Archivi categoria: società civile

Le ragioni della nostra battaglia.

da Il Manifesto del 10/5/2014

Alcuni brani dall’introduzione di Luciana Castellina a “Famiglia e società capitalistica” (Il Manifesto, Quaderno n.1, Alfani Editore, 1974).

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Alla battaglia per il referendum arriviamo stretti da tempi ridottissimi e in una situazione politica che tende a tal punto a precipitare in degenerazione istituzionale da sommergere il problema spec- ifico — quello dell’abrogazione del divorzio — entro una problematica enormemente più vasta, quella che risulta da una crisi economica profonda e da una acutizzazione dello scontro sociale in assenza di uno schieramento di opposizione già in grado di offrire un’alternativa compiuta. Ma sarebbe un errore ritenere che di fronte a questa situazione sia necessario eludere la battaglia sul problema che il divorzio propone, quasi essa rappresentasse una dannosa distrazione rispetto alle urgenze della lotta di classe. Proprio la diserzione della sinistra da questo terreno di confronto, oltre a farla oggi trovare «scoperta» rispetto all’attacco reazionario, ha contribuito a mantenere praticamente intatto un sistema di valori, di consuetudini, di strutture sociali, che costituiscono una radicata remota con- servatrice, che pesa inevitabilmente sulla dinamica del processo rivoluzionario. E’ un dato, questo, che se la pigrizia non prevalesse nell’analisi di come in concreto si sviluppa lo scontro di classe, fino a farci semplificare i protagonisti del conflitto entro lo schema di un proletario e di un capitale asso- lutamente astratti, sarebbe naturale riconoscere. E che invece tendiamo a non riconoscere, con la conseguenza di un pericoloso restringimento della nostra azione d’intervento.
Proprio l’ampiezza della crisi, di sistema e non congiunturale, in cui ci troviamo ad operare, dovrebbe farci rendere conto — se siamo convinti che dalla degenerazione del capitalismo non nasce automaticamente il comunismo, ma può derivarne anche caos e regresso per un lungo periodo sto- rico — di quanto vitale sia per la sinistra rivoluzionaria incidere sull’insieme dei rapporti sociali di produzione per avviare, nel corso stesso della crisi, la costruzione di un movimento di lotta capace di affrontare in positivo lo scontro che una drammatica frase di transizione ci prepara. E quando si dice insieme dei rapporti sociali di produzione non si può non intendere che quello specifico rapporto sociale che si esprime nella famiglia ne è parte certamente non secondaria.
Del resto, come non vedere quale riflesso moderato e conservatore hanno le paure prodotte dagli sconvolgimenti sociali che incidono anche sull’assetto familiare, sui modi in cui si organizzano i rap- porti umani, ove la sinistra non sia in grado, come non è stata finora, di proporre anche su questo terreno un’alternativa rivoluzionaria? Impedire il 1984, per usare la metafora di Gunder Frank
e Samir Amin, vuol dire, anche, combattere sul fronte, certo più difficilmente definibile, della ristrut- turazione che il capitalismo tenta al più generale livello dell’organizzazione sociale dell’ideologia;
e sarebbe puerile pensare di preparare la rivoluzione lasciando intatta una crosta ideologica che non è stata praticamente scalfita.
Se è vero, come ha detto Marx, che dal rapporto uomo-donna si misura il livello raggiunto da una civiltà, vuol dire che attorno a tale rapporto si annodano tutti gli altri e che è impossibile pensare di estromettere proprio questo epicentro dalla lotta rivoluzionaria, non vedere come esso di connette
e interseca con gli altri, non misurarvisi. Giudicare questa tematica di per sé interclassista, vuol dire negare in radice la capacità della classe operaia di affermarsi come classe egemone, cioè portatrice di una superiore e universale concezione del mondo. Qualcosa di simile, ma ancora più grave, di quel marxismo volgare e impoverito che alcuni decenni fa negava rilevanza di classe alle lotte di liber- azione nazionale.
Né vale a dire, che una battaglia specifica su questo terreno non ha senso, in quanto proprio perché l’assetto della famiglia dipende dal capitalismo, basta impegnarsi a scalzarne le fondamenta attra- verso la lotta economica di classe. L’esperienza della mancata rivoluzione in occidente e quella delle rivoluzioni che si sono fatte, dimostra quanto sia difficile, anzi impossibile, superare i rapporti capit- alistici di produzione solo movendo da una modifica della forma della proprietà o utilizzando la pian- ificazione dell’economia; come cioè sia parte integrante del superamento dei rapporti di produzione capitalisti la critica globale e positiva di tutte le dimensioni e gli aspetti dell’organizzazione della vita sociale.
Se è vero che non si può cambiare la famiglia senza cambiare la società è altrettanto illusorio pen- sare di potere cambiare la società senza aggredire alla loro radice tutti i nodi che si intrecciano nell’istituto familiare.
Alla lunga, lo sappiamo, è la trasformazione sociale quella che conta, e non uno spostamento di equi- libri puramente politici, sempre precario dove non affondi una reale modificazione dei rapporti di forza. Per questo non condivido prudenze e tatticismi, ma ritengo che alla battaglia del referendum dobbiamo andare a viso aperto, portandovi tutta la ricchezza della proposta comunista, consapevoli che in questi mesi non potremo fare molto, ma se non altro gettare dei semi, aprire interrogativi, far maturare contraddizioni, imporre una riflessione collettiva su una tematica su cui è il nostro avvers- ario a volere mantenere il silenzio (…)

La concorrenza a chi meglio difende le meschine virtù della famiglia-tana

Ma c’è anche un altro ordine di rischi in cui affrontando la battaglia del divorzio in modo riduttivo e minimizzante si incorre, col pericolo di una sconfitta nel referendum. Il divorzio, è vero, di per sé non incrina la saldezza della famiglia, si limita a ratificare le separazioni di fatto che già esistono
a migliaia, casomai a tutelare giuridicamente chi è rimasto colpito dalle loro conseguenze. Ma per quanto il fronte divorzista ripeterà questa verità — lo vediamo già ora nella diffidenza diffusa che troviamo fra gli stessi elettori di sinistra — non sarà facile imporla contro le mistificatorie denunce dell’avversario(…).
Da cosa nasce, infatti, questa diffidenza? Dal fatto che la famiglia viene oggi avvertita, paradoss- almente assai più che in passato, come una zattera assolutamente necessaria alla sopravvivenza e a mitigare il terrore di una accentuata solitudine. Il capitalismo nel suo procedere, proprio mentre tende a socializzare la produzione, tende nel contempo disgregare ogni comunità sociale e a creare una società atomizzata dove l’individuo si sente sempre più isolato rispetto ai suoi simili (…)
Proprio per impedire che questa atomizzazione proceda fino alle sue estreme conseguenze, per impedire che si giunga alla disgregazione sociale e dunque a una sorta di anarchia che minerebbe il sistema stesso che l’ha generata, lo stato borghese ha bisogno, ai fini della sua stessa conservazione, di ricostituire un minimo di valori comunitari che forniscono isole di aggregazione e con ciò un ter- reno per perpetuare l’ordine stesso. E’ per questo che il capitalismo, mentre per effetto delle sue stesse leggi di sviluppo disgrega l’antica compagine familiare svuotandola di gran parte di quelle funzioni produttive che ne costituivano la ragion d’essere, e immettendo le donne nella produzione, sente nel contempo il bisogno di ricostituirla, esaltandone un ruolo mistificato. Di fronte alla giungla della società, essa si presenta come il solo possibile rifugio contro la società nemica, la sola zona franca per la legge dell’uomo contro quella della merce, fino a divenire grumo struggente di nostal- gia, spezzone di memoria di un mondo in cui le cose avevano ancora un valore d’uso, affondato nell’oceano della competizione e del profitto. La sola isola, in definitiva, di solidarietà.
Ma — e qui sta la contraddizione insuperabile entro cui il sistema si dibatte — questo tentativo di recupero rimane totalmente astratto e riesce in qualche modo a compiersi solo su basi negative, gra- zie alla esasperata contrapposizione fra collettività e famiglia, intesa questa come tana, come rifugio, un sistema di fortezze chiuse dove la solidarietà dei consanguinei è l’altra faccia dell’egoismo bru- tale verso l’esterno, del ripiegamento sul proprio angusto particolare. L’educazione dei figli diventa in questo quadro l’allevamento dei cuccioli di belva da addestrare alla sfida della giungla (vera radice, questa sì, della corruzione) e il risarcimento delle frustrazioni degli adulti che su di loro scar- icano, distorcendo le potenzialità umane dei bambini, i rancori accumulati.

