Archivi categoria: diritto

LAUREATI, LAVORO E PRECARIETA’

20140310-171059.jpg

di Michele De Sanctis

Presentato oggi a Bologna nel corso del Convegno ‘Imprenditorialità e innovazione: il ruolo dei laureati’ il XVI Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. L’analisi ha coinvolto a livello nazionale quasi 450.000 laureati di tutte le 64 università aderenti al consorzio.

Dal 2008, primo anno della crisi, ad oggi, il tasso di disoccupazione tra i neolaureati è più che raddioppiato. Infatti, sei anni fa a rimanere senza impiego a un anno dalla laurea era soltanto il 10% circa dei neodottori, mentre oggi la percentuale dei laureati triennali senza lavoro a un anno dalla tesi è salita al 26,5%, mentre è aumentata fino al 22,9% per le lauree specialistiche e al 24,4% per quelle magistrali a ciclo unico. Il tasso di disoccupazione, poi, si inasprisce in determinati settori: le maggiori difficoltà nella ricerca di un’occupazione sono quelle riscontrate dai laureati in giurisprudenza, architettura e veterinaria. Rispetto al 2008, la percentuale dei senza lavoro tra i laureati in queste discipline appare addirittura triplicata.

20140310-171150.jpg

Ma l’indagine condotta dal consorzio AlmaLaurea, realizzata attraverso un’analisi comparata delle generazioni che sono passate per le aule accademiche tra il 2008 e il 2013, non si ferma qua e si spinge anche ai rapporti di lavoro conclusi dai più fortunati, fortunati in senso lato, s’intende. Nel 2008 i giovani che riuscivano a firmare un contratto di lavoro a tempo indeterminato dopo una laurea triennale erano il 41,8% e il 33,9% di quelli che avevano completato anche il biennio successivo. Oggi le percentuali sono rispettivamente di 26,9% e 25,7%, a fronte di una retribuzione diminuita di circa il 20% rispetto a sei anni fa. Le retribuzioni in termini nominali sono, infatti, passate da 1.300 Euro mensili del 2008 ai 1.000 del 2013.

20140310-171245.jpg

Nonostante questi dati sconfortanti, che danno da pensare ai genitori di coloro che frequentano l’ultimo anno di scuola e preoccupano chi si avvicina al conseguimento della sudata laurea, ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, sono stati proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici. Tra il 2007 e il 2013, infatti, il differenziale tra il tasso di disoccupazione dei neolaureati e dei neodiplomati è passato da 2,6 punti percentuali a 11,9. La laurea, pertanto, benché destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, continua ad essere un importante strumento nella ricerca di un lavoro, per lo meno più utile del solo diploma. Molte famiglie negli ultimi tempi non riescono ad affrontare le tasse universitarie che, anche per effetto di certi meccanismi di finanziamento introdotti dall’ex Ministro Gelmini con la L. 240/2010, diventano più alte di anno in anno. Soprattutto dinanzi ad una crisi che sembra non guardare in faccia a nessuno, molti giovani abbandonano gli studi dopo il diploma, pensando che laurearsi non serva a nulla, che sia un sacrificio economico inutile, finendo, così, per allargare le fila di quella parte di popolazione che non solo è bloccata dalla recessione, ma anche dallo scarso tasso di specializzazione delle proprie conoscenze, senza cui è impensabile un recupero dei livelli di sviluppo socioeconomici raggiunti prima della crisi.

20140310-171344.jpg

Per uscire da questa situazione, gli autori del rapporto AlmaLaurea suggeriscono di dare maggior peso alla conoscenza e alla competenza, piuttosto che perseverare nel premiare, come ancora accade, l’anzianità anagrafica e di servizio. I laureati entrati da poco nel mercato del lavoro avranno sicuramente avuto a che fare con figure apicali non curriculate. Ed indicano, peraltro, due linee di intervento assolutamente necessarie. Da una parte, chiedono misure di sostegno all’imprenditorialità dei laureati, dunque sviluppo di venture capital, cioè apporto di capitale di rischio da parte di investitori per finanziare l’avvio di attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo, oltreché una più capillare presenza di business angels, ossia di quegli investitori informali, ex titolari di impresa, manager in pensione o in attività, liberi professionisti che abbiano il gusto della sfida imprenditoriale, il desiderio di poter acquisire parte di una società che operi in un business, spesso innovativo, rischioso ma ad alto rendimento atteso, e, infine, una maggiore diffusione dell’educazione imprenditoriale. Dall’altra parte, invitano a puntare al rientro dei cervelli in fuga attraverso l’offerta di migliori prospettive occupazionali, sia in termini retributivi che di qualità del lavoro, di accrescere le risorse destinate alla ricerca sia dallo Stato sia dai privati e di introdurre strumenti di valorizzazione del merito.

20140310-171514.jpg

Circa dieci giorni fa Matteo Renzi ha annunciato attraverso Twitter un programma per il rilancio del lavoro: il Jobs Act. Noi di BlogNomos ne abbiamo parlato, riportandovi i punti che il premier intende sviluppare e le prime indiscrezioni su quali saranno le novità in materia previdenziale ed occupazionale. E seguiremo l’iter dei lavori, tenendovi aggiornati costantemente. Quelli descritti finora sono stati solo i dettagli. Il Presidente del Consiglio ha twittato in più di un’occasione la necessità di fare qualcosa per intervenire in un’area così delicata. Da un lato i giovani neolaureati ed inoccupati che chiedono interventi urgenti per favorire la loro entrata nel mercato del lavoro, dall’altro quelli che di lavoro non ne sono riusciti a trovare e che tentano adesso la via dell’imprenditorialità, chiedendo riforme in materia di semplificazione e defiscalizzazione. Rispondere ad entrambe le richieste aumenterebbe il numero di posti di lavoro, senza, peraltro, ricorrere ancora una volta alla stipula generalizzata di contratti precari di lavoro. Ad essere precarie sono, infatti, solo le condizioni contrattuali che la Trojka ci ha costretti ad introdurre nei nostri rapporti di lavoro, ma la vita di un giovane che esce oggi dall’università non può diventare essa stessa precaria solo perché ce lo chiede l’Europa. Abbiamo diritto a un futuro ed è un diritto che vogliamo esercitare subito. L’augurio è, quindi, che questo rapporto di AlmaLaurea influenzi positivamente e in maniera ‘fattiva’ le scelte che il Governo prenderà nella stesura del Jobs Act.

Lavoro somministrato nella Pubblica Amministrazione. Quer pasticciaccio brutto della spending review.

20140308-102739.jpg

Il decreto 276 del 2003 e successive modifiche, con particolare riguardo a quelle introdotte dal decreto legislativo del 2 marzo 2012, n. 24, sostituendo il lavoro interinale con quello somministrato, ha disciplinato, tra l’altro, la materia del contratto di somministrazione di lavoro applicabile, entro determinati limiti e vincoli, anche alle Pubbliche Amministrazioni. Sebbene, infatti, l’art. 1, comma 2 del decreto in parola escluda espressamente le Pubbliche Amministrazioni e il relativo personale dalla sua applicazione, il successivo articolo 86, comma 9 prevede espressamente che la somministrazione di lavoro trovi applicazione anche alla P.A. limitatamente ai contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Si tratta di una norma di raccordo che consente quindi l’applicazione dell’istituto previsto dalla cd. Legge Biagi anche alla Pubblica Amministrazione.

20140308-103152.jpg

Più di recente l’Unione Europea è poi intervenuta sul tema con la direttiva 2008/104/CE, pubblicata in G.U.R.I. n. 69 del 22/03/2012, dedicata, per l’appunto, al lavoro tramite agenzia interinale e finalizzata all’armonizzazione dei diversi ordinamenti degli Stati membri così da promuovere il completamento del mercato interno attraverso un miglioramento della vita e delle condizioni dei lavoratori nella Comunità europea. Nel considerando 2 della direttiva si legge che ciò avverrà mediante il ravvicinamento dei diversi ordinamenti soprattutto per quanto riguarda forme di lavoro come quello a tempo determinato, a tempo parziale, il contratto mediante agenzia di lavoro interinale e il lavoro stagionale. Secondo l’Unione, il lavoro tramite agenzia interinale risponde non solo ad esigenze di flessibilità delle imprese, ma anche al bisogno dei dipendenti di conciliare vita professionale e vita privata e può validamente contribuire alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione e integrazione nel mercato del lavoro (v. considerando 11 della direttiva). Difficile in tempi di crisi capire come per l’Unione un lavoro precario e privo di aspettative di carriera (ma anche di stabilità) possa conciliarsi con la vita privata del lavoratore: vita che è naturalmente fatta di progetti, che dinanzi all’instabilità del rapporto lavorativo difficilmente possono essere realizzati. Dal mutuo per la casa ai risparmi per gli studi dei figli. Ai figli stessi: difficile metterne in cantiere uno, a queste condizioni, diciamo anche rischioso.

