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Il ritorno del mutualismo in Italia: il futuro è partecipazione

da Il Manifesto del 9/5/2014

Quinto stato. La società di mutuo soccorso “Insieme Salute” compie vent’anni. Negli anni della crisi ha aumentato i suoi soci. Il progetto della mutua “Elisabetta Sandri” rivolto ai lavoratori indipendenti esclusi dal Welfare statale.

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di Roberto Ciccarelli

Gli iscritti alle società di mutuo soc­corso sono aumen­tati in quat­tro anni del 70%. Nel 2010 erano poco meno di 600 mila. Secondo la Fede­ra­zione Ita­liana Mutua­lità Inte­gra­tiva Volon­ta­ria (FIMIV), oggi sono arri­vati a quasi un milione. Un record impres­sio­nante pro­dotto dagli oltre 15 miliardi di tagli alla sanità pub­blica dal 2010 ad oggi impo­sti dalle poli­ti­che di auste­rità e dal dra­stico peg­gio­ra­mento della con­di­zione eco­no­mica delle famiglie.

Nell’ultimo quin­quen­nio sono nate oltre cento società di mutuo soc­corso. Un accordo tra FIMIV e Con­f­coo­pe­ra­tive ha dispo­sto che la mutua­lità sia finan­ziata dalle ban­che di cre­dito coo­pe­ra­tivo ope­ranti in tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale, dalla Lom­bar­dia alla Puglia. Un altro fronte di svi­luppo è quella dei con­tratti nazio­nali. Sono almeno cin­quanta i rin­novi che pre­ve­dono forme di mutua­lità. Ci sono fondi che inte­res­sano gli ope­ra­tori del com­mer­cio, i chi­mici o i metalmeccanici.

Ad avere influito sul rin­no­vato svi­luppo del mutua­li­smo sono state due deci­sioni. Dal 2008 due decreti varati dal governo prodi e poi da quello Ber­lu­sconi hanno auto­riz­zato l’istituzione dei Fondi sani­tari inte­gra­tivi, in attua­zione della riforma sani­ta­ria del 1999. Una legge del 2012 ha poi aggior­nato la nor­ma­tiva sul mutuo soc­corso che risa­liva al 1886 dispo­nendo alcune norme fiscali per favo­rire la dedu­ci­bi­lità delle spese per l’assistenza sani­ta­ria inte­gra­tiva per le aziende che la pre­ve­dono per i pro­pri dipen­denti (3600 euro circa a per­sona). Secondo la Fimiv le per­sone coin­volte nel wel­fare azien­dale supe­rano oggi i 14 milioni. Dieci anni fa erano non più di 3 milioni.

Quello del mutuo soc­corso è anche una realtà eco­no­mica. Nel 2011 un rap­porto del Par­la­mento Euro­peo aveva cal­co­lato in 180 miliardi di euro i con­tri­buti rac­colti dalle mutue in tutto il con­ti­nente. Il mutuo soc­corso occu­pava allora 350 mila per­sone, garan­tendo coper­ture sociali e sani­ta­rie di tipo com­ple­men­tare, di ispi­ra­zione soli­da­ri­stica e non pri­va­ti­stica come le assi­cu­ra­zioni sani­ta­rie private.

«Soste­niamo la par­te­ci­pa­zione, non la privatizzazione»

Per Vale­rio Ceffa, diret­tore della società di mutuo soc­corso Insieme Salute che sabato 10 mag­gio terrà l’assemblea annuale al grat­ta­cielo Pirelli a Milano e festeg­gerà i suoi primi vent’anni di esi­stenza, la spie­ga­zione di que­sta cre­scita note­vole è duplice. «Il mutua­li­smo sta cre­scendo per­ché offre solu­zioni alle dif­fi­coltà del sistema sani­ta­rio pub­blico. Nel frat­tempo è anche cre­sciuta la cul­tura della pre­vi­denza sani­ta­ria, un ele­mento molto mar­gi­nale fino a qual­che anno fa. Non c’è dub­bio che a que­sto esito abbia con­tri­buito la dif­fu­sione dei fondi contrattuali».

In que­sto con­te­sto, Insieme Salute che ha sede in Lom­bar­dia e varie rami­fi­ca­zioni anche in altre regioni, ha aumen­tato del 5,6% i suoi soci nel 2013 rispetto al 2012 (11.800 soci). Nei primi mesi del 2014 gli iscritti sono già aumen­tati rispetto all’anno pre­ce­dente arri­vando a 12.500. «La cre­scita è quasi com­ple­ta­mente da ascri­vere alle ade­sioni volon­ta­rie e non ai fondi – afferma – Anche noi abbiamo con­ven­zioni azien­dali natu­ral­mente, ma il nostro scopo è creare nuovi soci e dif­fon­dere una nuova consapevolezza».

La crisi della sanità ha fatto emer­gere anche il pro­blema del cosid­detto «con­su­mi­smo sani­ta­rio». «Si tratta di un uso inap­pro­priato delle pre­sta­zioni sani­ta­rie, anche quando non c’è n’è biso­gno, che col­pi­sce soprat­tutto i cit­ta­dini più fra­gili eco­no­mi­ca­mente – spiega Ceffa – La nostra mutua­lità cerca invece di muo­versi sul piano della par­te­ci­pa­zione e cerca di dare garan­zie molto ampie ai soci».

Ad esem­pio, quale? «Innan­zi­tutto, la garan­zia di essere tute­lati a vita — risponde Ceffa – Sono ormai molte le assi­cu­ra­zioni pri­vate e altri fondi che al com­pi­mento degli 80 anni, quando cioè aumen­tano i rischi e si ha biso­gno di mag­giori ser­vizi e cer­tezze, abban­do­nano i loro clienti. E non mi sof­fermo sui costi proi­bi­tivi che tutto que­sto com­porta per le per­sone. Noi stiamo pen­sando ad un pro­getto insieme ad altre mutue, coo­pe­ra­tive sociali e gli enti locali o ter­ri­to­riali per ren­dere soste­ni­bili que­ste ope­ra­zioni di assi­stenza anche per le fasce di popo­la­zioni a basso red­dito che sono quelle più col­pite dalla crisi».

Il pro­getto di Insieme Salute è quello di costruire una rete alla quale par­te­cipi anche la sanità pub­blica. Per rea­liz­zarla è fon­da­men­tale rea­liz­zare una sen­si­bi­liz­za­zione per aumen­tare la cul­tura della pre­vi­denza sani­ta­ria. «Non chie­diamo soldi agli enti pub­blici – pun­tua­lizza Ceffa – Al con­tra­rio vogliamo aiu­tarci a vicenda per far cre­scere que­sta sen­si­bi­lità che può aiu­tare a risol­vere pro­blemi, a chiu­dere le falle che si stanno aprendo nel sistema e a por­tare nel sistema pub­blico di tutela nuove risorse».

Il mutua­li­smo non è sosti­tu­tivo al wel­fare uni­ver­sa­li­stico ma è inte­gra­tivo. «Il mutua­li­smo pos­siede una carica sociale e uni­ver­sa­li­stica – con­ferma Ceffa – Biso­gna cono­scerlo e pra­ti­carlo per­chè altri­menti resta la spesa pri­vata pura e il cit­ta­dino resta solo con i suoi pro­blemi. La mutua è una rispo­sta più aperta e sociale».

Il wel­fare per lavo­ra­tori autonomi

Insieme Salute ha siglato più di due anni fa la con­ven­zione sani­ta­ria «Eli­sa­betta San­dri» con il sin­da­cato tra­dut­tori «Strade», il sin­da­cato nazio­nale scrit­tori (Sns), l’associazione dei con­su­lenti del ter­zia­rio avan­zato Acta e i tra­dut­tori di Aiti. Ad oggi i soci tra i lavo­ra­tori auto­nomi sono circa 350. A que­ste per­sone, sostan­zial­mente escluse dal Wel­fare sta­tale e spesso inca­paci di pagarsi un’assistenza pri­vata, viene garan­tita una coper­tura sani­ta­ria o un asse­gno per la gra­vi­danza. Il ver­sa­mento di una quota annuale di 246 euro per­mette il rim­borso dell’80% dei tic­ket e un sus­si­dio per l’invalidità.

«È un’esperienza molto posi­tiva – afferma Ceffa – che va molto al di là dei numeri che sono comun­que inte­res­santi. La mutua “Eli­sa­betta San­dri” ha infatti aperto uno spa­zio cul­tu­rale in mondi che non hanno con­sa­pe­vo­lezza rispetto ai loro diritti e alle poten­zia­lità del mutuo soc­corso e della soli­da­rietà. Con i tra­dut­tori e gli altri lavo­ra­tori auto­nomi abbiamo incon­trato per­sone molto moti­vate rispetto a que­sti prin­cipi. Non è scon­tato. Molto spesso incon­triamo per­sone che si avvi­ci­nano a noi solo per­ché costiamo meno di un’assicurazione privata».