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Il tessuto morale della convivenza diventa solo quello gretto dell’egoismo di gruppo, la donna viene indotta ad una castrazione sociale, ad una regressione verso l’animalità che le consenta di rappres- entare nella commedia il ruolo di mediatrice fra progresso e natura, la compensazione dalle tensioni indotte dal mondo industrializzato. Tanto più è estranea alla vita sociale tanto più può sembrare che essa conservi un rapporto con la natura che i cittadini del capitalismo hanno perduto (tutta l’erotologia, peraltro, collabora validamente a questo fine). In lei si fa rivivere il mito del «buon sel- vaggio felice» che, improponibile al maschio addetto ai moderni mezzi di produzione si affida alla donna, nel tentavo di fare ritrovare all’uomo una innaturale naturalità fuori dalla storia. Stuoli di pediatri, psicologi, psicanalisti sono ingaggiati a questo fine, col risultato non solo di perpetuare la subordinazione della donna, ma di distorcere il significato umano dei rapporti, di impoverirne la ricchezza.(…)

© 2014 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

Fonte: Il Manifesto

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Gay o etero, ma con amore. Elogio dei genitori imperfetti.

da Repubblica.it Cultura del 10/5/2014

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di Michela Marzano

François Hollande l’aveva promesso durante la campagna elettorale: se fosse stato eletto presidente della Repubblica, avrebbe riaperto il dibattito sul matrimonio e sull’adozione delle coppie omosessuali. Pochi mesi dopo la vittoria del candidato socialista, il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault annuncia che il progetto di legge sarà finalmente presentato in Consiglio dei Ministri il 31 ottobre 2012, scatenando immediatamente le polemiche. Perché i gay e le lesbiche non si accontentano del Pacs e vogliono anche loro sposarsi? Il matrimonio non dovrebbe essere riservato alle coppie eterosessuali?

Per tutti coloro che si oppongono all’estensione del matrimonio e dell’adozione alle coppie omosessuali, è soprattutto la questione dell’adozione ad essere problematica. Permettere alle coppie omosessuali di adottare, significherebbe per loro non solo impedire ad un bimbo di avere un padre e una madre, ma anche privarlo della possibilità di crescere in modo armonioso, identificandosi con la figura maschile (se si tratta di un bambino adottato da una coppia di lesbiche) o con la figura femminile (se si tratta invece di una bambina adottata da una coppia di gay). Per non parlare poi dei danni a livello psicologico: per poter avere accesso a quello che alcuni psicoanalisti chiamano “l’ordine simbolico”, sembrerebbe infatti necessario vivere in una “famiglia normale”. Ma che cosa vuol dire “normale”? Esiste un unico modo di occuparsi dei bambini oppure questa normalità è solo un modo per discriminare gli omosessuali?

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In realtà, l’idea di normalità non ha alcun senso quando si parla dell’educazione dei figli. Esistono solo tanti percorsi diversi, per i bambini, di imparare a “tenersi su”, come direbbe il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott. Ossia tanti modi diversi per capire che si ha diritto di essere quello che si è, indipendentemente dalle aspettative altrui. E che l’amore che si riceve non ha né sesso né orientamento sessuale. Non è vero che le madri hanno tutte un istinto materno. Esattamente come non è vero che i padri sono tutti, per natura, incapaci di occuparsi dei propri figli.

Dietro la maggior parte delle obiezioni al matrimonio e all’adozione delle coppie omosessuali, si nascondono contraddizioni e luoghi comuni. Tanto per cominciare, in Francia, è possibile già da molti anni adottare anche quando si è single. Questo significa che, fino ad ora, l’eventuale problema dell’assenza dell’altro genitore non si era posto. E che lo si solleva solo nel momento in cui entra in gioco l’orientamento sessuale dei genitori adottivi. Ma il nodo del problema è altrove, visto che l'”ordine simbolico” di cui si parla tanto, altro non è che la capacità di integrare il fatto che al mondo esistono due categorie di persone: gli uomini e le donne. Peccato che le scelte sessuali di una persona non c’entrino affatto con la negazione della differenza dei sessi, a meno che non si confonda il concetto di “identità sessuale” con quello di “orientamento sessuale”. Ma questo tipo di confusione, in fondo, sono solo alcuni eterosessuali a farla, non capendo che l’identità sessuale dell’oggetto del desiderio di una persona non rimette affatto in discussione la consapevolezza del fatto che ognuno di noi sia “maschio” o “femmina”.

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Il vero problema dell’adozione non è quello dell’orientamento sessuale della coppia che adotta, ma quello del posto che si lascia a un bambino. Questo problema, però, lo si ha sempre, indipendentemente dal fatto che un bimbo cresca accanto a due uomini, due donne, o un uomo e una donna. Quando si ha a che fare con un figlio, la cosa più difficile è riconoscerne l’alterità. Per poter accedere a quel famoso “ordine simbolico”, per crescere, ogni bimbo ha bisogno di essere accettato nella propria alterità, e quindi di essere riconosciuto come “altro” rispetto ai propri genitori. Proprio perché è unico.

È solo in questo modo che si ha poi accesso all’ordine simbolico secondo cui non solo la donna è diversa dall’uomo, ma ogni persona è diversa da tutte le altre. Incentrare il dibattito sulla questione dell’unicità e dell’individualità, però, costringerebbe ognuno di noi ad interrogarsi sulla propria capacità di tollerare ciò che è diverso. Sapendo benissimo che i bambini, quando crescono, si identificano non solo con i genitori, ma anche con tutti gli altri adulti che contribuiscono alla loro educazione. E che tanti problemi, nella vita, nascono quando non si è stati accettati e riconosciuti per quello che si era. Anche quando si è cresciuti in una famiglia “normale”, con un papà e una mamma.