20140308-103308.jpg

Il rapporto somministrato, poi, si complica ulteriormente (ai danni del solo lavoratore, ovviamente) se il lavoro lo si presta in favore di una P.A.: l’art. 97 Cost. regola l’accesso nella stessa e stabilisce la via del concorso pubblico come modalità principale, salvo poi riservare ad alcune categorie protette l’accesso tramite liste di collocamento. Tuttavia, le politiche di contenimento della spesa per il personale nella P.A. previste dalle ultime leggi finanziarie ma anche dai recenti interventi in tema di spending review e anche dalla legge di stabilità, hanno determinato la riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato e in alcuni casi introdotto il cd. blocco del turn over, determinando il ricorso all’utilizzo sempre più frequente dei contratti di somministrazione di lavoro temporaneo o di altre forme flessibili di reclutamento, anche in considerazione del favore dimostrato dal legislatore verso tali tipologie contrattuali, soprattutto in seguito alle diverse modifiche apportate all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e nonostante i vari interventi legislativi sui limiti di spesa.
In termini di opportunità amministrativa, quando non anche politica, è necessaria un’analisi dei costi per valutare la convenienza dello strumento flessibile (ed atipico, lato sensu) che il nuovo mercato del lavoro propone.

20140308-103432.jpg

S’è detto che la P.A., soggetto utilizzatore, stipula un contratto di tipo commerciale col somministratore, questo perché la somministrazione prevede tre tipi di rapporti derivanti da due distinti accordi: un rapporto commerciale discendente dal contratto stipulato tra utilizzatore e somministratore, un rapporto lavorativo tra questi e il dipendente che firma un contratto di lavoro con l’agenzia e, infine, un rapporto funzionale tra il lavoratore e l’utilizzatore che si avvale delle sue prestazioni. Per una Pubblica Amministrazione, sottoposta a spending review, ricorrere alla somministrazione significa spendere per un singolo lavoratore più di quanto non farebbe se quell’unità fosse stata selezionata tramite concorso ed assunta a tempo indeterminato, ovvero determinato.
Se in origine il presupposto per ricorrere a tale contratto, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003, era individuato “nelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”, evoluzione/involuzione rispetto alle sole esigenze di carattere temporaneo previste per il lavoro interinale dalla l. 196/97, ora l’articolo 4, comma 1 lettera c), del d.lgs. n. 24/2012, nell’aggiungere all’articolo 20 il comma 5-quater, ha previsto una deroga alle suindicate ragioni di utilizzo del contratto di somministrazione a tempo determinato nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. I CCNL, nei diversi comparti del pubblico impiego, possono, infatti, disciplinare tutti i casi in cui la somministrazione può essere utilizzata per fronteggiare specifici fabbisogni temporanei riguardanti determinate professionalità. L’articolo 2 del CCNL del 14/9/2000, ad esempio, relativo al personale appartenente al Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali prevede che i contratti di fornitura di lavoro temporaneo possano essere stipulati dalle Regioni e dagli enti locali per consentire la temporanea utilizzazione di professionalità non previste nell’ordinamento dell’amministrazione ovvero in presenza di eventi eccezionali e motivati non considerati in sede di programmazione dei fabbisogni o per la temporanea copertura di posti vacanti, per un periodo massimo di 60 giorni e a condizione che siano state avviate le procedure per la loro copertura; ovvero per l’acquisizione di profili professionali non facilmente reperibili o comunque necessari a garantire standard definiti di prestazioni, in particolare nell’ambito dei servizi assistenziali.

20140308-103642.jpg

Nel comparto degli EPNE, invece, l’articolo 35 del CCNL stipulato in data 14/2/2001 ammette il ricorso alla somministrazione per particolari fabbisogni professionali connessi all’attivazione ed all’aggiornamento di sistemi di controllo di gestione e di elaborazione di manuali di qualità e carte dei servizi nonché per soddisfare specifiche esigenze di supporto tecnico nel campo della prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, purché l’autonomia professionale e le relative competenze siano acquisite dal personale in servizio entro e non oltre quattro mesi.
tro mesi.
Nel comparto degli enti di ricerca, poi, troviamo l’articolo 22 del CCNL stipulato in dato 21/2/2001 (normativo 1998 – 2001 economico 1998 – 1999) il quale stabilisce che il ricorso al lavoro temporaneo deve essere fatto nel rispetto dei divieti posti dalla vigente disciplina legislativa, per soddisfare esigenze a carattere non continuativo e/o a cadenza periodica, o collegate a situazioni di urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o attraverso le modalità di reclutamento ordinario, previste dal D. Lgs. 165/2001 e deve essere improntato all’esigenza di contemperare l’efficienza operativa e l’economicità di gestione.
L’attuale fase di congiuntura economica, la spending review, il piano di rientro relativo all’amministrazione sanitaria di diverse regioni italiane, giustificano sicuramente il ricorso a tale forma di lavoro, stante il blocco delle assunzioni per lo meno relativamente al personale amministrativo. Il Legislatore, da Brunetta in poi, ha preteso dal pubblico impiego standard quali-quantitativi sempre più elevati. La richiesta di efficienza rivolta a lavoratori stipendiati con denaro pubblico è certamente una scelta giusta, giuridicamente ineccepibile, in linea di principio. Tuttavia tale richiesta sembra travalicare i limiti dell’umanamente possibile, se d’altro canto le Amministrazioni non possono procedere al cd. ricambio generazionale se non in percentuali minime nei prossimi anni, quando addirittura le assunzioni di nuovo personale non risultino del tutto bloccate dai criteri introdotti nell’ordinamento italiano dal Decreto Milleproroghe in poi. E se le Amministrazioni Pubbliche sono deputate all’erogazione di servizi, sarà anche necessario che ci sia qualcuno che ‘materialmente’ quei servizi li dispensi. Come far fronte alla carenza di personale se non con la somministrazione? Ed ecco che si profila un circolo vizioso, difficile da spezzare a legislazione invariata (o per lo meno – e per ora – fino al 2017, quando il turnover dovrebbe essere ripristinato). Circolo vizioso perché un Ente costretto al risparmio, di fatto spende per il personale somministrato cifre improponibili in un momento storico come questo.

20140308-103855.jpg

Per essere più chiaro userò, a titolo esemplificativo, dei termini impropri, ma di sicuro più efficaci. Io, Amministrazione costretta a limitare le spese anche per il personale, mi ritrovo con quattro impiegati, ma per raggiungere gli obiettivi che la Direzione mi ha imposto, in ragione delle stesse leggi che mi sottopongono a tale regime di austerità, avrei bisogno di almeno dieci dipendenti, così ne affitto altri quattro pagandoli quasi il doppio di quanto pagherei per quattro impiegati neoassunti con una posizione economica di primo livello. Quindi mi ritrovo con otto persone, quando me ne servirebbero invece dieci, e spendo di più di quanto non farei con dieci unità direttamente assunte da me, ma non posso fare diversamente. Non posso perché da un lato c’è il blocco delle assunzioni e dall’altro il mancato raggiungimento degli obiettivi per quest’anno comporterà, per esempio, una minor afflusso di fondi dall’Amministrazione Centrale o dal Ministero nel corso dell’anno venturo.
La domanda è allora quali sono i costi che un’Amministrazione affronta per un lavoratore somministrato? Il costo del lavoro per un lavoratore somministrato deve essere calcolato considerando le seguenti voci derivanti dall’applicazione del CCNL, dal CCNL integrativo e dalla normativa che disciplina il medesimo contratto di somministrazione:
1. retribuzione oraria, tredicesima mensilità, ratei tredicesima, ex festività, permessi retribuiti, ferie, ratei trattamento fine rapporto, oneri assicurativi contributivi. Gli oneri contributivi sono calcolati sulla base del CCNL applicato all’agenzia per il lavoro;
2. trattamento economico accessorio, la produttività, il servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto e altre voci derivanti dall’applicazione di contratti decentrati integrativi;
3. oneri di costo aggiuntivi previsti dalla normativa che disciplina il contratto di somministrazione. Ad esempio, quelli previsti dall’articolo 12, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 276,
sono i cd. fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare in misura pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l’esercizio di attività di somministrazione e destinati ad interventi a favore dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato intesi, in particolare, a promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione anche in funzione di continuità di occasioni di impiego e a prevedere specifiche misure di carattere previdenziale (comma 1), e destinati, inoltre, (comma 2) a:
a) iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori;
b) iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto agli appalti illeciti;
c) iniziative per l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori svantaggiati anche in regime di accreditamento con le regioni;
d) per la promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale;
4. da ultimo, ma più rilevante di tutti, il ‘prezzo’ di un lavoratore somministrato è dato da possibili scostamenti del costo dovuti a rinnovi contrattuali.