E tut­ta­via anche il costo di 246 euro all’anno costi­tui­sce un pro­blema finan­zia­rio per i lavo­ra­tori auto­nomi e pre­cari, i lavo­ra­tori poveri cre­sciuti negli anni della grande reces­sione. «Pur­troppo è così – con­ti­nua Ceffa – è un cir­colo vizioso: chi è meno tute­lato in Ita­lia ha sem­pre meno dispo­ni­bi­lità eco­no­mica per occu­parsi della pro­pria salute e di quella dei pro­pri cari. Noi fac­ciamo molti sforzi, cer­chiamo di dare solu­zioni meno costose, in fondo poco più di 200 euro all’anno è una cifra bassa rispetto ai rischi che copriamo. E dob­biamo man­te­nere un equi­li­brio economico».

A que­sta tra­gica dif­fi­coltà i tra­dut­tori stanno cer­cando di tro­vare una solu­zione a par­tire dal loro lavoro. «Il loro ten­ta­tivo è quello di por­tare risorse dai com­mit­tenti – spiega Ceffa — Stanno ragio­nando su ver­tenze agli edi­tori per­chè garan­ti­scano un minimo di tutela al lavo­ra­tore che non ne ha nes­suna. È una par­tita in cui dovreb­bero entrare i sin­da­cati. Fin’ora lo hanno fatto molto mar­gi­nal­mente. Noi siamo dispo­sti a fare la nostra parte. Vogliamo costruire la forma di assi­stenza ade­guata alle esi­genze dei diretti interessati».

Pro­spet­tive demografiche

Si sta pre­pa­rando un cor­to­cir­cuito. Le poli­ti­che dell’austerità hanno tagliato spesa sociale e sani­ta­ria nel momento in cui le pre­vi­sioni demo­gra­fi­che annun­ciano l’invecchiamento della popo­la­zione. Solo vent’anni fa la spe­ranza di vita degli ita­liani non rag­giun­geva i 70 anni men­tre oggi si avvi­cina agli 85. Nel 1994 la classe di età più con­si­stente era quella tra i 30 e i 34 anni, oggi è quella tra i 45 e i 49 anni, nel 2034 sarà quella tra i 60 e 64 anni.

L’Italia è uno dei paesi con più bassa fecon­dità nel mondo (1,5 per ogni donna), anche se negli ultimi anni assi­stiamo ad un recu­pero, gra­zie soprat­tutto al con­tri­buto degli stra­nieri. Come con­se­guenza di alta lon­ge­vità e per­si­stente bassa fecon­dità l’Italia è uno dei paesi con strut­tura demo­gra­fica più squi­li­brata (gli ultra ses­san­ta­cin­quenni che rap­pre­sen­tano oggi il 21% della popo­la­zione rag­giun­ge­ranno il 33% nel 2050, men­tre nel resto d’Europa sono attual­mente il 17% per salire al 27,5% nel 2050).

“Se molti indi­ca­tori eco­no­mici e sociali ci vedono in posi­zione svan­tag­giata, quello di rag­giun­gere e garan­tire livelli di salute tra i migliori in Europa e nel Mondo è senz’altro un risul­tato di cui invece andar fieri — afferma Ales­san­dro Rosina docente di Demo­gra­fia e Sta­ti­stica sociale all’Università Cat­to­lica di Milano — Un risul­tato che però non è scon­tato. Il pro­cesso di con­ti­nuo miglio­ra­mento può anche inter­rom­persi e si può peg­gio­rare se non si con­ti­nua a tener alta la qua­lità dei ser­vizi sani­tari, la loro acces­si­bi­lità da parte dei cit­ta­dini e la pro­mo­zione della cul­tura della salute”.

Le mutue sani­ta­rie come Insieme Salute costi­tui­scono un argine con­tro la dismis­sione del wel­fare e dei diritti sociali fon­da­men­tali che nella pros­sima gene­ra­zione pro­durrà una popo­la­zione di poveri non tute­lati e rap­pre­sen­tano già da oggi uno stru­mento utile per rico­struire i legami sociali tra­volti dalla crisi e dall’austerità.

Fonte: Il Manifesto

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Stiglitz: euro unico grande errore dell’Ue, non ha funzionato. Esperti Troika da bocciare

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da Il Sole 24 Ore del 6 maggio 2014

L’Unione europea «ha fatto un unico grande errore: l’euro, che non ha funzionato».Non ha usato giri di parole il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz nel corso della sua lecture “Can the euro be saved? An analysis of the future of the currency» alla Luiss. Secondo l’economista «ora non bisogna abbandonare l’euro ma andare avanti». Perché l’euro non ha funzionato e come si puo correggere il tiro? I problemi, per Stiglitz «non riguardano le strutture dell’Italia e di ciascun singolo Paese» ma il problema fondamentale è «la struttura dell’Eurozona e le politiche perseguite».

Stiglitz: austerità non ha funzionato

Non solo. Secondo il premio Nobel, anche se «in molte parti d’Europa oggi si celebra la fine della recessione, l’inizio della crescita non significa che ci sia una ripresa solida, non vuol dire che la politica dell’austerità abbia funzionato». Anzi, l’Europa – ha aggiunto – «ha perso mezzo decennio o quasi un decennio». Per Il professore della Columbia University «un ulteriore rigore di bilancio non può prevenire un’altra crisi: l’austerità non ha funzionato. Ora bisogna concentrarsi sulla riforma dell’Eurozona e delle politiche dell’Eurozona».

«Esperti Troika da bocciare»

A destare allarme è soprattutto la disoccupazione giovanile che in alcuni paesi come la Spagna e la Grecia sfiora cifre del 50 e del 60%. Nel mirino finiscono le ricette economiche della Troika (l’organismo di controllo informale formato dai rappresentanti della Commissione Ue, Bce e Fmi).«Se i miei studenti avessero presentato analisi come quelle della Troika per i Paesi europei li avrei bocciati» ha detto l’economista Usa. «La Troika – ha aggiunto Stiglitz – ha ripetutamente prodotto previsioni errate e piuttosto che ammetterlo e riconoscere i suoi sbagli ha sempre incolpato le sue vittime».

«A Eurozona serve unione fiscale e cambio mandato Bce»

Per uscire dalla crisi all’Eurozona la ricetta di Stiglitz si basa su«un quadro fiscale unico, un sistema finanziario comune con l’unione bancaria, e un’armonizzazione delle aliquote senza una corsa verso il basso nella tassazione alle imprese». Ma soprattutto, aggiunge l’economista, «serve una modifica nel mandato della Bce che non deve concentrarsi solo sull’inflazione ma su crescita e occupazione«. Stiglitz non ha escluso l’idea di «una ristrutturazione del debito», ma va fatta in fretta». Quello della Grecia è il modello di «ciò che non si dovrebbe fare: tanto che oggi il rapporto debito/Pil di Atene è più alto che nel 2010».

Fonte: Il Sole 24 Ore

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L’Europa prepara le banche all’Apocalisse: in Italia dovranno poter reggere un crollo di Borsa del 58%, con il Pil a -6% e la disoccupazione alle stelle.

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di Enrico Marro da Il Sole 24 Ore del 30 aprile 2014

Negli stress test che l’Autorità bancaria europea effettuerà sugli istituti di credito (dopo la verifica degli attivi da parte della Bce) c’è anche uno scenario avverso che prevede una nuova crisi finanziaria mondiale. Con pesanti ripercussioni anche per il nostro Paese. Vediamo quali.

1. Scenario apocalittico per gli stress test / Spread alle stelle, i BTp tornano al 6%.

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Alla base dello scenario peggiore ipotizzato dall’Eba c’è un incremento di 100 punti base dei T-Bond americani, con una graduale accelerazione sino a 250 punti base entro la fine di quest’anno. La conseguenza è una vampata di avversione del rischio, che porta a un’impennata dei rendimenti dei bond e a un deterioramento della qualità del credito. Nell’ipotesi di un incremento del rendimento dei T-Bond americani di 150 punti base, i tassi dei BTp salirebbero quest’anno al 5,9% (contro il 3,9% dello scenario base), al 5,6% nel 2015 (da 4,1%) e al 5,8% nel 2016 (da 4,3%). Lo spread con i Bund tornerebbe a circa 300 punti base. Livelli comunque inferiori a quelli toccati il 9 novembre 2011, il “mercoledì nero” dello spread a quota 575, quando i BoT a 12 mesi avevano toccato il 7%, i biennali il 7,5% e i decennali oltre il 7,48% (con l’inversione della curva dei rendimenti tra titoli a 2 e a 10 anni).