Fonte: La Repubblica

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UNA BRUTTA STORIA DI POLITICA E TRANSFOBIA.

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di Andrea Serpieri

Fino a quando (e fino a che punto) la più becera politica italiana dovrà somministrarci altri episodi di intolleranza, di cui, francamente, faremmo volentieri a meno? Questa è la storia di Laura Matrone, una splendida quarantenne, operatrice sociale, attualmente in lizza per le elezioni a Castel Volturno, provincia di Caserta, con il candidato sindaco PD Dimitri Russo. Russo si presenta con cinque donne nella lista civica “Cento volti per la svolta” e sei donne nel PD. Ma per qualcuno le donne sono di meno, perché Laura è nata uomo e pertanto non sarebbe “donna abbastanza” da soddisfare le quote rosa. Insomma, Laura non sarebbe una “vera” donna! A rivelare questa ‘verità nascosta’ all’elettorato di Castel Volturno è stato il candidato sindaco per Forza Italia (il partito delle libertà) Cesare Diana, il quale sostiene che la candidatura di Laura violi le norme sulla parità e quindi le liste di Russo andrebbero escluse dalla competizione politica.
In realtà, non c’è alcuno scoop, perché Laura non nasconde a nessuno il suo passato e soprattutto perché giuridicamente Laura Matrone è una donna “vera”, uso questo aggettivo per farmi comprendere anche da quelle persone che proprio non riescono a vedere il mondo in modo più fluido delle definizioni che usano: gay, etero, maschio, femmina…è così importante? È importante sapere se una trans abbia subito un’operazione o meno? A parte il fatto, poi, che sarebbero affari suoi, anche quando si mette in politica, perché l’essere stata uomo incide sulla sua condotta morale solo per le menti più bigotte. E ipocrite.

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In ogni caso, la candidata del PD non c’è stata a questo linciaggio pubblico e su La Repubblica, rivolgendosi all’avversario forzista, precisa: “L’hanno informato male. Sono una donna a tutti gli effetti dal 2002”.
Nell’intervista Laura Matrone si racconta, descrive i punti del suo gruppo in vista delle prossime elezioni e, sull’episodio di transfobia di cui è stata vittima, dice: “Volevano tentare di far ricusare la lista per mancanza di quote femminili, poi si sono accorti in tempo dell’errore e hanno desistito”.
“Sono Laura, sono una persona. Non c’è bisogno di mettere continuamente un timbro dietro le spalle per dire chi ero. Sono una persona. Con una faccia, con due gambe, due braccia. Mi sono sposata e separata legalmente. Sono una donna normalissima che non ha mai avuto nessuna difficoltà di inserimento nella vita sociale. Ho insegnato arti marziali alla Nato. Sono stata due volte campionessa mondiale di taekwondo e undici volte campionessa europea. Ma dal 1990 faccio spettacolo, mi occupo di canto, teatro, televisione, di pubbliche relazioni”.
Sulla sua vicenda personale che l’ha portata ad essere la donna bellissima che è oggi, riferisce: “Sono originaria di Napoli, ma vivo a Castel Volturno da quando avevo 14 anni. Nel 2002 mi sono operata e ho cambiato i connotati all’anagrafe. Ho fatto il primo intervento per cambiare sesso a Napoli tramite l’Asl, gratuitamente. Lo consente una legge del 1984. La mia famiglia all’inizio è stata un po’ titubante. I miei genitori all’inizio non capivano. Appartengono ad un’altra generazione. Però poi i miei familiari me li sono ritrovati sempre al mio fianco, specie mia sorella, mio fratello e i miei nipoti”.

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A questo punto, io mi chiedo: ma se per esempio Laura non fosse stata operata – o avesse deciso di non farlo proprio – non sarebbe stato, comunque, etico considerarla una donna a tutti gli effetti? In fondo, lei è così che si sentiva, anche prima dell’operazione. Eppure, lo Stato italiano, che nella Costituzione riconosce i diritti e l’uguaglianza di tutti e si impegna a rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, con la L. 164/82 ha stabilito che si possa chiedere il cambio di sesso all’anagrafe solo dopo la riassegnazione genitale. Forse sarebbe il caso di cambiare questa norma, giusto per riconoscere il terzo sesso anche qui? Che piaccia o no, esiste e non può essere semplicemente negato sulla carta, per continuare a far finta che non ci sia. Cosa che, peraltro, certi benpensanti potrebbero fare tranquillamente, se magari smettessero di interessarsi delle altrui preferenze sessuali e ci lasciassero vivere in pace. Gay, etero, uomini, donne o qualunque cosa vogliate essere. Siatelo! La nostra felicità è un diritto non scritto che per natura preesiste alle norme di diritto positivo.

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CASA SUSANNA: UNA SOCIETÀ SEGRETA IN CUI SENTIRSI NORMALI.

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di Andrea Serpieri

C’è stato un tempo in cui tra la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’70, alcuni crossdresser avevano trovato un rifugio in cui essere se stessi in un isolato complesso di edifici, nel territorio di Hunter, New York. Si trattava di un un posto sicuro per molti che sentivano il bisogno di evadere, dai propri vestiti come dalla propria pelle, e se lo concedevano per qualche giorno a settimana, in risposta a una società che ancora non dava né comprensione né soluzioni. Felicity, Gail, Fiona, Cynthia, erano questi i nomi che avevano scelto per loro: per alcuni era un problema di presa di coscienza, per altri insoddisfazione velata. Questo posto è rimasto sconosciuto per decenni, custodito dalla sola memoria dei suoi ospiti, fino a che qualcosa lo ha reso noto, portandolo alla ribalta della più scafata, sebbene non sempre tollerante, società contemporanea.

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Un vero e proprio dossier fotografico, scene di vita privata, segreti scatti di un’esistenza alternativa, è ciò che per caso è tornato alla luce quando Robert Swope, punk-rocker e mobiliere di New York ha rinvenuto un centinaio di foto in una scatola comprata al mercatino delle pulci. Uomini travestiti da donne, ma in pose familiari e composte di donne sofisticate, nessuna volgarità. Cross-dresser borghesi che bevono tè, giocano a bridge, guardando l’obbiettivo con sincero stupore e un leggero velo di imbarazzo. Insospettabili e distinti signori della middle class: editori, vigili del fuoco, imprenditori, uno sceriffo di una piccola contea nel New Jersey. Seppure l’ambiente e la qualità delle fotografie appartengano alla fine degli anni ’60, vestiti, acconciature e ammiccamenti sono, invece, tipici del decennio precedente. Le foto ritraggono una sorta di club privato: Casa Susanna. Swope non sapeva di cosa si trattasse. Tutto ciò che aveva era quello che vedeva, ossia uomini vestiti da donne, eleganti quanto rassicuranti. Donne serene, talora gioiose. Niente di eccessivo, nessun tipo di Drag Race e nessuna Ru Paul a condurre la gara, nessuna queen dai capelli supercotonati e coperta di strass che mima parole dei brani di grande successo facendo la pazza, come Vida Boheme e Noxeema Jackson insegnavano all’inesperta Chi Chi Rodriguez, nel film ‘A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar’. Quegli scatti, mostravano, in verità, qualcosa di più simile alle foto di famiglia, una cena per un’occasione speciale, un happening dove andare vestiti bene, bacettii sulle guance, un picnic sull’erba.
A lungo Swope non volle saperne niente, finché insieme al suo compagno, Michel Hurst, decise di mettere insieme tutte queste foto e farne un libro – intitolato, appunto, Casa Susanna, edito nel 2005 da powerHouse Books– lasciando agli scatti l’arduo compito di raccontare una storia segreta che gli stessi autori cominciarono a conoscere soltanto dopo la pubblicazione del testo, quando le testimonianze dei frequentatori di Casa Susanna iniziarono a ricongiungersi alle immagini.