20140308-104129.jpg

Limitatamente al punto 4), il valore dell’offerta alla medesima Agenzia dovrà essere aggiornato prevedendo nel contratto una clausola di revisione dei prezzi in ragione dell’aumento del costo del lavoro legato ad aumenti contrattuali. Al riguardo, l’articolo 115, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 prevede che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi”.
Alla luce di queste voci di costo, rivolgo a voi la domanda: è opportuno il ricorso alla somministrazione da parte di una P.A. sottoposta a spending review? Anzi, poiché è di soldi pubblici che parliamo, è opportuno il ricorso alla somministrazione, a prescindere dalla fase economica che stiamo attraversando?
È opportuno che la politica consenta questo? E non solo…

20140308-104306.jpg

Negli ultimi anni, infatti, la nostra classe dirigente ha introdotto nel mercato del lavoro (evidentemente anche in quello pubblico) la nozione di flessibilità. A parte i maggiori oneri sostenuti dalle Amministrazioni, è possibile ravvisare una convenienza nell’immissione di queste atipiche tipologie di lavoratori anche nel settore pubblico. E in caso affermativo, a chi conviene? La stessa domanda può essere posta da un altro punto di vista: chi seleziona il personale somministrato? Nel Paese del clientelismo è naturale che sorga il dubbio e, come recita un vecchio adagio, a pensar male si fa peccato, ma si sbaglia raramente. Già, perché oltre ai maggiori oneri a carico dell’Amministrazione utilizzatrice, il lavoro somministrato si caratterizza per un’altra preoccupante peculiarità: la totale elusione dell’art. 97 della Costituzione. La ratio della norma costituzionale, benché svuotata del suo contenuto dopo anni di clientelismo, è quella di dotare gli Uffici Pubblici del miglior personale possibile, appunto mediante selezione concorsuale. Di fatto, nei sessant’anni di vita della Costituzione, il clientelismo italiota ha reso il disposto dell’art. 97 operativo solo in alcuni casi in cui è poco probabile che tutti i vincitori siano parenti e amici di chi conta: sono quei maxi concorsi da 300, 400, 500 anche fino a 1000 posti, che ora come ora la Corte dei Conti non potrebbe più autorizzare, salve le eccezioni del personale militare,di polizia e di quello ispettivo in Ministeri ed Agenzie. Chi sceglie, quindi, il lavoratore somministrato? O meglio chi lo segnala? Potremmo argomentare analogicamente partendo dallo svolgimento dei concorsi in certi Enti Locali, in cui si concorre in 700 per un posto solo. Ma lascio a voi le debite conclusioni. Vero è che eccezioni ve ne sono, nei concorsi per un posto solo come anche nel lavoro somministrato. Non tutti hanno la fortuna di conoscere la gente giusta. E mi rifiuto di pensare che il malcostume sia divenuto la sola regola imperante. Capita, infatti, di essere somministrati inizialmente per la sostituzione di una lunga malattia o di una maternità e poi di rimanere a fare quel lavoro anche dopo, magari per una serie di circostanze fortuite, ad esempio perché, nel frattempo, chi sostituivi ha trovato di meglio. C’è poi anche chi è arrivato dall’agenzia senza alcun appoggio per svolgere mansioni talmente infime che nessun ‘amico degli amici’ avrebbe mai accettato. Oggi forse sarebbe diverso, ma fino a sei, sette anni fa, assolutamente no.

20140308-104506.jpg

Per esempio, nella mia vita lavorativa ho conosciuto un imbustatore inizialmente assunto a chiamata e poi somministrato: un ragazzo che per poche centinaia di euro imbustava lettere per sei ore ogni due o tre giorni, in un primo periodo, e poi anche tutti i giorni: piegato su una scrivania fantozziana da cui, tra altissime pile di buste, sbucava fuori la sua testa. Io, nel frattempo, ho cambiato lavoro, città e regione, ma so che lui è riuscito a mostrare di saper fare ‘qualcosa’ di più che incollare buste e la dirigenza del suo Ufficio lo ha ‘promosso’ a impiegato. Nel frattempo è stata acquistata un’imbustatrice meccanica e questo giovane senza sponsor si è via via reso indispensabile e prezioso per il suo Ufficio. Di eccezioni ce ne sono, quindi. Ma queste rappresentano la terza ‘croce’ del lavoro somministrato nella P.A.: le competenze che nel tempo vengono acquisite dai lavoratori che fine fanno? Un lavoratore non può essere somministrato a vita in un’Amministrazione Pubblica, pur cambiando agenzia, vi sono dei limiti che impone la Legge, in primis quelli previsti dal D.Lgs 165/2001 per il t.d., e se, nonostante le riserve previste dal decreto D’Alia, la P.A. non indice alcun concorso, l’Ufficio si dovrà privare di un valido elemento per cedere il posto a un altro inesperto somministrato?

20140308-104647.jpg

Quanto agli stessi lavoratori vi è, infine, da considerare un quarto ed ultimo problema. Queste persone lavorano con l’ansia perenne del contratto in scadenza, prorogato anche di soli tre mesi in tre mesi, senza alcuna prospettiva futura, senza la possibilità di acquistare neppure un monolocale, anzi nemmeno un TV a rate, perché nessuna finanziaria ne accetterà mai la richiesta. Queste persone, che da contratto osservano l’orario di 36 ore settimanali, di fatto ne fanno molte di più. Per conservare il proprio precarissimo posto farebbero di tutto, di questi tempi. E quel di più non è certo retribuito. Talora è svolto in remoto da casa: fogli Excel, lettere, documenti elaborati la sera tardi affinché siano fruibili e pronti per la firma del Capo Struttura domattina alle otto. Il tutto con la sudditanza psicologica del precario dinanzi al classico impiegato pubblico in attesa della pensione: magari quello entrato con la 285 e che si aggira nei corridoi col bicchierino da caffè in mano e si lamenta ogni giorno della Riforma Fornero che lo obbliga a stare ancora lì, che rivendica pretese sindacali ad ogni ordine superiore e che a sua volta ‘scarica’ le proprie responsabilità sul precario non incardinato.

20140308-104741.jpg

A questo punto rinnovo la domanda. Ma a chi conviene tenere ancora certi carichi sul libro paga? Che vantaggio c’è nell’impedire l’accesso nella P.A. a giovani ben più svegli preparati e bisognosi di lavorare. Non c’è spending che giustifichi i costi della somministrazione. Come ho dimostrato, il blocco del turnover è un paradosso contabile. Lasciamo quindi che chi pesa sul bilancio della P.A. senza apportare alcun contributo vada in pensione e lasciamo una volta per tutte la flessibilità fuori dagli Uffici Pubblici, che necessitano di continuità nell’erogazione dei servizi. E infine miglioriamo qualità ed efficienza. Come? Per esempio applicando l’art. 97 della Costituzione.

Michele De Sanctis

Ammortizzatori Sociali per Tutte e Tutti (oppure Solidali e Universali): Estendere, Includere, Garantire. Sostenere il Lavoro per garantire Reddito

20140304-145009.jpg

Ieri la CGIL ha presentato una propria proposta di riforma degli ammortizzatori sociali a carattere inclusivo ed universale. Cosa significa? Significa un meccanismo che funzioni per tutti, subordinati e parasubordinati, atipici e partite IVA. Un meccanismo che da un lato sostenga chi ha perso il posto di lavoro o ha subito una riduzione dell’orario o la sospensione. Dall’altro che punti al reinserimento lavorativo.
Vediamo come.