2. Scenario apocalittico per gli stress test / Il crollo di Piazza Affari.

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Nello scenario peggiore, quello appunto che porta a un’ondata generalizzata di panico e di “flight to quality”, per Piazza Affari l’Eba prevede un crollo del 20,3% nel 2014, del 17,7% nel 2015 e del 20,4% nel 2016, non lontano dai cali medi ipotizzati nell’intera Eurozona (rispettivamente -18,3%, -15,9% e -18,1%). L’Italia farebbe peggio della media di Eurolandia anche per le conseguenze dello stallo generalizzato del processo di riforme, che metterebbe a repentaglio la sostenibilità delle finanze pubbliche.

3. Scenario apocalittico per gli stress test / L’Italia torna in pesante recessione.

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Lo scenario peggiore ipotizzato dagli stress test vede per l’Italia un triennio di Pil in calo con una deviazione del 6,1% rispetto allo scenario di base. Il Pil (che nella realtà è appena tornato positivo) tornerebbe a calare dello 0,9% quest’anno, dell’1,6% il prossimo e dello 0,7% nel 2016 anziché mettere a segno una crescita stimata rispettivamente nello 0,6%, nell’1,2% e nell’1,3%. Lo shock finanziario – spiega infatti la simulazione dell’Eba – avrebbe una pesante ricaduta anche sull’economia reale, con fuga di capitali dai Paesi emergenti e calo degli scambi commerciali con l’Europa.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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Grecia: il ritorno alla terra.

Dopo sei anni di recessione la Grecia è ormai esangue. Come ultima istanza davanti alla disperazione sempre più giovani stanno tornando alla terra. Con successi ma anche delusioni.

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Tratto da Le Courrier des Balkans, pubblicato originariamente il 14 aprile 2014, di Pavlos Kapantais , postato su Osservatorio Balcani e Caucaso il 23 aprile 2014

Sono ormai sei anni che la Grecia è in recessione e quattro che ha subito la cura austerità imposta dalla Troika. La disoccupazione, esplosa durante la crisi, è di gran lunga la più elevata in tutta la zona euro. Secondo Eurostat arriva ormai al 27,5% e supera il 58% tra i giovani.
Una delle rare porte di sicurezza per sfuggire dalle conseguenze della crisi è il ritorno alla terra. Non stupisce se si considera che l’agricoltura è rimasta il settore primario dell’economia greca sino al 1970, prima di perdere progressivamente terreno rispetto all’industria e ai servizi.
Anche se è difficile inquadrare il fenomeno con certezza dato che il ministero dell’Agricoltura non ha effettuato alcun censimento e verifica – e quindi quando si danno cifre significa entrare nel campo delle supposizioni – il fenomeno è reale. Stime ufficiose di vari organismi sindacali parlano di circa 40.000 nuovi contadini dal 2010. “La maggior parte di loro sono giovani che si ritrovano senza lavoro a causa della crisi e che rifiutano di rimanere a braccia incrociate ad attendere la ripresa”, afferma Ilias Kantaros, agronomo.

Dal solare ai limoni

Giannis è uno di loro. Due anni fa aveva una piccola azienda di pannelli fotovoltaici. Aveva avuto l’idea di investire nell’energia pulita ancora quand’era all’università. In quel periodo lo stato greco favoriva lo sviluppo di energie rinnovabili e si promettevano carriere sicure e ricche a chi decideva di specializzarsi in questo specifico campo.
Ora invece Giannis è ritornato a coltivare i campi del nonno, morto qualche anno fa, e produce e vende limoni ed arance. Nonostante i diversi programmi di sostegno promessi dal governo per tutti coloro i quali, come lui, hanno avviato una nuova attività in agricoltura, Giannis non è ancora ufficialmente agricoltore. “Rischia di costarmi molto più dei vantaggi che potrei avere”, si giustifica.
Per vendere i suoi prodotti Giannis utilizza una licenza di sua madre. Dopo il suo primo anno completo di attività è riuscito a guadagnare abbastanza per poter vivere di quest’attività. E soprattutto “questa vita mi piace”. “Si ritorna all’essenziale: aria fresca, natura, attività fisica. Mio nonno sarebbe fiero di me!”.

Non è facile

Ciononostante questa modalità di ritorno alla terra non è senza rischi perché se le possibilità di riconversione sono reali, occorre fare attenzione agli specchietti per le allodole. “Numerosi consiglieri mal intenzionati approfittano dell’angoscia delle persone che si ritrovano improvvisamente senza risorse per proporre loro colture che non hanno sostenibilità finanziaria in Grecia”, sottolinea Ilias Kantaros.
Queste colture sono in particolare prodotti esotici, per i quali la domanda è molto debole sul mercato greco mentre il loro costo di produzione in Grecia è molto superiore che in altri paesi. Si rivelano in realtà investimenti più sicuri la coltivazione di colture tradizionali quali frumento e lenticchie.
La sola eccezione alla regola sembra essere l’allevamento di lumache. La ragione è semplice: la domanda nel mondo supera ancora l’offerta. Vi è quindi la certezza di riuscire a vendere tutto quanto si produce.

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Imparare dalle lumache

Aggeliki Miha, 33 anni, alleva lumache ormai da tre anni. Era croupier al casinò di Loutraki durante gli anni d’oro dell’economia greca e si è trovata disoccupata nel 2009.
Nel 2011, stanca di cercare invano un lavoro decente, Aggeliki ha deciso di investire tutti i suoi risparmi per diventare allevatrice di lumache. Per farlo, ha chiesto al padre di cedergli una parte di un terreno di famiglia e ha affittato un altro terreno per riuscire a produrre, a partire dal primo anno, due o tre tonnellate di lumache. Inoltre è stata obbligata a tornare a vivere a casa dei genitori nel suo villaggio natale, Perahora, con i suoi due figli. Suo marito invece è rimasto a Tebe, dove continua a lavorare in una fabbrica.
Da allora Aggeliki ha imparato molto, ma non è ancora riuscita a far quadrare i conti. Alcuni errori da debuttante dovuti alla fretta di progredire il più rapidamente possibile l’hanno portata nei primi due anni ad una produzione ben inferiore a quanto auspicato. Ma nonostante questo resta fiduciosa: è riuscita a vendere tutto ciò che ha prodotto.
Ormai è ben entrata nel ruolo e spesso viene invitata a conferenze per dare consigli a chi volesse tentare la stessa avventura. “E’ una forma di riconoscenza che mi fa realmente piacere. E spero veramente di riuscire ad aiutare la gente a non fare i miei stessi errori”.
Una mentalità di cooperazione che sarà fondamentale per costruire la Grecia di domani.

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

Fiscal compact: la paura (infondata) dei 50 miliardi.

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dal Blog di Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano – Blog. Post del 9 aprile 2014

Possiamo mai tagliare 50 miliardi all’anno per un ventennio?”, si chiedeva Beppe Grillo nell’intervista al Fatto di sabato scorso. Risposta: no, perché non è sostenibile e no, perché non è questo che impongono i vincoli di bilancio europei, nonostante ormai si sia affermata l’idea che Fiscal Compact e Six Pack impongano manovre gigantesche ogni anno. Non è così, come spiega bene Franco Mostacci, ricercatore dell’Istat, sul suo sito.

Il cosiddetto Six Pack (regolamenti europei) impone di ridurre di un ventesimo all’anno la parte di debito pubblico che eccede il 60 per cento del Pil. Noi abbiamo il 132 per cento circa e quindi, con un conto a spanne, dovremmo ridurre il debito in valore assoluto di 50 miliardi all’anno. Ma la regola – combinata con il vincolo al rispetto del 3 per cento del deficit/Pil – funziona in un altro modo. L’Italia viene considerata in pari se il debito si sarà ridotto al giusto ritmo tra 2012 e 2014, oppure se lo farà nei due anni successivi oppure ancora se si sarà ridotto del ventesimo tra 2012 e 2014 considerato sia il Pil che il debito corretti per gli effetti della recessione.

Stando così le cose, l’Italia sarà a posto senza bisogno di alcuna manovra se si rispettano i numeri che hanno stimato Istat e Bankitalia: una crescita reale del Pil dello 0,6 nel 2014 e dell’1,2 per cento nel 2015 sarebbe sufficiente, tenendo ferme le altre variabili (purché non salga troppo il debito pubblico, per esempio per pagare gli arretrati della Pubblica amministrazione). È più stringente l’Obiettivo di medio termine (MTO) che riguarda l’indebitamento strutturale, cioè i conti pubblici al netto degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum. Si considera la distanza tra il Pil potenziale (quanto crescerebbe l’economia se corresse senza i freni della crisi e senza stimolare l’inflazione) e il Pil che si registra davvero. Una volta calcolato l’output gap, cioè quanto il Pil è frenato da dinamiche esterne che non dipendono dalle politiche adottate, si calcola il saldo di bilancio corretto per il ciclo, considerando l’elasticità delle entrate alle variazioni di Pil (per ogni 100 euro di Pil in meno, quanti sono gli euro che mancano al Tesoro?). Poi si tolgono le misure una tantum. Et voilà il saldo di bilancio strutturale. La correzione deve essere di almeno 0,5 punti di Pil all’anno, per ottenerla servono tagli duraturi di circa 4-5 miliardi all’anno.

