari alla metà del numero di settimane contributive corrisposte dal lavoratore interessato negli ultimi quattro anni.

Germano De Sanctis

I recenti dati sulla disoccupazione in Italia

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La gravità in cui versa il mercato del lavoro italiano è stata recentemente evidenziata dagli ultimi drammatici dati ISTAT sulla disoccupazione relativi al mese di gennaio 2014. Nel corso di un solo anno, sono stati persi 487.000 posti di lavoro, comportando un aumento del tasso di disoccupazione fino al 12,9% (l’1,1% in più rispetto a gennaio 2013), mentre quello giovanile ha raggiunto il 42,3%. Per ritrovare un tasso di disoccupazione pari al 12,9%, bisogna tornare indietro negli anni, fino al lontano 1977.

La gravità dell’emergenza in cui versa il mercato del lavoro, emerge ancor più chiaramente se si considera il fatto che, nel 2013, si è raggiunta la punta massima del fenomeno della disoccupazione dall’inizio della crisi attuale. Infatti, il numero dei disoccupati è aumentato fino a 3.300.000, esattamente il doppio del numero di lavoratori che cercavano lavoro nell’anno 2007. Vi sono, come detto, 487.000 lavoratori occupati in meno rispetto al 2012 ed il tasso di disoccupazione ha segnato un ulteriore aumento dello 0,2% rispetto a dicembre 2013.

Tuttavia, il dato più imbarazzante è quello sulla disoccupazione giovanile. Abbiamo visto che, nella fascia d’età compresa tra i 15 ed i 24 anni, l’indice di disoccupazione raggiunge il 42,3%. Orbene, è necessario evidenziare che si tratta di un dato percentuale superiore di ben quattro punti rispetto a quello registrato un anno fa. Inoltre, siamo di fronte all’incremento della disoccupazione giovanile più alto d’Europa, sia nell’ambito dell’Eurozona, che dell’Unione Europa comprensiva di tutti i suoi ventotto Stati membri.

In estrema sintesi, necessita un intervento capace di scuotere il mercato del lavoro nazionale nel suo complesso. Infatti, il già grave quadro della disoccupazione giovanile risulta ancor più preoccupante se si analizzano i dati della disoccupazione riferita ai lavoratori compresi tra i 35 ed i 49 anni di età, relativamente ai quali, nell’ultimo anno, si sono persi 235.000 posti di lavoro. Tale ultimo dato genera immediate conseguenze nefaste sull’economia reale, fotografate dalla stima operata dall’ISTAT sull’inflazione di febbraio 2014, la quale è destinata a diminuire dello 0,1% rispetto a gennaio 2014 ed ad aumentare dello 0,5% nei confronti di febbraio 2013, con una decelerazione di due decimi di punto percentuale rispetto al valore registrato a gennaio 2014 (+0,7%). In altri termini, la disoccupazione sta colpendo la fascia di età che interessa maggiormente le famiglie giovani, cioè quelle che dovrebbero crescere e consumare e che, invece, non hanno i redditi per farlo. Tale dato riaccende l’allarme sul cattivo andamento della domanda interna e sul rischio di deflazione.

Se è pur vero che il già preoccupante tasso di disoccupazione dell’Italia è superiore a quello medio dei Paesi dell’Unione Europea, stabilmente fermo  al 12%, la situazione diventa ancor più angosciante se si considera che il tasso di disoccupazione delle Regioni Meridionali si attesta al 19,7% (con punte oltre il 21% in Calabria, Campania e Sicilia). Sempre relativamente al Mezzogiorno, il tasso di disoccupazione giovanile (fascia di età 15-24 anni) sale fino al 51,6% e quella femminile al 53,7%. Emerge chiaramente una questione giovanile, ancor peggio se femminile, visto che oltre la metà dei giovani meridionali è senza lavoro, con un numero esorbitante di donne che restano a casa senza volerlo, con evidenti conseguenze sulle mancate possibilità di emancipazione, sia generazionale, che di genere.

Ovviamente, in tale disincantato contesto, aumenta anche il numero degli scoraggiati, ovvero coloro che rinunciano a cercare un lavoro, in quanto convinti di non trovarlo. Essi sono aumentati dell’11,6%. Si tratta di un 1.790.000 persone che considerano la propria vita lavorativa priva di qualsiasi prospettiva.

Germano De Sanctis