20140304-145529.jpg

L’idea di fondo è quella di rovesciare i termini di solito il dibattito ed incentrato sul sostegno al reddito, di cui il lavoro è componente variabile, la prospettiva della CGIL è, invece, opposta: guardare al lavoro, accompagnando la transizione con un sostegno al reddito.

Una proposta semplice e sostenibile…

…costruire un sistema totalmente pubblico e assicurativo che tuteli chi perde l’occupazione e chi è coinvolto dalla crisi e che, nel contempo, non gravi sulla fiscalità generale è possibile estendendo la contribuzione a tutti i lavoratori e a tutte le imprese.

Una proposta inclusiva…

…se tutti i lavoratori e tutte le imprese contribuiscono al sistema universale di ammortizzatori, si può estendere il sostegno al reddito anche ai precari, includendo tutte le tipologie contrattuali subordinate e parasubordinate.

Una proposta equa…

…se tutte le imprese di qualsiasi dimensione e settore contribuiscono in base alle specificità ad un sistema universale, le prestazioni erogate alle stesse imprese e il carico contributivo sulle stesse sarà più sostenibile e solidaristico.

Una proposta che risponde al presente ed al futuro…

…a prescindere dagli andamenti dell’economia e delle relative fluttuazioni del mercato del lavoro un sistema di questo tipo può rispondere all’esigenza di affrontare le crisi congiunturali, di settore, territoriali con strumenti che rispondano al nuovo mercato del lavoro caratterizzato da sempre maggiori transizioni dei lavoratori da una condizione di occcupazione a quella di non occupazione, da un lavoro ad un altro, da contratto a contratto, tra lavoro e formazione.

Le ragioni e il senso della proposta
La Cgil da anni chiede e propone una vera Riforma degli Ammortizzatori Sociali a carattere inclusivo e universale.
Pensiamo a due soli istituti : uno per la tutela della disoccupazione, l’altro per la sospensione di attività e ore lavorate.
Entrambi gli strumenti devono ricollegarsi alle politiche attive di modo che il sostegno al reddito di modo che sempre il fine ultimo sia l’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo, guardando alla riqualificazione, aggiornamento, ricollocazione delle lavoratrici e dei lavoratori.
In questi anni di crisi prolungata e di assenza di politiche di settore che sviluppassero nuove e innovative attività produttive il lavoro è diminuito, si è svalorizzato ed impoverito.
Senza aumento dell’occupazione qualsiasi politica di regolazione o deregolazione del mercato del lavoro cambia solo la condizione dei soggetti esclusi o inclusi, non ha effetti di crescita del ciclo economico ma anzi rischia di aumentare l’effetto recessivo di maggiore difficoltà di collocazione nel mercato del lavoro, tempi più lunghi di disoccupazione, minore disponibilità di reddito, con pesanti effetti sociali che hanno riflessi sull’altra gamba della protezione sociale che è quella previdenziale.
Per questa ragione la proposta della Cgil ha sempre guardato al tema del sostegno al reddito come diritto del lavoratore o disoccupato ad avere insieme ad una politica “passiva” una prestazione “attiva” che ricollegasse il lavoratore al lavoro sia come fonte di realizzazione; di espressione della propria professionalità e attitudine; come elemento di dignità, libertà dalla povertà e di cittadinanza democratica.
La legge 92 ha introdotto una prima rivisitazione degli Ammortizzatori ipotizzando scenari di crescita irrealistici e contrapponendo una logica estensiva sulla rimodulazione della tutela della disoccupazione (aspi/miniaspi invece di indennità ordinaria di disoccupazione/indennità a requisiti ridotti) ad una logica parcellizzante, divisiva e non inclusiva del sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro (ovvero l’istituzione dei Fondi di Solidarietà che non estendono tutele a tutte le imprese e a tutti i lavoratori).
Per questo oggi più che mai è necessario correggere il sistema rivedendo l’Aspi e Mini aspi, superando gli ammortizzatori in deroga e i fondi di solidarietà con un modello assicurativo simile agli ammortizzatori ordinari basato sui contributi di imprese e lavoratori.
Le risorse che oggi dalla fiscalità generale vanno verso gli ammortizzatori in deroga dovrebbero sostenere la fase di avvio del nuovo sistema e il potenziamento delle risorse stanziate per le nuove politiche attive necessarie a superare la logica dell’assistenza.

Disoccupazione : Aspi, Mini Aspi, Mobilità.
Nella tutela per disoccupazione involontaria occorre intervenire sulle previsioni, sulle modalità e sulle articolazioni dell’assicurazione sociale per l’impiego, anche in relazione a quanto si è evidenziato nel primo anno di utilizzo dell’istituto.La lettura delle criticità presenti, il cui superamento è necessario, conduce alle proposte di rivisitazione.
Nello strumento di tutela per la perdita del posto di lavoro, articolato nella indennità di disoccupazione ASPI e Mini ASPI, non sono comprese le tipologie contrattuali non in subordinazione, escludendo quindi dal campo di applicazione la para-subordinazione e il lavoro autonomo ( a partire dalle collaborazioni a progetto alle Partite Iva).
In ragione della differente tipologia tra queste due fattispecie, sia per gli aspetti contributivi che per la natura dei contratti, occorre individuare le necessarie soluzioni d’intervento: la natura del rapporto di collaborazione – per temporalità, limiti di reddito e progressivo allineamento della contribuzione al lavoro dipendente – può agevolare l’estensione della tutela a fronte del versamento del contributo individuato.
Per il lavoro autonomo occorre aprire uno spazio di riflessione, anche attraverso la eventuale natura volontaria della copertura assicurativa. Resta evidente la necessità di una previsione che garantisca una tutela più ampia – commisurata evidentemente all’anzianità contributiva – dalla disoccupazione ( Es: una Partita Iva, fatta la media tra reddito percepito per anno fiscale ed anno solare che sia sotto il parametro definito per l’esclusione del trattamento in ragione di una contribuzione volontaria al sistema assicurativo pubblico potrebbe ricevere una prestazione parametrata alla minore contribuzione ma comunque accedere ad un’indennità di mancata occupazione)
Nel finanziamento del sistema persiste una disomogeneità nell’aliquota di contribuzione: per alcuni settori in termini transitori, con un progressivo allineamento previsto al 2017 che ha avuto effetto sulla entità delle prestazioni (soci lavoratori cooperative settore industria e commercio, personale dipendente dello spettacolo settore industria).
Per altri (artigianato, radio-televisione, pubblici esercizi) la riduzione del contributo ordinario ha confermato quanto già in essere nel finanziamento della indennità di disoccupazione ponendo a rischio le coperture.
Relativamente alla prestazione dell’ASPI occorre superare il decalage del 15% prevsito dopo il 6° mese di fruzione e dell’ulteriore 15% previsto dopo il 12° mese.
La transizione della indennità di mobilità verso l’ASPI si presenta troppo rapida, anche in ragione – come era prevedibile – del perdurare della crisi e di come questa ricade in alcuni settori produttivi e in alcune realtà geografiche.
Tra il 2015 e il 2016 da una copertura massima di 36/48 mesi si passa a una copertura di 12/18 mesi.
Occorre ampliare il periodo di transizione con l’esigenza, però, d’incrementare strutturalmente i periodi di copertura dell’ASPI ad almeno 18/24 mesi.
Il superamento della indennità di disoccupazione a requisiti ridotti, sostituita dalla Mini ASPI, sul versante dei requisiti ha introdotto elementi di rigidità che penalizzano nell’accesso alla prestazione: le 13 settimane non sono l’equivalenza delle 78 giornate lavorative.
Costituiscono un limite rigido all’accesso alla prestazione, in considerazione dei periodi di lavoro brevi e discontinui.
Per questo occorre riportare il requisito alle 78 giornate lavorative, superando la rigidità introdotta con il vincolo delle 13 settimane di contribuzione nell’anno.
Inoltre la corresponsione della indennità per la metà delle settimane lavorate ha prodotto una riduzione sensibile della prestazione se paragonata per analoghi periodi al precedente sistema di calcolo.
Nel quadro di una rivisitazione dell’ ASPI, per l’ esigenza di superare le difficoltà di accesso alla prestazione, occorre valutare il superamento del vincolo del biennio di anzianità assicurativa e dell’anno di contribuzione (le 52 settimane con contribuzione erogata o dovuta): l’incrocio tra questi due criteri costituisce spesso un “muro” non superabile per ottenere la prestazione.
Commisurando la durata della prestazione alla anzianità lavorativa (agli anni di versamento del contributo DS/ASPI) si potrebbe superare il vincolo biennio assicurazione/anno di contribuzione individuando un requisito minimo che possono essere le 78 giornate lavorative nell’anno.
Tale intervento ridurrebbe l’area di esclusione dalla prestazione e questa sarebbe comunque commisurata alla durata della contribuzione, come è in un sistema di natura assicurativa quale quello di tutela della perdita dell’occupazione.
Resta da approfondire la questione del contributo straordinario, oggi previsto nella misura del 1,4%, per le tipologie contrattuali non subordinate che comunque hanno la caratteristica di essere “a termine” e quindi omogenee alla specificità dei contratti a tempo determinato per le quali la Cgil chiede la generalizzazione del contributo del 1,4%.
L’orizzonte di una tutela a carattere universale per la perdita involontaria dell’occupazione passa necessariamente attraverso un intervento sugli strumenti in essere.
In realtà la Mini Aspi potrebbe essere assorbita dall’Aspi, che potrebbe agire anche su periodi variabili a seconda del numero di giornate lavorative annue accumulate per i precari e allungando anche al di là dei 24 mesi massimi, previsti nella proposta della Cgil, nel caso di lavoratori che volontariamente prima del raggiungimento dei requisiti di anzianità contributiva decidano di interrompere il rapporto di lavoro. In questo caso l’Aspi assorbirebbe la funzione che in parte ha avuto la Mobilità ma nella previsione di riforma la condizione è che parte della prestazione venga pagata dall’impresa che avvii la procedura garantendo l’occupazione di un nuovo lavoratore.