Morale: incrociando le dita, se le previsioni di crescita vengono rispettate, se il debito non sale troppo e se non arriva la deflazione, la gabbia del rigore europeo ci costa circa 5 miliardi all’anno. Che non sono pochi, ma sempre meglio di 50.

Fonte: I blog de Il Fatto Quotidiano

Pillole di globalizzazione. L’analisi storica del fenomeno

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di Germano De Sanctis e Luigia Belli

Oggi, BlogNomos inizia una serie di post dedicata al fenomeno della globalizzazione, esaminandolo da un punto di vista storico, economico, sociale ed antropologico. Il primo post è dedicato all’analisi storica della globalizzazione in modo da poter permettere ai nostri lettori di avere un quadro esaustivo degli accadimenti che hanno segnato lo sviluppo della società mondiale nel corso dell’ultimo trentennio.

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La crisi economica che imperversa da anni ci ha costretto a familiarizzare con molti termini macroeconomici. In particolare, ricorre sovente il termine “globalizzazione”, per individuare uno dei fenomeni più significativi dell’economia contemporanea.

Tuttavia, raramente ci si sofferma a pensare che la globalizzazione non è un fenomeno recente, bensì rappresenta una caratteristica degli scambi economici da più di trent’anni.
Infatti, il termine “globalizzazione” fu utilizzato per la prima volta dall’economista Theodore Levitt, docente alla Harvard Business School, nel maggio del 1983, quando, in una sua pubblicazione scientifica scrisse che la globalizzazione del mercato era a portata di mano. È bene precisare che Theodore Levitt si riferiva soprattutto all’evoluzione dei consumi e del marketing.
Tale visione macroeconomica s’incanalava su un filone interpretativo, che quindici anni prima era stato avviato sul piano dell’informazione e dei valori culturali dal semiologo Marshall McLuhan, il quale aveva teorizzato la capacità dei mass media di trasformare il mondo in un “villaggio globale”. In altri termini, Theodore Levitt ebbe l’intuizione di trasferire le teorie di Marshall McLuhan su un piano squisitamente economico.
D’altronde, così come aveva presagito McLuhan, le sempre più diffuse nuove tecnologie di comunicazione avevano già reso il mondo più piccolo, al punto tale che i messaggi pubblicitari raggiungevano regolarmente ogni angolo del pianeta, producendo una omogeneizzazione dei desideri dei consumatori, ormai resi inconsciamente assuefatti ai prodotti standardizzati di un unico mercato globale.
Secondo Theodore Levitt, l’avvento di tale nuovo sistema globale avrebbe comportato il declino delle vecchie società multinazionali strutturate per proporre prodotti diversificati e adattati ai singoli gusti dei vari mercati nazionali, per lasciare spazio alle imprese globali capaci d’imporre i medesimi prodotti uniformi ad un unico mercato mondiale, quale espressione di esigenze consumieristiche ormai omogenee. Tale metodo di produzione e vendita standardizzato su scala mondiale sarebbe stato in grado di realizzare immense economie di scala e profitti incommensurabili.

Ovviamente, un unico mercato globale necessita di un’unica strategia di marketing globale. Tale esigenza fu colta, in primis, dalla nota società pubblicitaria Saatchi&Saatchi, la quale riscontrò le enormi opportunità offerte da una politica commerciale capace di abbracciare il mondo intero, attraverso la diffusione di un’unica cultura consumistica.

La globalizzazione mostrò tutta la sua forza espansiva nell’immediatezza della dissoluzione del sistema economico del Comecon (a cui appartenevano, tra l’altro, tutti i Paesi aderenti al Patto di Varsavia), successiva alla dissoluzione dell’Unione Sovietica ed alla la fine dei regimi ispirati al socialismo reale, instaurati in Europa Orientale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In altri termini, era scomparso dallo scenario mondiale l’unico sistema ideologico antagonista a quello capitalistico globalizzato.
Gli effetti di questa forza espansiva della globalizzazione possono essere sintetizzati nella simbolica apertura, nel 1990, del suo primo punto vendita sulla Piazza Rossa di Mosca da parte della nota catena di fast food McDonald.

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Tuttavia, in quegli anni, pur godendo di tali fattori favorevoli, il fenomeno della globalizzazione non riuscì a diffondersi con la velocità di cui è stato capace negli ultimi anni, in quanto, all’epoca, le barriere doganali dei singoli Stati erano ancora sufficientemente robuste.

Pertanto, si avviò una stagione caratterizzata da un forte spirito di liberalizzazione degli scambi commerciali, nella convinzione, fortemente radicata nella classe dirigente delle società statunitensi, che la globalizzazione avrebbe costituito una grande opportunità per aumentare i profitti e conquistare nuovi mercati.
Di conseguenza, gli Stati Uniti d’America si resero protagonisti della stipulazione di diversi accordi commerciali internazionali, finalizzati alla liberalizzazione degli scambi commerciali e dei movimenti di capitali. Si tratta della stagione dei negoziati nel GATT e, successivamente, nel WTO, nonché della creazione di uno spazio comune nordamericano di libero scambio (denominato North American Free Trade Agreement – NAFTA). Contestualmente, nasceva in Europa il mercato unico europeo.
Lo spirito di quell’epoca è sintetizzabile nelle parole che l’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton, pronunciò nel 1994, al momento della stipulazione del trattato che istituiva il NAFTA, ereditando gli esiti di un negoziato avviato e gestito in gran parte dall’Amministrazione repubblicana di George Bush senior. Bill Clinton asserì entusiasticamente che il libero scambio significava occupazione, in quanto avrebbe comportato l’aumento dei posti di lavoro per gli americani, precisando, al contempo, che tali nuove occupazioni sarebbero state anche meglio remunerate.
Questa nuova fase avviò definitivamente il processo di globalizzazione, rendendolo irreversibile e imponendo nuove regole all’economia mondiale, mutando il destino di interi popoli e sconvolgendo rapporti industriali e commerciali ormai consolidati dall’inizio della rivoluzione industriale.
È bene evidenziare che, ovviamente, il fenomeno della globalizzazione non si risolve esclusivamente nella stipulazione ed attuazione del NAFTA, ma bisogna prendere atto che tale trattato ha svolto un ruolo importante nell’evoluzione del fenomeno macroeconomico in questione. Infatti, il NAFTA ha abbattuto le barriere doganali negli scambi in tutto il Nord America, facendo, quindi, in modo che Canada, Stati Uniti e Messico diventassero un mercato unico, all’interno del quale potessero circolare liberamente i prodotti ed i capitali, ma non le persone, in quanto i flussi migratori dal Messico verso gli Stati Uniti d’America sono rimasti oggetto di imponenti restrizioni.
Nello stesso momento storico, in Europa si realizzò un’analoga esperienza di libero scambio, attraverso la costituzione del mercato unico europeo, il quale, come il NAFTA, è ispirato all’abbattimento delle frontiere doganali, ma non si è limitato a favorire la sola libera circolazione delle merci, bensì anche delle persone appartenenti agli Stati membri dell’Unione Europea.
Ciononostante, il NAFTA è più importante, poiché il suo ambito d’azione, comprendendo Stati Uniti d’America, Canada e Messico, definisce il più ricco mercato del pianeta, con una popolazione aggregata di circa mezzo miliardo di persone, con un PIL complessivo di quasi 20.000 miliardi di dollari ed un reddito pro capite di circa 40.000 dollari annui.
Inoltre, il mercato unico europeo, pur essendo stato delineato due anni prima del NAFTA (cioè, nel 1992), ne risulta ideologicamente gregario, in quanto come ben ha detto il premio Nobel dell’economia Milton Friedman, tali accordi sono tutti inseribili nell’ambito dell’ideologia neoliberista che, grazie all’opera del presidente statunitense repubblicano Ronald Reagan, dilagava nell’ideologia del mondo occidentale in quegli anni.
Anzi, il neoliberismo reaganiano si spinse fino a privatizzare interi settori dello Stato, fino a quel momento ritenuti essenziali, limitando enormemente il ruolo dello Stato nell’ambito delle politiche di Welfare. Si trattò di un fenomeno talmente radicato nella società statunitense, che la successiva Presidenza del democratico Bill Clinton non provò minimamente a contrastarlo.
Infine, con il passare del tempo, ci si è resi conto che il NAFTA è stato il prototipo del successivo e ben più ampio intervento macroeconomico realizzato dall’economia occidentale, concretizzatosi nelle pressoché contestuale istituzione del “World Trade Organization (WTO)”, ed ammissione della Repubblica Popolare Cinese nella nuova architettura degli scambi mondiali.