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Susanna, la matrona di questo gineceo alternativo, si chiamava Tito Valenti ed era un uomo che aveva scelto di spendere il resto della propria vita da donna.

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Robert Hill, ricercatore dell’Università del Michigan che una decina di anni fa si è occupato di ricucire le storie che giravano attorno alle foto di Swope, ha intervistato alcune delle amiche di Susanna, come Sandy, imprenditore divorziato. Lui racconta che Casa Susanna era un posto eccitante «perché quali che fossero le tue fantasie segrete, incontravi altre persone che ne avevano di simili e ti accorgevi di essere, sì, “diverso” ma non “pazzo”». Sandy, che oggi ha più di 70 anni e non si traveste da qualche decade, negli anni sessanta era ancora studente universitario e nei weekend frequentava Casa Susanna. «Era estremamente liberatorio. Sono cresciuto in una famiglia molto conservatrice. Volevo sposarmi, avere una casa, un’auto, un cane. Cose che alla fine sono successe. Ma allora avevo questi impulsi conflittuali e non sapevo da che parte voltarmi. Non sapevo quale fosse il mio posto nel mondo».

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Il ricordo di Casa Susanna, dei suoi weekend e delle suoi party declina fino a perdersi nella memoria dei suoi ospiti, pur seguendoli negli anni a venire, attraverso le loro scelte di vita, che poi per la maggior parte di loro si riducono a un unico enorme bivio. Continuare nella presunta normalità come Sandy o diventare donna, come Fiona che si trasferì a Sidney, dove visse come Katherine Cummings, libraia ed editrice. Lei, che alla nascita si chiamava John.

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E poi c’era Virginia Prince, farmacista e fondatrice della rivista specializzata ‘Transvestia’ e del movimento transgender. «Ho inventato i trans – rideva ancora 96enne, poco prima di morire – ma se questa gente sapesse che non mi sono mai operata mi farebbe la pelle».

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E infine c’era Susanna, a cui lasciamo concludere questa storia rubata ai ricordi di un gruppo di uomini, che, quando negli States vivere la propria diversità era ancora troppo difficile, nonostante fossero gli anni della liberazione sessuale, hanno deciso di trovare conforto alla loro condizione in un rifugio isolato, ma col reciproco sostegno di altri fratelli di condizione. Anzi, sorelle.

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«Scena: il portico di fronte all’edificio principale del nostro resort nelle Catskill Mountains. Ora: circa le quattro del mattino, il Labor Day sta per sorgere oltre l’oscurità distante. Personaggi: quattro ragazze che chiacchierano. È buio. Solo un fascio di luce illumina parte della proprietà a intervalli regolari – fa magari un po’ freddo a quasi mille metri d’altitudine. Ogni tanto una fiamma in punta di sigaretta illumina un volto femminile – un altro weekend al resort, ore in cui impariamo a conoscere noi stessi un po’ meglio osservando la nostra immagine riflessa in nuovi colori e in una nuova prospettiva attraverso le vite dei nostri amici». È forse questa la sintesi di cosa fosse Casa Susanna. A parlare, infatti, è proprio lei, Susanna, che da qualche parte nei primi anni Settanta scriveva della sua Casa sulle colonne di ‘Transvestia’.

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TRENI SPORCHI: GIUDICE CONDANNA TRENITALIA.

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di Michele De Sanctis

La sentenza, di cui vi sto per parlare, riguarda i tantissimi pendolari che ogni giorno si servono della rete ferroviaria italiana per andare a lavorare o per motivi di studio. Per l’occasione, vi scrivo in diretta dal treno su cui anch’io, ogni giorno, viaggio per andare a lavoro e per tornare a casa. In realtà, la maggior parte dei miei post sono scritti in treno. Oggi, però, noto con piacere che, a dispetto della folla prefestiva, la mia carrozza è stranamente pulita. A parte il cestino dei rifiuti alla mia destra che, a giudicare dal contenuto strabordante, accoglie i resti di una colazione o forse due e di un pranzo. Oppure gli avanzi di una persona in preda a una forte crisi ipoglicemica. Ma mi basta cambiare sedile: pazienza, niente finestrino! In fondo, a che mi serve? Tanto devo scrivere! E poi quello del cestino stracolmo è il male minore che un pendolare possa affrontare. Non è vero?
E a voi? Vi è mai capitato di viaggiare tra immondizia e cattivo odore? E avete mai pensato che un’efficiente pulizia da parte di Trenitalia potrebbe rendere il vostro viaggio da pendolare meno penoso? Sapevate che la razione di germi cui quotidianamente ci sottoponiamo, alla lunga, potrebbe alterare il nostro stato di salute? Ebbene, è proprio quanto è capitato ad uno di noi.

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Si tratta di uno studente pendolare di Spoleto, cui purtroppo sono stati riscontrati problemi di salute causati dalle pessime condizioni igieniche delle carrozze in cui abitualmente doveva sedersi per affrontare il suo viaggio.
Questi i fatti: il ricorrente, giovane studente di giurisprudenza, tra il 2008 ed il 2009 si è trovato a viaggiare come pendolare nella tratta Spoleto-Roma su delle carrozze troppo spesso lasciate sporche: il che ha determinato un aggravarsi dei suoi preesistenti problemi asmatici.
Il Giudice di Pace di Roma, con sent. n. 41354/13, dott.ssa Concettina Cardaci, gli ha riconosciuto un indennizzo in via equitativa pari a mille euro, per danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale, proprio a causa delle scarse condizioni igieniche del treno su cui viaggiava. “La sua domanda – si legge nella motivazione della sentenza – tesa a dimostrare la responsabilità di Trenitalia per i disagi subiti a causa delle precarie condizioni igieniche dei treni, è fondata e va accolta”, visto che il ricorrente ha documentato sia “la sporcizia dei treni in questione” sia “le negative conseguenze sulla propria salute”. Le precarie condizioni dei vagoni, sono state, infatti, “immortalate” dallo smartphone del ragazzo: una serie di istantanee, grazie a cui il giudice onorario ha riconosciuto al giovane l’esistenza della responsabilità a carico della compagnia di trasporto ferroviario. Il vettore, in verità, è sempre tenuto a garantire condizioni accettabili per il trasporto dei propri passeggeri, dovendo, peraltro, rispettare il diritto alla salute imposto dalla Costituzione. Decisive sono state, pertanto, le argomentazioni circa la lesione di un interesse tutelato dalla Carta fondamentale della Repubblica, quale, appunto, quello della salute, oltreché il superamento della soglia minima di tollerabilità e quindi l’impossibilità di assimilare tale tipo di danno a un semplice fastidio.