20140304-150540.jpg

Tutele in costanza di rapporto di lavoro
Per le tutele in costanza di rapporto di lavoro, pur tenendo conto dell’articolazione tra settori e degli strumenti oggi previsti, occorre una rivisitazione profonda per realizzare l’obiettivo non raggiunto della universalità per settori merceologici e classi dimensionali neanche con l’istituzione dei Fondi di Solidarietà.
Sulle tutele in costanza di rapporto di lavoro l’intervento legislativo di riforma rischia di produrre frammentazione, eccesso di articolazione e non inclusività del sistema e non rispondere alle esigenze di superamento della cassa integrazione e mobilità in deroga.
Inclusività e universalità contrastano con la differenziazione per settori e classi dimensionali che si sta profilando.
Nel contesto attuale, inoltre, il progressivo superamento degli strumenti in deroga rischia di ridurre gli strumenti di protezione e di difesa dell’occupazione a disposizione delle aziende e dei lavoratori, soprattutto perche non si incentivano adeguatamente e generalizzano i contratti di solidarietà espansivi e difensivi.
Per queste ragioni il sistema delle tutele in costanza di rapporto di lavoro va profondamente ripensato e ridisegnato alla luce delle criticità già evidenti.
L’orizzonte da intraprendere doveva essere quello di prevedere un unico strumento di sostegno al reddito, da garantire attraverso l’obbligatorietà, articolando il livello di contribuzione per settori e per classi dimensionali (incidenza delle sospensioni per settore non sono omogenee, come non lo sono le coorti di addetti e quindi il monte retributivo/contributivo), di versare un’aliquota ad hoc ripartita nella misura di 2/3 a carico dell’impresa e 1/3 a carico del lavoratore per tutte le aziende e tutte le tipologie contrattuali, una sorta di “assicurazione contro la sospensione momentanea dell’attività” in ragione delle causali che già oggi operano: crisi per riconversione, riorganizzazione, cessazione attività.
I nuovi Fondi di Solidarietà, compresi il Fondo cd “residuale”, non prevedono alcuna forma obbligatoria di copertura per le imprese con meno di 15 dipendenti né per i lavoratori non subordinati.
C’è il rischio di una frammentazione per settori, con fondi articolati sulla dimensione contrattuale; una pluralità di fondi che non avrebbero la massa critica per garantire le prestazioni.
Al momento nei fondi per i quali sono intervenute intese l’aliquota di finanziamento va dallo 0,20% allo 0,5%, mentre l’aliquota del fondo residuale è stata fissata – nella legge di stabilità – nella misura dello 0,5%.
Il raffronto delle aliquote di contribuzione della cassa integrazione evidenzia, in termini oggettivi, questo limite: per la straordinaria l’aliquota di finanziamento è fissata nello 0,90% della retribuzione con lo 0,3% a carico del lavoratore, mentre per il finanziamento della ordinaria le aliquote variano dal 1,90% (industria con meno di 15 dipendenti) al 5,20% del settore edile.

20140304-151059.jpg

Inoltre la valutazione sulla entità di finanziamento della cassa integrazione in deroga, che copre settori e classi dimensionali che fanno riferimento all’ambito dei fondi di solidarietà, rende evidente il rischio di sotto-finanziamento e quindi d’impossibilità di erogazione delle prestazioni che comunque sono di molto inferiori a quelle della cassa ordinaria, straordinaria e deroga come periodi di copertura ( massimo 1/8 delle ore lavorate).
E’ utile evidenziare due aspetti: sia il finanziamento della cassa integrazione in deroga che l’erogazione dell’ASPI ai lavoratori sospesi sono soggetti a finanziamenti a carattere transitorio che cesseranno – cosi è previsto dall’attuale legislazione – nel 2016.
Quindi tutto il carico della copertura delle prestazioni ricadrà sui fondi già attivati e su quello residuale, secondo il perimetro di copertura degli stessi: i fondi per legge hanno l’obbligo del pareggio di bilancio e non potranno erogare prestazioni in assenza di disponibilità.
In tal caso la norma prevede o una rimodulazione della prestazione oppure la modifica dell’aliquota di contribuzione, su proposta del Comitato Amministratore.
Per queste ragioni, sinteticamente esposte, il sistema delle tutele in costanza in rapporto di lavoro ha necessità di un ripensamento profondo e radicale.
Il rischio che all’attivazione dei fondi segua l’incapacità di erogazione delle prestazioni è oggettivamente misurabile.
Obbligatorietà, inclusione di tutte le classi dimensionali e tipologia di lavoratori, aliquota di finanziamento articolata per settori merceologici e per dimensione delle aziende: di fatto l’estensione del modello della cassa integrazione ma includendo i precari.

Fonte: CGIL

Prime indiscrezioni sul Jobs Act. La NASPI sarà il nuovo sussidio di disoccupazione universale

Immagine

Uno degli istituti più rilevanti del Jobs Act di Matteo Renzi è la NASPI, ovvero la Nuova Assicurazione Sociale Per l’Impiego. Pertanto, come si evince dal nome, la NASPI sostituirà l’ASPI e la mini-ASPI, il sussidio introdotto dall’ex Ministro del Lavoro Elsa Fornero. Si tratta di un sussidio di disoccupazione universale, destinato a tutti coloro che hanno perso un posto di lavoro. Di conseguenza, tale istituto intende offrire una tutela anche a tutti i lavoratori precari (come ad esempio, i collaboratori a progetto), che attualmente risultano essere esclusi da ogni forma di sostegno al reddito, in caso di loro uscita dal mercato del lavoro.
Stando alle prime indiscrezioni governative, la NASPI comporterà un costo per le casse dello Stato pari ad 8,8 miliardi di euro. Pertanto, essa determinerà un aumento di 1,6 miliardi di euro della spesa pubblica destinata ai sussidi.
A fronte di tale aumento di spesa pubblica, ci sarà la creazione di una forma di protezione a favore del milione e 200 mila lavoratori, attualmente privi di ogni forma di sostegno al reddito, in caso di disoccupazione.
Per trovare la copertura finanziaria necessaria, si vocifera che verrà operato uno spostamento delle risorse finora destinate alla CIG in deroga, la quale comporta una spesa annua di circa 3 miliardi di euro. Nulla è dato sapere sul destino finanziario delle CIG in deroga ancora in esecuzione.
Ovviamente, l’intera questione è ancora in fase di studio ed analisi da parte del Ministero del Lavoro, anche se alcuni esponenti del PD caldeggiano tale situazione come l’unica capace di prevedere una tutela, seppur minima, a favore dei lavoratori atipici.
La NASPI dovrebbe essere corrisposta a favore di coloro che hanno terminato un rapporto di lavoro durato almeno tre mesi. Una simile previsione è in grado di offrire una forma di protezione a tutti lavoratori atipici, ivi comprese, quelle forme di precariato, come i collaboratori a progetto, attualmente prive di qualsiasi sostegno al reddito.
Rispetto all’attuale ASPI, la NASPI avrà una durata più lunga, in quanto si prevede che essa debba avere una arco temporale di operatività pari alla metà del numero di settimane contributive corrisposte dal lavoratore interessato negli ultimi quattro anni.
In ogni caso, la NASPI non potrà durare più di due anni, per tutti i lavoratori dipendenti (anziché, come ora prevede l’ASPI, 8 mesi o 12 mesi per chi ha rispettivamente meno o più di 50 anni ed ha perso il lavoro nell’anno 2013) e non più di sei mesi, per tutti i lavoratori atipici.
L’importo dell’assegno erogato con la NASPI non varierà rispetto alla somma attualmente garantita con l’ASPI. Pertanto, utilizzando i valori riconosciuti all’ASPI nell’anno 2013 (in quanto, attualmente non si sa nulla circa possibili aggiornamenti dei valori vigenti nell’ambito del nuovo istituto), dovrebbero essere erogati assegni individuali dell’importo massimo di € 1.180 mensili all’inizio del periodo di copertura, per, poi, scendere ad€ 639,41mensilialla fine del predetto periodo, confermando le regole vigenti della c.d. Legge Fornero (cioè, il 75% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dell’ultimo periodo con il tetto citato, con l’espressa previsione che tale percentuale debba essere abbattutadel 15% ogni sei mesi).
In altri termini, con la NASPI, l’importo rimarrebbe lo stesso, mentre la durata sarebbe più lunga, sia dell’ASPI, che della mini-ASPI, vista la previsione di una durata pari alla metà del numero di settimane contributive corrisposte dal lavoratore interessato negli ultimi quattro anni.