Infatti, è possibile scorgere un ruolo parallelo svolto dal Messico e dalla Repubblica Popolare Cinese, rispettivamente nel NAFTA e nel WTO. In entrambi casi, fatte le debite proporzioni di scala, i predetti paesi sono stati i destinatari di un violento e repentino processo di delocalizzazione dei siti produttivi, prima installati nei più ricchi paesi industrializzati. Tale fenomeno coinvolse molte imprese, non soltanto americane, ma anche giapponesi o sudcoreane che producevano per il mercato statunitense. L’obiettivo era ed è approfittare della contestuale presenza di una manodopera a basso costo, della compiacenza di sindacati deboli, della previsione di una modesta pressione fiscale e dell’esistenza di poche regole a tutela dell’ambiente e della sicurezza dei lavoratori.

Bisogna evidenziare che, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, lo sviluppo della globalizzazione fu aiutato anche dalla contemporanea rivoluzione tecnologica, che ha esaltato le potenzialità della mercato globalizzato. Infatti, la diffusione di massa del personal computer, l’avvento degli smartphone, unitamente all’ingresso di Internet nella nostra vita quotidiana, hanno reso ancora più facili ed efficaci le comunicazioni pubblicitarie globali.
Le reti informatiche hanno annullato ogni distanza nel già rimpicciolito mondo globalizzato, al punto che le grandi società statunitensi produttrici di beni di consumo hanno iniziato a trovare molto più conveniente abbandonare i loro tradizionali stabilimenti di produzione siti nella madrepatria, per trasferirli in paesi meno sviluppati e con costi della manodopera molto meno elevati.
Proprio in questo periodo storico, il mercato globale disegnato da Theodore Levitt perse i suoi connotati originari per degenerare in un fenomeno macroeconomico instabile e privo di una chiara regia politica, al punto che si cominciarono a diffondere i primi movimenti di difesa delle identità nazionali e culturali minacciate dalla standardizzazione coatta in corso.

Il definitivo affermarsi della globalizzazione nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso fu accompagnato dalla contestuale nascita dei primi movimenti culturali e sociali di opposizione a siffatto fenomeno. Tali prime forme di protesta (ancora in forma embrionale) furono favorite dalla crisi finanziaria del sud-est asiatico nel 1997, la quale fece emergere il primo leader antiglobalizzazione del Terzo mondo, il premier malese Mahathir Mohamad, che si scagliò contro gli speculatori della globalizzazione (ed in particolare, contro il magnate finanziario George Soros), nonché contro l’incontrollata e pericolosa libertà nei movimenti di capitali. Egli fu subito affiancato in Brasile dal politico e sindacalista Luiz Ignácio da Silva, meglio noto come Lula, il quale, in seguito, divenne anche Presidente del suo paese.
Tuttavia, si dovette aspettare il mese di dicembre del 1999, per vedere il battesimo di piazza del c.d. movimento “no global”. Infatti, in occasione del vertice WTO di Seattle, vi furono violente ed estese manifestazioni contro il processo di globalizzazione. Si trattava di un fronte di protesta molto eterogeneo, in quanto in esso confluivano gli ideali di una società più moderna ed equa, ma anche gli interessi egoistici di una visione del mondo antimoderna. L’attenzione per i problemi del terzo mondo e per l’ambiente coesistevano nel movimento insieme alla xenofobia, al protezionismo agricolo espresso dal francese Josè Bovè ed alla tutela dei privilegi dei c.d. “blue collars” statunitensi contro i meno fortunati colleghi operai messicani.

All’interno di tali movimenti, apparve subito evidente che il problema più preoccupante era riferibile alle condizioni in cui versavano i lavoratori. Tale consapevolezza portò alla ormai famosa “battaglia di Seattle” del 30 novembre 1999, quando quarantamila manifestanti assediarono il summit del WTO.
I rappresentanti dei Paesi aderenti al WTO commisero l’errore di derubricare sbrigativamente tali proteste come forme non organizzate di contestazione antisistemica. Invece, a ben vedere, tra i manifestanti, si poteva riscontrare la presenza dei sindacati statunitensi riuniti nell’AFL-CIO, dei verdi, dei terzomondisti, degli anarchici e dei famigerati “black-block”. Tale palese sordità alle nuove nascenti istanze di antiglobalizzazione era cagionata dal fatto che, in quegli anni, il pensiero unico neoliberista era ancora egemonico nell’establishment mondiale, tanto è vero che anche i dirigenti politici dei partiti di sinistra ne erano suggestionati. Basti ricordare, ad esempio, come tali convinzioni pervasero anche i vertici del partito comunista cinese, il quale vide soltanto i possibili effetti positivi della globalizzazione, escludendo categoricamente che l’adesione al WTO da parte della Repubblica Popolare Cinese potesse trasformare quest’ultima in una colonia industriale del capitalismo occidentale.

 

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Per assistere ad un primo ripensamento sulla bontà del processo di globalizzazione da parte dei vertici politici e dirigenziali nel mondo occidentale, bisogna attendere l’avvento della crisi che, dal 2009, ha coinvolto l’intera economia mondiale.

In quell’anno, Barack Obama, appena insediatosi come Presidente degli Stati Uniti d’America, varò una maxi-manovra antirecessiva del valore di 800 miliardi di dollari, denominata “American Recovery and Reinvestment Act”. Si trattò del primo segnale di un cambio di rotta. Infatti, all’interno di tale atto normativo, il legislatore statunitense introdusse nell’ordinamento giuridico nazionale la c.d. “Buy American Provision”, la quale è una clausola protezionista. Infatti, già dall’esame della sua denominazione (letteralmente, “compra americano”), emerge la volontà di destinare tutte le risorse contenute nella predetta manovra a favore delle imprese statunitensi, per favorire l’acquisto di beni di consumo prodotti negli Stati Uniti d’America. Tale decisione non fu scevra di conseguenze, in quanto molti partner commerciali, a cominciare dal Canada, fecero ricorso, denunciando una palese violazione del NAFTA.

Dopo più di trent’anni dalla sua teorizzazione, la globalizzazione è stata messa sotto processo in tutto il pianeta, a cominciare da quei Paesi e da quei settori culturali che l’avevano, in passato, esaltata.
Addirittura, sul sito internet del WTO, campeggia un approfondito studio avente ad oggetto le possibili soluzioni per rendere la globalizzazione socialmente sostenibile, sul fronte delle delocalizzazioni e dell’occupazione.
Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI), da sempre depositario dell’ortodossia liberista, ha pubblicato sul suo sito internet una ricerca sul fenomeno dettato dalla globalizzazione che porta all’abbattimento dei salari ed al trasferimento all’estero di posti di lavoro.
Il premio Nobel Paul Krugman, che era stato uno dei primi teorici della globalizzazione, ha recentemente affermato che il mercato globale è stato governato malissimo, mettendo in diretta relazione la stagnazione dei redditi da lavoro e la concorrenza dei Paesi privi di sindacati come la Repubblica Popolare Cinese.
Inoltre, gli studi più sofisticati evidenziano come la commistione tra la globalizzazione ed il progresso tecnologico sia stata la causa principale della riduzione della forza lavoro nelle mansioni meno qualificate, nell’ambito dei mercati del lavoro dei Paesi più industrializzati.

Volendo fare un bilancio di questo trentennio di evoluzione del fenomeno della globalizzazione, il dato che emerge più chiaramente è il suo nefasto impatto sociale sulle popolazioni di tutto il pianeta, associato alla degenerazione del sistema capitalistico portato alle sue estreme conseguenze.

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C’È ANCHE UN PAESE CHE RESISTE E BATTE LA CRISI.

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di Michele De Sanctis

Sempre più critica appare l’industria del food Made in Italy che continua, pezzo dopo pezzo, ad essere ceduta agli stranieri: da Galbani, Locatelli, Invernizzi e Parmalat, oggi brand della francese Lactalis, alla Star, ormai parte del gruppo catalano Agrolimen, fino agli olii Bertolli, Carapelli e Sasso, che, dopo un primo passaggio al brand spagnolo Deoleo, sono stati recrntemente ceduti al fondo di investimento inglese Cvc Capital partners, la cui offerta ha battuto quella presentata dal Fondo strategico italiano della Cassa Depositi e Prestiti. Da ultimo, secondo alcune indiscrezioni delle ultime ore, anche se smentite dagli stessi interessati, pare che la famiglia Menna, titolare dello storico pastificio Lucio Garofalo di Gragnano, sia vicina alla firma per la cessione del 51% del proprio capitale societario agli spagnoli di Ebro Foods, colosso alimentare quotato alla Borsa di Madrid che l’estate scorsa si è aggiudicato anche un 25% di Riso Scotti.