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Ricordatevi sempre, colleghi di viaggio, che nel momento in cui acquistate il biglietto del treno, o, meglio, l’abbonamento, di fatto concludete un contratto con la compagnia di trasporto, che è, dunque, obbligata a garantirvi la prestazione venduta, secondo correttezza e nel rispetto di standard qualitativi. I diritti dell’utenza sono sanciti, in primis, dalla Costituzione!
Tuttavia, poiché nel caso di specie non si poteva quantificare con certezza il danno subìto, il GdP ha necessariamente fatto ricorso alla cosiddetta valutazione equitativa. In assenza di specifiche prove sull’ammontare dei danni, infatti, la liquidazione viene effettuata sulla sola base di quanto appare più giusto al giudice. Per l’appunto, equo. Vero è che un indennizzo pure spettava a questo pendolare, tant’è che, non potendo “essere posta in dubbio la responsabilità da parte di Trenitalia consistente nella violazione delle norme che regolano l’erogazione dei servizi pubblici, ma anche dei diritti fondamentali della persona come quelli che attengono alla tutela della salute”, prosegue la sentenza, deve, comunque “essere affermato il diritto dello studente ad ottenere il risarcimento dei danni da lui subiti”, pur in carenza di criteri atti alla relativa quantificazione.
“Si tratta di una sentenza molto importante, secondo la quale il treno sporco rappresenta una violazione dei diritti fondamentali della persona previsti dalla Costituzione”. È quanto ha dichiarato Cristina Adducci, avvocato del Codacons, cui il pendolare si era, in prima istanza, rivolto per avere assistenza. La responsabilità per danni non patrimoniali, di cui all’art. 2059 c.c., infatti, ben si configura, da un lato, per inadempimento contrattuale, dall’altro è la stessa Costituzione a sancire il diritto inviolabile alla salute di ciascuno di noi. Anche dei pendolari.
Ricordatelo al signor capotreno, che incontrate ogni giorno (ormai vi conosce più del vostro migliore amico), ma fa finta di non vedere l’immondizia su cui sedete, limitandosi alla solita frase ‘Biglietti, prego!’

Ringrazio la mia Marta, avvocato, per avermi segnalato il caso di specie.

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Milano, il test del vicesindaco in carrozzella da disabile.

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da La Repubblica – Milano del 20 aprile 2014

di Ilaria Carra

Un giro in carrozzella a Milano. Per testare le difficoltà che ogni giorno devono fronteggiare i disabili. Il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris, il delegato del Comune ai giovani, Alessandro Capelli, e due disabili sono partiti in carrozzella da via Ripamonti e sono saliti sulla 95 fino a via Giovanni da Cermenate. Poi è toccato al tram della linea 15 fino in piazza della Scala.

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L’iniziativa è stata organizzata da Massimo Lorusso di ‘Milano per tutti’, una associazione che si occupa dell’abbattimento delle barriere architettoniche in città. Il senso: mostrare agli amministratori comunali le difficoltà dei disabili in città. Dal giro sono emersi i problemi con gli scivoli dei marciapiedi, spesso sconnessi, oltre all’inaccessibilità di diversi negozi anche in centro. E al fatto che i mezzi pubblici siano omologati per una carrozzella sola, contro i 163 posti di capienza su un autobus e 272 su un tram.

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Fonte: La Repubblica

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Se la casa non c’è “Abitiamo insieme”.

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da La Stampa – Torino del 20 aprile 2014

A Torino spinti dagli sfratti aumentano i cohousing. E la soluzione di ripiego diventa un’opportunità.

Il cohousing è da anni un’esperienza consolidata all’estero e nel Nord Europa: a Torino stanno aumentando gli esperimenti di convivenza per arginare il problema degli sfratti.

di DAVIDE LESSI (NEXTA)
MANUELA MESSINA (AGB)

«E pensare che solo qualche mese fa queste famiglie non le conoscevo nemmeno». A 61 anni la signora Piera ha assunto il titolo di nonna di Porta Palazzo. Stringe i ferri da maglia nelle mani e spiega: «Quando i vicini sono al lavoro mi prendo cura dei loro bambini, gioco con i più piccoli o guardo scorrazzare i più grandi nel cortile». Non si tratta di una scelta di buon vicinato, ma di vita. Perché la signora Piera vive in un cohousing. Un termine inglese che significa co-abitare. L’idea è semplice: un edificio con alloggi privati ma spazi condivisi. Nella stessa casa di ringhiera convivono altre 15 persone: da privati hanno unito le forze per rimettere a nuovo un edificio affacciato su piazza della Repubblica. E oggi, dopo tre anni di lavori, abitano tutti lì: hanno un loro appartamento ma negli ambienti comuni cenano insieme, organizzano gruppi d’acquisto solidale, si danno una mano nelle piccole difficoltà. La casa si chiama Numero Zero ed è solo uno degli ultimi esperimenti di cohousing in città.

Il modello arriva dal Nord Europa. I primi a sperimentarlo sono stati i danesi 30 anni fa. Poi la Svezia, l’Olanda e la Germania, con l’esempio di Vauban, periferia di Friburgo, dove in cohousing vive un intero quartiere di 5000 persone. In tempi di crisi questa soluzione abitativa si sta affermando anche Torino. E non solo a Porta Palazzo. Nell’area degli ex Mercati Generali è stato recuperato un edificio del Villaggio Olimpico: ora ci sono 42 alloggi per famiglie, studenti fuori sede e soci del progetto Buena Vista. L’associazione Social Club ha ristrutturato gli appartamenti e li affitta a prezzi calmierati.

Torino nel 2013 è risultata tra le prime città in Italia per numero di sfratti. In Piemonte il dramma della morosità involontaria (dovuta alla perdita del lavoro e all’incapacità di far fronte all’affitto) ha coinvolto lo scorso anno 6312 famiglie, il 9,2% del totale nazionale. «La tensione abitativa è alta», ammette il vicesindaco Elide Tisi. Che, in quanto presidente della commissione per l’emergenza abitativa, guarda di buon occhio alle ultime esperienze di cohousing. «Seppur di nicchia sono segnali importanti che potrebbero avere una funzione preventiva rispetto al dramma degli sfratti», spiega. Il Comune da parte sua vanta l’orgoglio di avere messo in piedi una delle prime esperienze di social-housing: il condominio sociale di via Gessi. Grazie alla collaborazione con la compagnia di San Paolo sono stati creati appartamenti per donne e anziani soli, nonché alloggi temporanei per chi ha bisogno di un percorso di assistenza. Un esempio, quello di via Gessi, che, fondi permettendo, potrebbe diventare un modello per le diverse decine di case pubbliche sfitte a Torino.