Germano De Sanctis

Il lavoro ruba la vita.

20140222-114859.jpg

Storia sociale. Per la casa editrice Angeli esce «Come servi», uno studio di Maria Luisa Pesante sulla figura del salariato visto come possibile nuovo schiavo, soprattutto alla luce della precarietà dell’esistenza e dei contratti. Di Michele Nani (Il Manifesto).

Le tra­sfor­ma­zioni del pre­sente, quando hanno carat­tere strut­tu­rale e non sem­pli­ce­mente con­giun­tu­rale, impon­gono di ricon­si­de­rare le let­ture del pas­sato. Non solo in quanto, secondo l’abusato ada­gio cro­ciano, «ogni sto­ria è sto­ria con­tem­po­ra­nea» e dun­que l’interpretazione del pas­sato è anche una posta in gioco delle lotte poli­ti­che del presente.

Piut­to­sto per­ché, con Kosel­leck e Har­tog, siamo ancora nel regime di sto­ri­cità instau­rato dalle rot­ture euro­pee del tardo Set­te­cento: per cui la nostra per­ce­zione della sto­ria con­tem­po­ra­nea è frutto di una con­trap­po­si­zione radi­cale fra pas­sato e pre­sente. Siamo dun­que por­tati a pen­sare il mondo attra­verso una serie di cop­pie con­cet­tuali, che un radi­ca­liz­zano le distin­zioni fra le società «tra­di­zio­nali» di Antico regime e le nuove società «moderne». Anche quando par­liamo di post-moderno o di fine della moder­nità siamo di fronte a un aggior­na­mento di quella logica.

Fa parte di que­ste rap­pre­sen­ta­zioni oppo­si­tive anche l’idea che la lunga tran­si­zione a for­ma­zioni sociali a domi­nante capi­ta­li­stica abbia deter­mi­nato una tra­sfor­ma­zione qua­li­ta­tiva e irre­ver­si­bile delle rela­zioni di lavoro. Dal pieno e asso­luto domi­nio dei signori sui corpi al lavoro dei loro servi e sui loro pro­dotti si sarebbe pas­sati a un mer­cato del lavoro «libero», ove la pre­sta­zione si scam­bia con un sala­rio sta­bi­lito da un con­tratto. Cer­ta­mente anche il con­tratto, come vide luci­da­mente lo stesso Max Weber, san­ci­sce i rap­porti di forza fra parti tutt’altro che «eguali», dato che gli uni sono pro­prie­tari che cer­cano di valo­riz­zare il pro­prio capi­tale e gli altri nul­la­te­nenti che cer­cano un sala­rio per non morire di fame. Tut­ta­via un con­tratto scritto è meglio del patto orale (o dell’assenza di patto) che carat­te­rizza la dipen­denza per­so­nale: per­ché postula l’equivalenza dello scam­bio, pre­sup­pone l’accordo fra i con­traenti e pone qual­che limite all’arbitrio e alla discre­zio­na­lità del comando.

Patti oscuri

Per chi non l’avesse già ripen­sato guar­dando alle peri­fe­rie del capi­tale o agli imperi colo­niali, le vicende degli ultimi decenni hanno dis­si­pato come illu­sione ottica la pre­tesa irre­ver­si­bi­lità non solo delle forme con­trat­tuali più avan­zate e delle garan­zie con­qui­state dai lavo­ra­tori, ma anche la stessa idea di un pas­sag­gio sto­rico epo­cale dalla coa­zione ser­vile al libero con­tratto. Il lavoro sala­riato con­ti­nua a dif­fon­dersi, ma l’idea «evo­lu­tiva» e il suo segno «pro­gres­sivo» sono state ridi­men­sio­nate. È dun­que ora più age­vole rico­struire sto­ri­ca­mente le can­gianti e plu­rali costel­la­zioni delle rela­zioni di lavoro: per farsi un’idea basti sca­ri­care le Outli­nes di sto­ria del lavoro che Jan Lucas­sen ha com­pen­diato in un sag­gio qual­che mese fa (http://​socia​lhi​story​.org/​e​n​/​p​u​b​l​i​c​a​t​i​o​n​s​/​o​u​t​l​i​n​e​s​-​h​i​s​t​o​r​y​-​l​a​b​our). Fra lavoro «libero» (salariato-contrattuale) e lavoro «non libero» (servile-schiavile) non si dà alter­na­tiva secca, né nei sin­goli con­te­sti, né sto­ri­ca­mente, bensì cicli di pre­va­lenza rela­tiva e, soprat­tutto, intrecci e gra­da­zioni inter­me­die. Allo stesso modo non è age­vole distin­guere le forme di coa­zione al lavoro e di potere sul lavoro o porle su una scala evo­lu­tiva: alle matrici economico-sociali si intrec­ciano costan­te­mente ele­menti extra-economici, in par­ti­co­lare giu­ri­dici e istituzionali.

A que­sto can­tiere di sto­ria sociale delle pra­ti­che lavo­ra­tive si è affian­cata, con la stessa dif­fi­denza verso tipo­lo­gie e schemi evo­lu­tivi e con la mede­sima atten­zione alle inso­spet­tate con­ti­nuità, una sto­ria delle rap­pre­sen­ta­zioni del lavoro, che ha trac­ciato una genea­lo­gia cri­tica dei para­digmi del lavoro ancora impe­ranti. Uno sti­mo­lante con­tri­buto in quest’ultima dire­zione viene dalla recente ricerca di Maria Luisa Pesante, una «sto­ria intel­let­tuale» delle «figure del lavoro sala­riato» nella cul­tura euro­pea, la cui tesi è lim­pi­da­mente sin­te­tiz­zata dal titolo (Come servi, Milano, Angeli 2013) e dall’immagine di coper­tina: un dise­gno cin­que­cen­te­sco che ripro­duce la scena dell’ingresso in miniera di alcuni ope­rai, sor­ve­gliati da arci­gni per­so­naggi muniti di robu­sti bastoni.

Antro­po­lo­gia al negativo

Il punto di par­tenza della ricerca è la dif­fusa con­vin­zione che la teo­riz­za­zione del mer­cato del lavoro, e dun­que del lavoro come merce il cui prezzo (il sala­rio) è deter­mi­nato dalle «leggi» della domanda e dell’offerta, risalga al sapere dell’«economia poli­tica», giunto a matu­rità nel Set­te­cento, come descri­zione e inter­pre­ta­zione del nuovo modo capi­ta­li­stico di pro­durre. Attra­verso un ser­rato con­fronto con i testi, una raf­fi­na­tis­sima filo­lo­gia che non si esau­ri­sce nell’esegesi interna, ma col­loca i testi nel con­te­sto intel­let­tuale e sociale più largo, Pesante mostra come die­tro la con­si­de­ra­zione del lavoro come merce vi sia invece un’altra sto­ria. Non è l’osservazione e for­ma­liz­za­zione teo­rica delle moderne rela­zioni capi­ta­li­sti­che di pro­du­zione ad ispi­rare l’analisi del lavoro in quanto merce, ma l’incorporazione nell’economia poli­tica di teo­riz­za­zioni pre­ce­denti sui lavoratori.