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Ma è, altresì, vero che c’è un’Italia che resiste alla crisi, un’Italia che batte i record e a sorpresa si impone anche nei mercati esteri e proprio in un settore molto critico come quello agroalimentare. Infatti, malgrado i tanti problemi che hanno assillato l’industria del food e il mercato delle materie prime agricole, nel 2013 il Gruppo industriale abruzzese De Cecco ha superato i 400 milioni di euro di fatturato, toccando per l’esattezza quota 411 milioni contro i 373 del 2012. A tale cifra corrisponde un margine operativo lordo del Gruppo pari a € 45.000.000. A tanto ammonta, quindi, il reale risultato del business dell’azienda di Fara San Martino, misurato con l’indicatore EBITDA. E le previsioni per l’esercizio 2014 lo attesterebbero a circa 50 milioni, a fronte di una stima che si aggira intorno 461 milioni di fatturato totale.

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Il volume di vendita complessivo della pasta è di 2.317.000 quintali con una previsione di crescita intorno a quota 2.534.000 quintali.
Oltre all’Italia, il bacino di consumatori dei prodotti del Gruppo si estende a Stati Uniti d’America, Giappone, Russia, Francia, Germania, Regno Unito e Belgio.

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L’offerta De Cecco include, inoltre, il commercio di sughi, olio, farine e, di recente, dei succedanei del pane. In questo settore, non core per un’azienda che nasce come pastificio, si è assistito a una crescita esponenziale: con poco più di 90.000 quintali venduti (25 per cento la quota export), la De Cecco è oramai il terzo produttore nazionale e si proietta verso 114.000.

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Alla base di questo successo, nonostante il difficile periodo storico che viviamo, c’è la capacità di innovarsi, diversificarsi, di puntare su prodotti di fascia premium e di investire. Ciò ha consentito al Gruppo di essere competitivo e ricavare una sua posizione peculiare nel mercato e di offrire, inoltre, occupazione a più di 1.200 dipendenti, di cui ben 800 in Italia.

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Piacerebbe raccontetare più spesso di queste aziende, che la crisi non riesce a fermare e che sono pronte ad agganciare la ripresa. Speriamo di poterne descrivere altre di realtà come questa, di poterlo fare sempre più spesso, speriamo che ci sia davvero – e presto – la ripresa, di cui il Paese ha un disperato bisogno.

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ARRIVA IL BONUS IRPEF

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di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata di ieri, dopo un lungo Consiglio dei Ministri, il Governo ha licenziato la manovra che permetterà, a partire dal prossimo mese di maggio, l’erogazione del bonus di € 80 mensili netti in busta-paga (circa € 640 complessivi pro capite fino a dicembre 2014) a favore di 10 milioni di lavoratori dipendenti pubblici e privati che guadagnano da € 8.000 ad € 24.000 lordi all’anno (mentre l’ipotesi di allargamento fino ad € 28.000, ritenuta possibile fino a qualche giorno fa, è stata abbandonata, in quanto avrebbe cagionato costi eccessivi e non sostenibili per il bilancio dello Stato). Di conseguenza, appare evidente la conferma dell’annunciata decisione governativa di escludere dal bonus i lavoratori autonomi ed i pensionati rientranti nella medesima fascia di reddito.
Da un punto di vista squisitamente tecnico, si tratta di un credito d’imposta a favore di ogni lavoratore dipendente rientrante nella platea sopra meglio indicata e calcolato sul suo imponibile IRPEF al netto dei contributi previdenziali. Tale credito d’imposta sarà direttamente inserito in busta paga dal cosiddetto “sostituto d’imposta”, cioè dal suo datore di lavoro. Infatti, i datori di lavoro interessati dalla previsione normativa, al momento di versare allo Stato Fisco le trattenute IRPEF mensili di ciascun loro dipendente, non dovranno fare altro che versare una trattenuta più bassa, decurtata dal bonus in questione, il quale andrà ad incrementare l’ammontare della retribuzione netta in busta-paga, la quale, peraltro, riporterà analiticamente, con una specifica voce, l’ammontare del bonus medesimo.
Poc’anzi, si è detto che il bonus ammonterà a circa € 80 mensili netti per tutti i lavoratori dipendenti con redditi lordi annui compresi tra € 8.000 ed € 24.000. Tuttavia, al fine di non creare discriminazioni con le fasce di reddito immediatamente superiori, è stato previsto un leggero decalage per i lavoratori dichiaranti un reddito compreso tra € 24.000 ed € 26.000. Tuttavia, per conoscere l’ammontare di tali importi bisognerà attendere la pubblicazione ufficiale del provvedimento in esame.

Inoltre, il Presidente del Consiglio ha specificato che la misura in esame ha natura strutturale e che, quindi, sarà ripetuta anche l’anno prossimo. Di conseguenza, il Governo dovrà trovare la necessaria copertura per il bonus relativo all’anno 2015, stimata in circa 10 miliardi di euro, in quanto le risorse finora disponibili, pari a 6,9 miliardi euro, garantiscono l’erogazione del bonus in questione soltanto per gli ultimi otto mesi di quest’anno.
A tal proposito, il Ministro dell’Economia Padoan ha garantito che la copertura sarà assicurata con l’approvazione della legge di stabilità 2015, la quale prevederà un intervento di spending review di circa 14 miliardi di euro (cioè, 4 miliardi in più del necessario).

Una nota dolente è rinvenibile nel fatto che il Governo ha dovuto rinviare il progetto di estendere tale bonus anche agli incapienti, cioè a quelle persone (si calcola che siano circa quattro milioni) che guadagnano meno di € 8.000 euro lordi all’anno. La mancata estensione del bonus agli incapienti è stata determinata dall’assenza di un’adeguata copertura determinata dalla decisione del Governo di rinunciare al miliardo di euro che sarebbe stato garantito da un ventilato taglio alle spese sanitarie, che, poi, si è deciso di non operare.
Comunque, il Governo ha garantito che interverrà nei prossimi mesi con specifici provvedimenti a favore, sia degli incapienti, che dei titolari di Partite IVA.

Inoltre, a partire da quest’anno, vi sarà una riduzione sull’IRAP dovuta dalle imprese e dai professionisti del 10%, in quanto tale imposta scenderà dal 3,9% al 3,5% con un beneficio stimato per le imprese e d i professionisti di circa 700 milioni di euro.
Unitamente a tale taglio dell’IRAP, le imprese beneficeranno dei pagamenti dei debiti da parte dello Stato, in quanto il Governo ha sbloccato ulteriori 8 miliardi di euro per tale scopo. L’assolvimento dei debiti dello Stato nei confronti dei suoi fornitori concorrerà anche a garantire la copertura dell’intera manovra, in quanto l’IVA che sarà incassata andrà ad incrementare le entrate del bilancio dello Stato per circa 600 milioni di euro.

La copertura di tali riduzioni fiscali sarà garantita da un mix di interventi che lascerà indenni i settori della sanità, delle pensioni e dell’istruzione, senza, al contempo, operare alcun taglio delle detrazioni per mutui o spese varie (a differenza di quanto era trapelato dalle prime indiscrezioni).
Infatti, la gran parte della dotazione finanziaria necessaria per il compimento della manovra in esame proviene da un combinato disposto di aumenti delle entrate fiscali non impattanti sui redditi delle persone fisiche e di riduzioni della spesa corrente dello Stato.
In primo luogo, si sottolinea la decisione di rivalutare le quote che il sistema bancario italiano detiene nella Banca d’Italia. Tale rivalutazione, già decisa dal Governo Letta, produrrà plusvalenze che devono essere tassate. Il Governo Renzi ha deciso di aumentare la tassa sostitutiva che devono pagare le banche dal 12% al 26%, con un conseguente incremento delle entrate dello Stato pari ad 1,8 miliardi di euro.
Analoga decisione è stata presa anche per quanto concerne le rendite finanziarie di coloro che staccano le cedole obbligazionarie, azionarie o ottengono plusvalenze in Borsa. Infatti, la loro tassazione è innalzata dal 20% al 26%.
Inoltre, sono previste ulteriori entrate pari a circa 300 milioni di euro provenienti dalla lotta all’evasione fiscale.