Fonte: La Stampa

LA SOLITUDINE DELL’AMERICA LATINA.

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L’8 dicembre 1982, durante la cerimonia di consegna dei premi Nobel a Stoccolma, Gabriel Garcia Márquez, colombiano – che aveva appena vinto il Nobel per la letteratura – tenne il discorso «La solitudine dell’America Latina». Màrquez raccontò le bizzarrie e la grandiosità dell’America Latina, dalle descrizioni che ne fecero i primi esploratori fino alle sue vicende storiche folli e sanguinarie. Lo accompagnò con un invito alla «venerabile Europa» a non interpretare il Sudamerica secondo gli standard europei, finendo per renderlo ancora più incomprensibile, e concluse con una speranza per «una nuova e impetuosa utopia della vita».

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Pubblichiamo la traduzione dell’intero discorso tenuto in quell’occasione per ricordare Gabo, venuto a mancare a 87 anni, in un ospedale di Città del Messico, a causa dell’improvviso aggravarsi di una polmonite, dopo un lungo periodo di un precario stato di salute, dovuto all’ineluttabile avanzare dell’età.

MDS

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Antonio Pigafetta, un navigatore fiorentino che accompagnò Magellano nel primo viaggio attorno al mondo, durante il suo passaggio attraverso la nostra America meridionale scrisse un resoconto rigoroso che tuttavia sembra un’avventura dell’immaginazione. Raccontò di avere visto maiali con l’ombelico sulla schiena e uccelli privi di zampe, le cui femmine covavano le uova sul dorso del maschio, e altri come pellicani senza lingua, i cui becchi sembravano cucchiai. Raccontò di avere visto un mostruoso animale con testa e orecchie di mulo, corpo di cammello, zampe di cervo e nitrito di cavallo. Raccontò che il primo nativo incontrato in Patagonia fu messo davanti a uno specchio, e che quel gigante esagitato perse l’uso della ragione per paura della propria immagine. Questo libro breve e affascinante, nel quale già si intravedono i germi dei nostri attuali romanzi, non è affatto la testimonianza più stupefacente sulla nostra realtà di quei tempi. I cronisti delle Indie ce ne lasciarono innumerevoli altre. L’Eldorado, il nostro illusorio paese tanto conteso, figurò in numerose mappe per lunghi anni, cambiando luogo e forma secondo la fantasia dei cartografi.
Cercando la fonte dell’eterna giovinezza il mitico Álvar Núñez Cabeza de Vaca esplorò per otto anni il Nord del Messico, con una spedizione stravagante i cui membri si divorarono gli uni con gli altri e dalla quale ritornarono solo cinque dei seicento uomini che la componevano. Uno dei tanti misteri che non furono mai decifrati è quello delle undicimila mule, ognuna carica di cinquanta chili d’oro, che un giorno partirono da El Cuzco per andare a pagare il riscatto di Atahualpa e non arrivarono mai a destinazione. Più tardi, nel periodo coloniale, venivano vendute a Cartagena delle Indie galline allevate in terre alluvionali nelle cui interiora si trovavano pietruzze d’oro. Questo delirio aureo dei nostri fondatori ci ha perseguitato fino a poco tempo fa. Ancora nel secolo scorso, la missione tedesca incaricata di studiare la costruzione di una ferrovia interoceanica sull’istmo di Panama giunse alla conclusione che il progetto era realizzabile a condizione che i binari non fossero fatti di ferro, un metallo che scarseggiava nella regione ma d’oro.
L’indipendenza dalla dominazione spagnola non ci salvò dalla follia. Il generale Antonio López de Santa Anna, che fu tre volte dittatore del Messico, fece seppellire con magnifici funerali la gamba destra che aveva perso nella cosiddetta guerra dei Pasticcini. Il generale Gabriel García Moreno governò l’Ecuador per sedici anni come un monarca assoluto e il suo cadavere fu vegliato, in uniforme di gala e con la corazza delle decorazioni, seduto sulla poltrona presidenziale. Il generale Maximiliano Hernández Martínez, il despota teosofo del Salvador che fece sterminare in una barbara mattanza trentamila contadini, aveva inventato un pendolo per verificare se i cibi fossero avvelenati e fece ricoprire di carta rossa l’illuminazione pubblica per combattere un’epidemia di scarlattina. Il monumento al generale Francisco Morazán, eretto sulla plaza Mayor di Tegucigalpa, è in realtà una statua del maresciallo Ney comprata in un magazzino di sculture usate.
Undici anni fa, uno degli insigni poeti del nostro tempo, il cileno Pablo Neruda, illuminò con le sue parole questa sala. Da allora, nelle buone coscienze d’Europa, e a volte anche nelle cattive, hanno fatto irruzione con impeto sempre maggiore le spettrali notizie dell’America Latina, questa immensa patria di uomini visionari e di donne memorabili, la cui infinita ostinazione si confonde con la leggenda. Non abbiamo avuto un attimo di tregua. Un presidente prometeico trincerato nel suo palazzo in fiamme è morto combattendo da solo contro un intero esercito, e due disastri aerei sospetti e mai chiariti hanno tolto la vita a un altro presidente dal cuore generoso e a un militare democratico che aveva ristabilito la dignità del suo popolo.
Ci sono state cinque guerre e diciassette colpi di Stato, ed è venuto alla ribalta un dittatore luciferino che in nome di Dio ha compiuto il primo etnocidio dei nostri tempi nell’America Latina. Nel frattempo, sono morti prima di compiere un anno venti milioni di bambini latinoamericani, che sono più di quanti ne siano nati in Europa dal 1970. I desaparecidos a causa della repressione sono quasi centoventimila, che è come se oggi non si sapesse dove siano finiti tutti gli abitanti della città di Uppsala. Numerose donne, arrestate quando erano incinte, hanno partorito nelle prigioni argentine, ma si ignora ancora l’identità e il luogo di residenza de loro figli, che le autorità militari hanno dato in adozione clandestina o hanno internato negli orfanotrofi. Per essersi opposti a questo stato di cose, sono morti circa duecentomila uomini e donne in tutto il continente, mentre più di centomila sono stati ammazzati in tre piccoli e volenterosi paesi dell’America centrale: Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Se ciò fosse avvenuto negli Stati Uniti, la cifra proporzionale sarebbe di un milione e seicentomila morti violente in quattro anni. Dal Cile, paese tradizionalmente ospitale, sono fuggite un milione di persone: il dieci per cento della sua popolazione. L’Uruguay, una minuscola nazione di due milioni e mezzo di abitanti che veniva considerato il paese più civilizzato del continente, ha perso nell’esilio un cittadino su cinque. La guerra civile nel Salvador ha prodotto, dal 1979, quasi un rifugiato ogni venti minuti. Il paese che si sarebbe potuto creare con tutti gli esuli e gli emigranti forzati dell’America Latina avrebbe una popolazione più numerosa di quella della Norvegia.