La matrice dell’idea del lavoro-come-merce risale ai teo­rici sei­cen­te­schi del diritto natu­rale (Gro­zio, Pufen­dorf ed altri), che nel ten­ta­tivo di inqua­drare in ter­mini con­trat­tuali tutte le rela­zioni sociali leg­ge­vano il sala­riato come variante tem­po­ra­nea della ser­vitù per­pe­tua. L’uno e l’altra rap­pre­sen­ta­vano ai loro occhi sot­to­mis­sioni volon­ta­rie al potere altrui, dovute all’indigenza. Seguendo le fonti del diritto romano, il sala­riato si doveva inqua­drare nel con­tratto di «loca­zione», si pen­sava cioè come un affitto di lavoro. Però l’erogazione di lavoro è dif­fi­cil­mente scin­di­bile dalla persona-al-lavoro e dun­que il sala­riato restava in una posi­zione ambi­gua, fra equi­va­lenza dello scam­bio (che apre, per altro, a nuove ambi­guità: a cosa dev’essere equi­va­lente il sala­rio, al tempo di lavoro, alla quan­tità di pro­dotto o ad altro?) e rica­duta nella con­di­zione ser­vile (domi­nio sulla per­sona, senza limiti di com­pito, pro­dotto o tempo). A que­sta rap­pre­sen­ta­zione giu­ri­dica si affian­cava un’antropologia nega­tiva del lavo­ra­tore sala­riato, che rical­cava quella del servo e dello schiavo: inca­pace poli­ti­ca­mente e civil­mente, la sua sog­get­ti­vità si ridu­ceva a una costante pul­sione verso l’ozio e la frode.

Que­sta let­tura del sala­riato aveva due corol­lari: primo, l’idea che i salari non pos­sano cre­scere oltre un certo, ristretto limite det­tato dalla sus­si­stenza del lavo­ra­tore — e se cre­scono troppo è neces­sa­rio l’intervento dello Stato ad abbas­sarli per legge, ripri­sti­nando l’ordine natu­rale; secondo, l’impensabilità di un con­flitto «ver­ti­cale» fra per­sone e gruppi dallo sta­tuto diverso, se non nei ter­mini pato­lo­gici della vio­la­zione o rot­tura del con­tratto, che rap­pre­senta un reato e come tale va represso.

Buona parte di que­sto baga­glio è alle ori­gini dalla nuova «eco­no­mia poli­tica», che si vuole scien­ti­fica e ogget­tiva: è invece attra­verso le lenti della giu­ri­spru­denza natu­rale e dun­que del lavo­ra­tore come schiavo o servo che si teo­rizza il lavoro come merce fra le altre e quindi il mer­cato del lavoro. L’approccio di Pesante non è sem­pli­ci­stico: non si tratta di errori o di distor­sioni ideo­lo­gi­che, quanto di vere e pro­prie apo­rie, di dif­fi­coltà reali. Gli inter­preti pas­sati in ras­se­gna, dai giu­sna­tu­ra­li­sti ai filo­sofi poli­tici, dagli eco­no­mi­sti «pra­tici» ai teo­rici illu­mi­ni­sti di un nuovo sapere, fino al caso emble­ma­tico di David Hume, fati­cano a leg­gere una realtà nuova e mute­vole, per­ché si ser­vono di vec­chi stru­menti e anche quando ne costrui­scono di nuovi devono appog­giarsi, anche solo par­zial­mente, su pre­sup­po­sti pre­ce­denti. Nono­stante i suc­ces­sivi ten­ta­tivi di chiu­derle dell’economia poli­tica clas­sica (Smith, Ricardo) e poi del neo­clas­si­ci­smo (da Jevons ai suoi eredi dell’ultimo qua­ran­ten­nio «neo­li­be­ri­sta»), quelle apo­rie sono soprav­vis­sute e sono tut­tora vive. L’Autrice rico­no­sce che que­ste apo­rie non impe­di­rono all’epoca approcci alter­na­tivi e meno rigidi al sala­riato, come ad esem­pio quelli degli eco­no­mi­sti fran­cesi (ad es. Tur­got), desti­nati tut­ta­via a rima­nere mino­ri­tari nel farsi della nuova disci­plina eco­no­mica. Nem­meno in seguito sono man­cate prese di posi­zione e teo­riz­za­zioni alter­na­tive, ma anch’esse sono rima­ste subal­terne: come la Dichia­ra­zione di Fila­del­fia dell’Organizzazione inter­na­zio­nale del lavoro, che si apriva nel 1944 negando che il lavoro fosse una merce; come, negli stessi anni, la Grande tra­sfor­ma­zione di Karl Pola­nyi, nella quale si soste­neva che la mer­ci­fi­ca­zione di lavoro, moneta e terra era alle ori­gini degli squi­li­bri delle società capi­ta­li­sti­che; o, ancora, come l’economia delle con­ven­zioni e la socio­lo­gia eco­no­mica, che hanno cri­ti­cato il ridu­zio­ni­smo mer­can­tile e i suoi formalismi.

Invece Pesante non dà troppo cre­dito alla decli­na­zione mar­xiana della cri­tica all’economia poli­tica. È vero che Marx teo­rizzò il pas­sag­gio al lavoro «libero» nel capi­ta­li­smo maturo, ma que­sto non signi­fi­cava una libe­ra­zione dei lavo­ra­tori, bensì un espro­prio: l’«accumulazione ori­gi­na­ria» è la sto­ria del pas­sag­gio della pro­prietà dei mezzi di pro­du­zione dai con­ta­dini e dagli arti­giani ai mercanti-imprenditori e della con­se­guente tra­sfor­ma­zione dei pro­dut­tori indi­pen­denti in «pro­le­tari» che vivono di lavoro sala­riato. Inol­tre se la forza-lavoro (non il «lavoro», né il lavo­ra­tore) viene acqui­stata come una merce, per Marx non era una merce come le altre.

In primo luogo, la capa­cità lavo­ra­tiva viene com­prata con un sala­rio, che esprime il costo della sua ripro­du­zione: ma non si tratta di un’equivalenza astratta, quanto di una rap­porto di forza sto­ri­ca­mente varia­bile, per cui quel costo può essere abbas­sato dalla pres­sione dell’offerta sovrab­bon­dante delle brac­cia dell’«esercito indu­striale» dei disoc­cu­pati, ma può essere anche alzato dal con­flitto orga­niz­zato, dal «movi­mento ope­raio». In seguito, una volta nego­ziato il prezzo, si passa dal mer­cato del lavoro ai luo­ghi della pro­du­zione, ove la forza-lavoro socia­liz­zata e coo­pe­rante rivela di essere una merce unica, per la sua pecu­liare capa­cità di aggiun­gere valore e dun­que di pro­durre non solo merci, ma soprat­tutto profitto.

Il domi­nio simbolico

Oggi il dibat­tito su classe e lavoro è e non man­cano visioni cri­ti­che su Marx anche in coloro che al suo arse­nale teo­rico si ispi­rano (occor­rerà tor­nare, ad esem­pio, su Beyond Marx, appena uscito per le cure di Mar­cel Van der Lin­den e Karl-Heinz Roth), ma la posi­zione dell’autore del Capi­tale resta impre­scin­di­bile e fer­tile. Altri, ad esempio, hanno esteso la valenza dell’«accumulazione pri­mi­tiva» per espro­pria­zione al di là del momento «ori­gi­na­rio», come pro­cesso che si ripro­pone con­ti­nua­mente (accanto ad Har­vey sono da ricor­dare Mez­za­dra, Sac­chetto e Tomba).