Venendo al fronte della riduzione delle uscite, il Governo ha approvato un cosiddetto “pacchetto sobrietà”, che dovrebbe produrre risparmi per circa 900 milioni di euro per l’anno 2014, attraverso una serie di misure.
In particolare, saranno operati tagli alle retribuzioni dei manager delle società a partecipazione pubblica, dei dirigenti pubblici, degli alti magistrati ed dei titolari di posizioni apicali nelle forze armate. Le retribuzioni di costoro non potranno superare il tetto massimo di € 240.000 all’anno. A tal proposito, il Presidente del Consiglio ha citato la regola di Adriano Olivetti, secondo la quale un un manager non dovrebbe guadagnare dieci volte più di un suo dipendente.
Un ulteriore riduzione di uscite, pari a circa 55 milioni di euro, sarà garantita dai tagli che verranno operati nei confronti degli organi costituzionali (cioè, la Corte Costituzionale, la Camera dei Deputati, il Senato della Repubblica ed il CNEL).
Invece, rimangono difficilmente valutabili i ventilati risparmi provenienti dai tagli all’acquisto di beni e servizi per Ministeri, Regioni e Comuni, stimati per circa 2,1 miliardi di euro.
Anche i costi della politica della politica saranno oggetto di una ulteriore specifica riduzione. La riforma delle Province produrrà i già annunciati risparmi per circa 100 milioni di euro, ma una novità è rinvenibile nell’abolizione della tariffa agevolata per le spese postali per la campagna elettorale.
Ulteriori riduzioni alle uscite saranno garantire con un intervento avente ad oggetto le aziende municipalizzate che dovranno ridursi dalle attuali 8.000 fino a 1.000, con un percorso amministrativo che si avvierà entro l’anno.
Il Governo ha anche invitato la Rai a vendere Raiway, la società proprietaria dei ripetitori e delle frequenze ed ha confermato il risparmio di 150 milioni di euro derivanti dalla riduzione del programma di acquisto dei cacciabombardieri F35.
Abbiamo detto, poc’anzi della previsione del taglio dell’IRAP. Tuttavia, le imprese sono anche oggetto di un taglio di alcune agevolazioni loro finora spettanti, unitamente ed una riduzione delle rate relative alle pluvalenze dovute a rivalutazioni degli asset. Si tratta di un’operazione che produrrà economie sul bilancio dello Stato per circa un miliardo di euro.

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I TRENTENNI E LA CRISI. FIGLI CONTRO PADRI.

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di Michele De Sanctis

Gli ultimi dati Istat (gennaio 2014) ci dicono che il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 42,4%, attestando la drammaticità della condizione dei giovani italiani che si approcciano al mercato del lavoro. Abbiamo spesso sentito ripetere che questa è la prima generazione di figli che starà peggio dei propri padri, ma è poi difficile supportare tali affermazioni con dati puntuali. In linea di massima, si dovrebbe osservare l’intera sequenza dei redditi percepiti dalla persone nel corso della propria vita; tuttavia, dati di questa natura (che contengano informazioni su individui di diverse generazioni, quindi nati in anni molto distanti tra loro) sono pressoché difficili da reperire.
È certo, però, che le condizioni di ingresso nel mercato del lavoro hanno una forte influenza sul futuro percorso di carriera. Statisticamente è dimostrabile che chi entra sul mercato del lavoro con un salario basso farà molta fatica a rimontare.
Per tale ordine di ragioni, i dati riportati nel grafico qui sopra si dimostrano particolarmente interessanti perché illustrano il reddito medio degli attuali trentenni rispetto alla media dell’intera popolazione in anni diversi. Chi è nato nel 1947, e quindi aveva trent’anni nel ’77, a quella data guadagnava circa il 10% in più del salario medio dell’intera popolazione. La curva, però, mostra che questo premio si assottiglia notevolmente già per i trentenni del 1984, che guadagnavano poco meno del 3% in più della media, per finire con l’azzerarsi quasi completamente nel 1991. Dopodiché la curva crolla. Chi è nato nel 1980 arriva ai trent’anni guadagnando il 12% in meno del reddito medio dell’intera popolazione.

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Possiamo, quindi, parlare di conflitto generazionale tra padri e figli? Forse. Ciononostante potrebbe obiettarsi che oggi l’entrata nel mercato del lavoro è ritardata dal fatto che più persone arrivano a conseguire la laurea e quindi ottengono un primo impiego (con conseguente salario iniziale) più tardi rispetto ai propri padri. Vero anche questo, ma, statistiche a parte, invito ciascuno di voi a una riflessione personale. I trentenni soprattutto. Per esempio, io, che di anni ne ho 34, sono entrato nel mercato del lavoro a 26, dopo il conseguimento della mia prima laurea, che, proprio come quella di mio padre, nato nel ’47, era a ciclo unico (ante riforma del 3+2). Lui nel mercato del lavoro è entrato con soli tre anni di anticipo rispetto a me, ma soltanto perché iniziò a lavorare prima di laurearsi. A parità di qualifica ricoperta a trent’anni, io considererei anche il diverso potere d’acquisto tra la mia busta paga e la sua, come anche il fatto che alla mia età lui aveva una casa ed io vivo ancora in quella stessa casa che papà comprò a 30 anni (il che distingue nettamente i due redditi).
Sì, dati alla mano ed esperienza personale mi confermano l’esistenza del conflitto generazionale.
Quanti di voi a 30 anni hanno potuto acquistare una casa? E se ce l’avete fatta, in che anno siete nati?

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Ecco come funziona il cervellone che protegge l’euro (e perché al Sud viene imposta austerity anche in fasi recessive).

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di Vito Lops, da Il Sole 24 Ore del 16 aprile 2014

A fine maggio si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.Il dibattito politico ed economico si concentra su maggioranze, coalizioni, pro-euro e anti-euro. Delle tecnicalità, quelle che però spesso incidono più di qualsiasi altro aspetto sul futuro dei cittadini, si parla poco.
Ma è bene soffermarvicisi. E quando parliamo di tecnicalità nell’area euro ci riferiamo in particolare al funzionamento del sistema Target2. Alzi la mano chi sa di cosa stiamo parlando. A voi tutti, sinceri che le mani non le avete alzate, è rivolto questo articolo.

Il Target 2 è il sistema di compensazione dei pagamenti tra le banche commerciali e le rispettive banche centrali dei Paesi dell’Eurozona (vi aderiscono anche Danimarca, Bulgaria, Polonia, Lituania e Romania). Con la supervisione finale della Banca centrale europea. E’ stato introdotto nel novembre del 2007. Prima c’era il sistema Target, più altre stanze di compensazione (clearing house). Da fine 2007 c’è solo il Target 2, dove Target sta per Trans-European Automated Real-time Gross settlement Express Transfer system.
Ogni pagamento, dall’acquisto di un frigorifero in un centro commerciale all’ordine di una maschera da sub dalla Grecia, passa attraverso questo cervellone elettronico. Una piramide, alla base della quale c’è la Bce, immediatamente sotto ci sono le banche centrali nazionali (Banca d’Italia, Bundesbank, Banco d’Espana, ecc.). E poi nel terzo gradino ci sono le banche commerciali.

Per entrare nel cuore di questo cervellone bisogna però conoscere un po’ di come viene creata oggi la moneta a livello bancario. Ci sono due tipi di moneta. La prima è creata dalle banche centrali, la seconda è creata dalle banche commerciali.
La prima moneta è creata dalle banche centrali attraverso la semplice immissione di un impulso elettronico su un computer. Si tratta di moneta che non può circolare nell’economia reale ma viene utilizzata in un conto bancario che le banche commerciali devono detenere presso le banche centrali nazionali (dove sono obbligate a tenere delle riserve un apposito “conto riserve”). Anche le banche commerciali emettono moneta attraverso impulsi elettronici e lo fanno nel momento in cui concedono prestiti ai clienti. Ma è importante sapere che nel sistema Target 2 circola solo la moneta delle banche centrali, quella delle riserve bancarie, che serve per i pagamenti interbancari.
Nel “conto corrente riserve” presso la banca centrale deve essere presente una riserva obbligatoria (in % dei depositi o delle obbligazioni emesse dalla banca, viene stabilita dalla Bce come strumento di politica monetaria, viene aumentata quando intende sottrarre liquidità dal sistema per drenare la crescita, o aumentata per ottenere un effetto opposto).

Oltre alla riserva obbligatoria una banca può depositare in questo “conto riserve” presso la banca centrale anche riserve libere, per agevolare le operazioni di pagamenti con altre banche. Di giorno può utilizzare tutte le riserve ma la sera almeno la riserva obbligatoria deve rientrare. La riserva obbligatoria è remunerata al tasso refi, l’eccesso di riserva non viene remunerato.
Prima di procedere dobbiamo imparare questa importante distinzione. I depositi per le banche rappresentano una passività (un debito) mentre i prestiti rappresentano un’attività (un credito). Questo punto è fondamentale per capire il funzionamento del Target 2 e molte scelte politiche che vengono oggi adottate al netto di frasi e comportamenti di facciata da parte di alcuni politici europei.
Cosa succede se un italiano acquista in un centro commerciale un frigorifero venduto da una società tedesca? L’italiano ha il conto corrente presso la banca commerciale A, il tedesco presso la banca commerciale B. Poniamo che il frigorifero costi 1.000 euro. A livello interbancario (e di saldi Target 2) accade questo. La banca commerciale A elimina dal saldo del conto corrente del cliente italiano 1.000 euro ed effettua un bonifico presso la banca commerciale B tedesca che, di conseguenza, aumenta i depositi del cliente (la società che vende frigoriferi) per 1.000 euro.