Oso pensare che sia stata questa realtà fuori dal comune, e non soltanto la sua espressione letteraria, a meritare quest’anno l’attenzione dell’Accademia svedese delle Lettere. Una realtà che non è quella di carta, ma vive con noi e determina ogni istante delle nostre innumerevoli morti quotidiane, alimentando una sorgente creativa insaziabile, piena di sventura e di bellezza. Della quale questo colombiano errante e nostalgico non è nulla di più che un numero maggiormente segnalato dalla sorte. Poeti e mendicanti, guerrieri e malandrini, tutte noi creature di quella realtà eccessiva abbiamo dovuto chiedere molto poco all’immaginazione, perché la sfida maggiore per noi è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali per rendere credibile la nostra vita. È questo, amici, il nodo della nostra solitudine.
E se queste difficoltà confondono noi, che ne condividiamo l’essenza, non è difficile capire perché i talenti razionali di questa parte del mondo, estasiati nella contemplazione della propria cultura, si siano ritrovati senza un metodo valido per interpretarci. È comprensibile che insistano nel valutarci con lo stesso metro col quale valutano se stessi, senza ricordare che le ingiurie della vita non sono uguali per tutti, e che la ricerca dell’identità è difficile e sanguinosa per noi quanto lo è stata per loro. L’interpretazione della nostra realtà con schemi che non ci appartengono contribuisce soltanto a renderci sempre più sconosciuti, sempre meno liberi, sempre più solitari. Forse la venerabile Europa sarebbe più comprensiva se tentasse di vederci nel suo stesso passato. Se ricordasse che a Londra occorsero trecento anni per costruire le prime mura e altri trecento per avere un vescovo; che Roma si dibatté nelle tenebre dell’incertezza per venti secoli prima che un re etrusco la innestasse nella storia; e che ancora nel XVI secolo i pacifici svizzeri di oggi, che ci allietano con i loro formaggi mansueti e i loro orologi impavidi, insanguinavano l’Europa come soldati di fortuna. Ancora all’apogeo del Rinascimento, dodicimila lanzichenecchi al soldo degli eserciti imperiali saccheggiarono e devastarono Roma, passando a fil di spada ottomila dei suoi abitanti.
Non pretendo di incarnare le illusioni di Tonio Kröger, i cui sogni di unità fra un Nord casto e un Sud appassionato Thomas Mann esaltava cinquantatré anni fa in questa sala, ma credo che gli europei dallo spirito illuminato – quelli che lottano anche qui per una grande patria più umana e più giusta – potrebbero aiutarci meglio se riconsiderassero a fondo il loro modo di vederci. La solidarietà con i nostri sogni non ci farà sentire meno soli finché non si concretizzerà in atti di sostegno legittimo ai popoli che coltivano l’illusione di avere una vita propria nella ripartizione del mondo.
L’America Latina non vuole essere una pedina senza libero arbitrio, e non c’è ragione perché lo sia. E non ha nulla di chimerico il fatto che i suoi propositi d’indipendenza e originalità diventino un’aspirazione dell’Occidente. Ciò nonostante, i progressi della navigazione che hanno tanto ridotto le distanze fra le nostre Americhe e l’Europa sembrano invece averne aumentato la distanza culturale. Perché l’originalità che ci viene riconosciuta senza riserve nella letteratura ci viene negata con ogni tipo di sospetti nei nostri difficilissimi tentativi di cambiamento sociale? Perché pensare che la giustizia sociale che gli europei d’avanguardia tentano di imporre nei proprio paesi non possa essere anche un obiettivo latinoamericano con metodi diversi in condizioni differenti? No: la violenza e il dolore smisurati della nostra storia sono il risultato di ingiustizie scolari e amarezze inenarrabili, e non una congiura ordita a tremila leghe da casa nostra. Tuttavia, molti dirigenti e pensatori europei lo hanno creduto, con l’infantilismo dei nonni che hanno dimenticato le proficue follie della loro giovinezza, come se non fosse possibile altro destino se non quello di vivere alla mercé dei due grandi padroni del mondo. È questa, amici, la dimensione della nostra solitudine. E tuttavia, di fronte all’oppressione, al saccheggio e all’abbandono, la nostra risposta è la vita. Né i diluvi né le pestilenze, né le carestie né i cataclismi, e nemmeno le guerre eterne attraverso i secoli dei secoli sono riusciti a ridurre il tenace vantaggio della vita sulla morte.
Un vantaggio che aumenta e accelera: ogni anno ci sono settantaquattro milioni di nascite in più rispetto alle morti, una quantità di nuovi esseri viventi in grado di accrescere di sette volte ogni anno la popolazione di New York. La maggior parte di loro nasce nei paesi con meno risorse, compresi, naturalmente, quelli dell’America Latina. I paesi più prosperi, invece, sono riusciti ad accumulare abbastanza potere di distruzione da annientare cento volte non solo tutti gli esseri umani che esistono oggi, ma la totalità degli esseri viventi che sono passati per questo sfortunato pianeta.
In un giorno come quello di oggi il mio maestro William Faulkner disse in questa sala: «Mi rifiuto di ammettere la fine dell’uomo». Non mi sentirei degno di occupare questo posto che fu suo se non fossi pienamente consapevole che, per la prima volta dall’inizio dell’umanità, il colossale disastro che egli si rifiutava di ammettere trentadue anni fa è ora soltanto una semplice possibilità scientifica. Di fronte a questa sconvolgente realtà che nel corso di tutto il tempo umano è dovuta sembrare un’utopia, noi inventori di racconti, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare l’utopia contraria. Una nuova e impetuosa utopia della vita, in cui nessuno possa decidere per gli altri perfino sul modo di morire, dove sia davvero reale l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cent’anni di solitudine abbiano, finalmente e per sempre, una seconda opportunità sulla Terra.