L’operazione però passa anche attraverso il Target 2 e quindi coinvolge anche la Banca d’Italia, la Bundesbank e la Banca centrale europea e i conti dove sono depositate le riserve obbligatorie. In che modo? Il sistema Target 2 manda un segnale alla Banca d’Italia di “distruggere” (elettronicamente) 1.000 euro di riserve detenute nel “conto riserve” della banca commerciale A (dopodiché la Banca commerciale A ha meno riserve per l’equivalente di 1.000 euro nel conto che ha presso la Banca d’Italia). Allo stesso tempo il sistema Target 2 invia anche un segnale alla Bundesbank dicendo di accreditare 1.000 euro nel “conto riserve” che la Banca commerciale B ha presso la Bundesbank.
Alla fine di questo giro emerge che la banca commerciale B tedesca ha incrementato le riserve nel conto della Bundesbank per 1.000 euro e, contestualmente, la banca commerciale B italiana “vanta” meno riserve per 1.000 euro presso la Banca d’Italia. Tutto compensato, quindi, come una stanza di compensazione funzionante vuole.
Vi ricordate però cosa rappresentano i depositi per una banca? Sono una passività. Quindi a conti fatti la vendita del frigorifero avrà prodotto una passività sul conto riserve della banca commerciale B tedesca presso la Bundesbank mentre avrà liberato la banca commerciale A italiana della passività che aveva presso il conto riserve di Banca d’Italia.
Vi ricordate che i depositi detenuti dalle banche commerciali presso il conto della Banca centrale nazionale sono rappresentati da moneta di banca centrale che non può essere utilizzata nell’economia reale? Bene, questo è un passaggio importante perché questi 1.000 euro di depositi in più sul conto presso la Bundesbank, la banca commerciale B tedesca potrà utilizzarli solo per investire in titoli o per estendere credito ai propri clienti (maggiori sono le riserve più crediti si possono fare perché i crediti sono proporzioni alla riserve secondo il moltiplicatore dei depositi).

Quindi, quando un cittadino compra un frigorifero prodotto da una società straniera si crea un meccanismo per cui ballano le riserve nei “conti riserve” delle banche commerciali presso le banche centrali nazionali, sotto il coordinamento del sistema di compensazione Target 2. A livello bancario, è come se la banca commerciale B tedesca (e di conseguenza il sistema finanziario della Germania) accumulasse un credito nei confronti della banca commerciale A italiana (e di conseguenza sul sistema finanziario italiano) per aver venduto un bene fisico (il frigorifero) che è passato dalla Germania all’Italia. Ne consegue che quando un Paese dell’area è in deficit nella bilancia dei pagamenti (è in debito con l’estero) il meccanismo Target 2 impone automaticamente che questo deficit sia finanziato dal Paese creditore del Target 2. Oppure impone un intervento a sostegno da parte della Banca centrale europea (quello che è stato fatto dalla Bce a partire dal 2010). Perché se il banco salta il creditore resta con il cerino accesso in mano.

Si crea quindi uno squilibrio nei sistemi Target 2 che può essere compensato in due modi:
1) l’Italia vende un bene di pari valore alla Germania creando lo stesso meccanismo al contrario e azzerando i saldi Target 2 tra il sistema finanziario tedesco e quello italiano;
2) la Germania utilizza il surplus di riserve per acquistare titoli italiani
3) interviene la Banca centrale europea erogando liquidità aggiuntiva a favore dell’Italia
Quello che si è verificato fino al 2008 è stata proprio l’opzione numero due. I saldi risultavano in equilibrio, ma in realtà dietro c’era un forte squilibrio perché in buona sostanza la Germania vendeva prodotti al Sud Europa e compensava la posizione creditoria nel sistema Target 2 acquistando titoli di Stato del Sud Europa (Grecia, Italia, ecc.). Il credito Target 2 della Germania determinato dalla vendita del bene fisico veniva compensato dal debito Target 2 determinato dall’acquisto di titoli del Sud Europa.
Dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime il flusso degli acquisti si è interrotto, anzi è stato ancor più aggravato dalle vendite (ricordate quando Deutsche Bank ha venduto 8 miliardi in titoli di Stato italiani in pochissimo tempo?). Questo ha fatto esplodere i saldi Target 2 facendo venire a galla gli squilibri dell’Eurozona con un Paese (la Germania) che vantava crediti superiori a 700 miliardi rispetto al debito dei Paesi del Sud Europa (vicinissimo a quella cifra) speculare.

Ne consegue che l’esistenza stessa dell’Eurozona si fonda oggi su questo sistema di pagamenti attraverso cui oggi transita un controvalore giornaliero di circa 2mila miliardi di euro e che, tecnicamente, non prevede limiti. In caso di crollo del sistema Target 2 – in sostanza se la Germania interrompesse tramite il meccanismo delle riserve Target 2 – di finanziare il deficit dei Paesi del Sud Europa anche per un solo giorno, rischierebbe di crollare l’intero sistema e l’euro stesso.
A patto che non subentri la Bce (come ha fatto) con liquidità che rende meno brusca la correzione delle partite correnti dei Paesi in deficit.
Va anche detto – spiega un banchiere che preferisce restare anonimo – che il meccanismo di garanzia dei crediti vantati dal Nord Europa verso il Sud Europa ha come alter ego il meccanismo del collaterale, ossia garanzie tramite titoli governativi. Per essere più precisi più che di acquisti in senso assoluto si tratterebbe di acquisti repo (repurchase agreement) ossia pronti contro termine, titoli presi in garanzia fin a quando è in essere il relativo credito.

Come si correggono questi squilibri?
1) I Paesi del Sud Europa in deficit passano da una situazione di deficit a una di surplus di bilancia dei pagamenti
2) I Paesi del Sud Europa acquistano Bund tedeschi
La strada dell’austerità e del rigore che è stata finora praticamente imposta (pur in una fase di recessione economica) è quella che è stata praticata (punto 1). Non a caso i Paesi del Sud Europa, pur sperimentando una crescita debole e tassi di disoccupazione a livelli record (soprattutto quella giovanile) stanno riportando il saldo dei conti con l’estero in pareggio o in attivo. Questa sta favorendo un graduale rientro degli squilibri Target 2 e un ridimensionamento dell’enorme credito accumulato dalla Germania nei primi 15 anni dell’Eurozona.
E stanno ritornando flussi di capitale nella periferia dell’Eurozona
Che stanno contribuendo a far migliorare i saldi Target 2. Non a caso Il credito Target 2 della Germania è sceso da oltre 700 sotto i 500 miliardi.
Il rinnovato surplus della periferia dell’Eurozona non è però totalmente virtuoso. In molti casi è più figlio di una diminuzione delle importazioni (complice il calo del potere d’acquisto della domanda interna e dell’aumento del tasso di disoccupazione che a loro volta stanno causando un processo di disinflazione/deflazione) che non per un aumento spiccato delle esportazioni (per quanto in alcuni casi rifletta un aumento effettivo della competitività sul fronte export).

Grafico / I saldi Target 2

E’ quello che sta accadendo in un percorso lento e doloroso. La Germania cerca così lentamente di rientrare dei propri crediti che continuano ad essere massicci, così come gli irrisolti squilibri nell’Eurozona. Ed è probabilmente questo il motivo per cui l’euro non è crollato quando nel 2011-2012 molti economisti davano per spacciata una deflagrazione dell’Eurozona. In quel periodo è vero gli spread balzavano alle stelle ma l’euro sul mercato dei cambi si manteneva estremamente tonico, segnale che gli investitori non hanno mai creduto fino in fondo al crollo dell’euro. L’allarme finale prima della sua deflagrazione (una improvvisa svalutazione valutaria) non è mai scattato.
Capire come funziona il “cervellone dell’euro” (il sistema Target 2) ci aiuta anche a capire che più dei Paesi del Sud, ha interesse tecnico a far restare in piedi l’euro proprio la Germania, il principale creditore finanziario nell’Eurozona. Perché si sa quando un debitore è piccolo è molto fragile, ma quando il debitore è grande rischia di essere più potente del creditore. E questo la Germania lo sa. E probabilmente anche per questo ha insistito sull’applicazione di politiche di austerità nei Paesi del Sud Europa anche in fasi recessive. Per rientrare quanto prima dei crediti.

Fonte: Il Sole 24 Ore