Traduzione da:
García Márquez Gabriel – La solitudine dell’America latina. Scritti e interventi, Datanews, 2006.

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¡Adiós, Gabo!
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L’INDIA RICONOSCE IL «TERZO SESSO».

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di Andrea Serpieri

Con una sentenza rivoluzionaria, la Corte Suprema indiana ha riconosciuto lo scorso 14 aprile il diritto dei transessuali di essere considerati come «terzo sesso» e di godere degli stessi diritti degli altri cittadini sanciti dalla Costituzione.

Un ver­detto dalla por­tata sto­rica. Riconoscendo, infatti, alla comunità tran­sgen­der indiana lo sta­tus di «terzo genere ses­suale» davanti alla legge, la Corte ha effettuato una decisa presa di posi­zione desti­nata a modificare le abominevoli con­di­zioni di vita di tutti i trans del Paese, finora costretti a con­durre esi­stenze ai mar­gini della società e dell’umana dignità, vit­time di vio­lenze e discri­mi­na­zione, borderline sempre, in ogni aspetto della vita quotidiana. Quest’ostracismo era conseguenza di una legge del 1871, risalente al periodo coloniale, che li considerava come “criminali”.

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La sezione della mas­sima Corte indiana, però, ha ora sta­bi­lito che i transessuali debbano poter godere dei mede­simi diritti garan­titi dalla Costi­tu­zione al resto della popo­la­zione e saranno con­si­de­rati come una delle Other Bac­k­ward Class (Obc), ossia uno di quei gruppi sociali che godono di misure gover­na­tive ad hoc in ambito lavo­ra­tivo e sco­la­stico.
Accogliendo un ricorso collettivo presentato due anni fa, i giudici hanno affermato che «è diritto di ogni essere umano scegliere il proprio genere sessuale». I transessuali, o “Hijra” come sono chiamati in hindi, saranno, pertanto, liberi di identificarsi in una terza categoria che non è né quella di maschio né femmina. Con questo verdetto, l’India diventa uno dei pochi Paesi al mondo a prevedere il «terzo genere». A distanza di pochi giorni dall’omologo riconoscimento avvenuto anche nel sistema giuridico australiano.

Si stima che in India ci siano dai 3 ai 5 milioni di “Hijra”, un’ampia categoria che comprende dai travestiti ai castrati, brutale pratica che ancora sopravvive. Molti di loro sono costretti a prostituirsi o a vivere delle elemosine raccolte durante feste di matrimonio e varie celebrazioni, in cui sono considerati di buon auspicio.

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«Rico­no­scere ai tran­sgen­der lo sta­tus di terzo genere ses­suale non è una que­stione medica o sociale, ma ha a che fare coi diritti umani» ha dichia­rato il giu­dice KS Rad­ha­kri­sh­nan al momento del ver­detto, spe­ci­fi­cando che «anche i tran­sgen­der sono cit­ta­dini indiani ed è neces­sa­rio garan­tire loro le mede­sime oppor­tu­nità di cre­scita». Le con­se­guenze della sen­tenza, che invita il Governo cen­trale e quelli locali ad ade­guarsi alla novità, si riper­cuo­te­ranno su una serie di aspetti della vita di tutti i giorni: l’opzione «tran­sgen­der» sarà inse­rita nei moduli da com­pilare per i docu­menti d’identità, saranno creati bagni pub­blici a loro riservati e la con­di­zione di “Hijra” verrà tute­lata nelle strut­ture ospe­da­liere nazio­nali con reparti appo­siti, esclu­dendo l’obbligo di sce­gliere tra uno dei due sessi per poter acce­dere alle cure medi­che. Inol­tre, in virtù dell’appartenenza alle Obc, il governo dovrà stan­ziare un deter­mi­nato numero di posti ad hoc nei luo­ghi d’impiego sta­tali, nelle scuole pri­ma­rie e nelle uni­ver­sità, secondo il sistema delle cd. ‘reser­va­tions’, ovvero delle quote riservate dal Governo alle Obc, considerate una sorta di ‘categoria protetta’.

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La sentenza rianima la speranza della battaglia della comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) indiana, diretta ad ottenere l’abolizione dell’odioso vecchio ed obsoleto articolo 377 del Codice Penale che vieta il ‘sesso contro natura’ come la sodomia e la fellatio. Rovesciando, infatti, una precedente decisione di una corte inferiore del 2009, lo scorso dicembre la Corte Suprema aveva reintrodotto la disposizione in base alla quale i rapporti tra omosessuali sono illegali. A inizio mese, tuttavia, la stessa Corte ha accet­tato di con­si­de­rare una «sen­tenza ripa­ra­trice» e oggi, con questa sentenza, si spera in un prossimo passo in difesa dei diritti umani nel Paese, di un’evoluzione delle politiche di genere, in accordo con i principi di tolleranza e rispetto. La speranza è, quindi, quella di una futura conquista dei pieni diritti civili da parte della comunità indiana gay lesbo e trans.

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PAPA FRANCESCO? SOLO MARKETING, MA È SEMPRE LA VECCHIA CHIESA.

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di Andrea Serpieri

“Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti.” Questo è quanto ha ricordato il Papa nell’udienza ai delegati dell’Ufficio Internazionale Cattolico dell’Infanzia, voluto da Pio XII in difesa dell’infanzia, all’indomani del II conflitto mondiale.
Per chi aveva voluto vedere nella figura di Francesco un nuovo Papa buono aperto alla modernità, l’udienza della scorsa settimana si è rivelata una grande delusione. Adesso è finalmente evidente a tutti gli italiani ciò che alla popolazione omosessuale del resto del mondo non era sfuggito: ossia, che la precedente apertura ai gay era stata soltanto il frutto di un’interpretazione superficiale, quando non anche sviata appositamente per ragioni legate piuttosto al rilancio dell’oscura immagine di Santa Romana Chiesa. Un’operazione di marketing, in altre parole. Bergoglio, infatti, aveva solo teso una mano ai fratelli che si sono persi per aiutarli a ritrovarsi nel popolo di Dio. Tradotto: gli omosessuali hanno peccato, ma chi sono io per non perdonarli e riaccoglierli (se ravveduti) nella casa del Signore?

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Chi si era illuso in una nuova era del cattolicesimo dovrà definitivamente ricredersi, perché Bergoglio non solo ha tenuto a precisare con chiarezza che le coppie gay non costituiscono una famiglia, ma ha anche bocciato nettamente le iniziative contro l’omofobia nelle scuole. Peraltro, facendo sue le stesse parole tanto di moda tra alcuni gruppi omofobi di espressione cattolica. E con tanto di accusa di nazifascismo e dittatura del pensiero unico! Proprio come usano certi movimenti costituitisi contro il DDL Scalfarotto, come, per esempio, fa il movimento denominato ‘Sentinelle in Piedi’.
Il Papa dovrebbe, però, ricordare che tra le vittime delle dittature del XX secolo ci sono stati anche i gay e che l’accusa di voler imporre a tutti i costi le proprie opinioni è semplicemente ridicola. Qui si parla di diritti civili, non di opinioni. E quanto all’imposizione di un credo, farebbe meglio a ripassare il capitolo di storia sulle crociate contro gli eretici.

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Ad ogni buon conto, vi riportiamo le sue parole:
“Occorre ribadire il diritto dei bambini a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Ciò comporta al tempo stesso sostenere il diritto dei genitori all’educazione morale e religiosa dei propri figli. E a questo proposito vorrei manifestare il mio rifiuto per ogni tipo di sperimentazione educativa con i bambini. Con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del pensiero unico”.
Ma l’attacco del Papa buono non si è limitato solo agli omosessuali. Bergoglio ha anche lanciato i suoi solenni strali contro la Corte Costituzionale, dopo la recente sentenza di incostituzionalità che ha investito il divieto alla fecondazione eterologa previsto dalla legge 40/04. Un’altra grave ingerenza del Vaticano negli affari di uno Stato (teoricamente) laico, l’Italia. “Ferma opposizione a ogni diretto attentato alla vita, specialmente innocente e indifesa. Il nascituro nel seno materno è l’innocente per antonomasia”, è questo quanto ha dichiarato Francesco.
Altro che libero Stato in libera Chiesa! Purtroppo i Patti Lateranensi ci hanno lasciato questa pesante eredità. E se a causa della storica complicità della politica italiana, il capo della Santa Sede si permette ancora oggi una simile ingerenza negli affari interni della nostra Repubblica, ad avere un problema qui non sono solo i gay e le lesbiche, o le coppie sterili, ma tutti i cittadini italiani.

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