Ispi­rata dall’esperienza con­creta delle rela­zioni capi­ta­li­sti­che, ma tal­volta anche da Marx, la rea­zione sog­get­tiva dei por­ta­tori della merce-lavoro ha inciso sulla società con­tem­po­ra­nea ben più di quanto non abbiano potuto fare le pur ricor­renti e radi­cali rivolte di schiavi e di servi dei secoli pre­ce­denti. Sin­da­cati e scio­peri, par­titi politici e rivo­lu­zioni hanno segnato l’Otto e il Nove­cento e dimo­strato pratica­mente che il lavoro non è solo una merce. Eppure oggi tanti con­ti­nuano a pen­sarlo in quel modo e il domi­nio mate­riale del capi­tale è così rad­dop­piato in un domi­nio sim­bo­lico, che ci porta a inte­rio­riz­zare la riduzione a merce, con­cor­renza e impresa di qual­siasi aspetto della vita sociale, dal sapere alle risorse, dalla for­ma­zione alla salute. Con il risul­tato, evi­den­ziato con discre­zione ma non senza ama­rezza anche dall’autrice di que­sto pre­zioso volume, che l’odierna pre­ca­riz­za­zione ripro­pone lavori salariati con­trat­tati al di sotto del livello di sussistenza.

Questi nuovi servi, come i loro pre­de­ces­sori pie­na­mente dispo­ni­bili e senza diritti né tutele, nuovi eco­no­mi­sti e nuovi filo­sofi spie­gano quo­ti­dia­na­mente che quelle tri­sti con­di­zioni si devono alla pigri­zia: solo lavo­rando più a lungo e più inten­sa­mente (o, variante post-moderna, facen­dosi «impren­di­tori di se stessi») i lavo­ra­tori pos­sono godere di qual­che miglio­ramento. Non certo ricor­rendo col­let­tiva­mente al con­flitto, che que­sti buoni eredi degli autori sei-settecenteschi stu­diati in Come servi esor­ciz­zano come inu­tile o dan­noso pro­prio per­ché, in fondo, fa sal­tare la mer­ci­fi­ca­zione del lavoro e con essa le teo­rie che ne cele­brano la naturalità.

Fonte: Il Manifesto

Guasta è l’economia. La crisi, il lavoro, le risposte del mercato e le proposte per un nuovo progetto comune.

20140221-162911.jpg

di Michele De Sanctis

Dal 2008 ad oggi, tutto ciò che è apparso come qualcosa di nuovo, fin dal default degli Usa, è, in realtà, la riproposizione di quanto accade dal 1971. Dall’abbandono da parte degli Stati Uniti degli accordi di Bretton Woods, per l’esattezza. Durante la conferenza di Bretton Woods del ’44, infatti, erano stati presi degli accordi che avevano dato vita ad un sistema di regole e procedure volte a regolare la politica monetaria internazionale con l’obiettivo di governare i futuri rapporti economici e finanziari, impedendo di ritornare alla situazione che diede vita al secondo conflitto mondiale. La decisione si rese necessaria poiché tra le cause del secondo conflitto mondiale andavano, altresì, annoverate le diffuse pratiche protezionistiche portate avanti dai singoli Stati, le svalutazioni dei tassi di cambio per ragioni competitive e la scarsa collaborazione tra i Paesi in materia di politica monetaria. I due principali compiti della conferenza furono, perciò, la creazione di condizioni idonee ad una stabilizzazione dei tassi di cambio rispetto al dollaro (eletto a valuta principale) e la eliminazione di quelle condizioni di squilibrio determinate dai pagamenti internazionali (tale compito fu affidato al FMI). Secondo il sistema definito da Bretton Woods il dollaro era l’unica valuta convertibile in oro in base al cambio di 35 dollari contro un oncia del metallo prezioso. Il dollaro venne così eletto valuta di riferimento per gli scambi, mentre alle altre valute furono consentite solo oscillazioni limitate entro un regime di cambi fissi a parità centrale. Per raggiungere l’obiettivo di vigilare sulle nuove regole e sul sistema dei pagamenti internazionali furono creati il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Banca Mondiale), due importanti istituzioni esistenti ancora oggi, che diventarono operative nel 1946. Inizialmente il numero di Paesi aderenti al FMI era ridotto: per aderire ogni Stato doveva versare una quota in oro e una in valuta nazionale sulla base delle quali veniva deciso il proprio peso decisionale. L’obiettivo del Fondo era quello controllare la liquidità internazionale e coadiuvare i vari Paesi nel caso di difficoltà nella bilancia dei pagamenti.
Tuttavia, la guerra del Vietnam, il forte aumento della spesa pubblica e del debito americano segnarono la fine i questo sistema.
Infatti, il 15 agosto 1971 a Camp David Richard Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro le riserve americane si stavano sempre più assottigliando. Successivamente, il dicembre di quello stesso anno segnò il definitivo abbandono degli accordi di Bretton Woods da parte dei membri del G10 (il gruppo dei dieci Paesi formato da Germania, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia). Con lo Smithsonian Agreement il dollaro venne svalutato e si diede il via alla fluttuazione dei cambi.
Nondimeno, le istituzioni create a Bretton Woods sopravvissero ma si trovarono a ridefinire priorità e obiettivi. In particolare, il FMI, con la caduta di Bretton Woods, vide di fatto cambiare il proprio ruolo di sorveglianza. Con l’introduzione dei cambi flessibili e l’abbandono dello standard aureo, venne meno la necessità di gestire la liquidità internazionale e l’attenzione del FMI fu piuttosto portata sulle politiche macroeconomiche interne perseguite dai membri e sugli elementi strutturali dei loro mercati. Venne poi data priorità all’obiettivo di finanziamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti dei Paesi in via di sviluppo trasformando il FMI da prestatore a breve termine a prestatore a lungo termine. Pertanto, il FMI si trovò investito del compito di effettuare prestiti vincolati al rispetto di specifiche condizioni e a piani di rigorosa stabilizzazione macroeconomica. Una funzione che il FMI mantiene ancora oggi, come dimostrano i recenti sviluppi collegati alla crisi dell’Euro e ai piani di salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo, che vedono il Fondo quale prestatore di prima istanza insieme all’UE.
Con la fine degli accordi di Bretton Woods, dunque, gli USA hanno deciso, in base al loro potere politico e militare, di imporre il proprio indebitamento come peculiare modello di sviluppo, il cui costo, però, veniva fatto pagare agli altri. Debito privato, debito pubblico e consumo sostenuti dal mix tra debito interno ed esterno, tuttavia con dei fondamentali macroeconomici alquanto deboli: l’economia reale, già allora, mostrava, infatti, i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
È da questo momento in poi che può analizzarsi la genesi dell’attuale crisi, che altro non è che un sintomo di esaurimento messo in moto dal capitale americano in quegli anni per continuare ad attrarre manodopera a basso costo privata, tra l’altro, della garanzia dei diritti sindacali minimi, oltreché risorse materiali dal resto del mondo in forma di merci. Sempre a credito.

20140221-163008.jpg

Lo scenario economico internazionale, peraltro, acuisce le proprie criticità sistemiche all’indomani della caduta del muro di Berlino e il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare degli Stati Uniti, che, imponendo l’acquisto dei loro titoli hanno altresì imposto il sostegno della loro crescita basata su indebitamento ed economia di guerra. Successivamente, nel corso degli anni ’90 si aprì una fase di competizione globale, basata non tanto e non solo sul modello importatore degli americani, quanto segnata dai tentativi dell’Europa di trovare i suoi spazi di affermazione economica, puntando a un ruolo internazionale, con una forte posizione di esportatore svolto dalla Germania. Nel contempo, lo stesso modello di economia basata sulle esportazioni viene realizzato dalla Cina, che, grazie ai suoi avanzi nella bilancia dei pagamenti, decide di diventare il maggior compratore del debito statunitense. Il modello tirava e fu così che le banche tedesche e lo Stato cinese iniziarono ad acquistare titoli USA e, in parte, anche di altri Stati membri dell’UE. Questi ultimi, d’altro canto, dovevano subire lo strapotere tedesco e con questo la costruzione dell’Unione Europea come nuovo polo imperialista che, pur mancando di grande forza interna politica e militare, imponeva una logica economico-finanziaria tedesca.
Ma, come è ovvio, un sistema basato sull’indebitamento non può reggere all’infinito. Capita sempre che, a un certo punto, qualcuno presenti il conto!
Siamo a cavallo del 2007-2008. Negli USA scoppia la crisi dei subprime: il crack viene subito evidenziato come crisi finanziaria dovuto allo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie, ma è solo la punta dell’iceberg. In realtà, più che finanziaria è una crisi dell’economia reale, dei meccanismi stessi dell’accumulazione: erano, cioè, gli stessi meccanismi del modo di produzione capitalistico che si erano ‘inceppati’ già nei primi anni ’70 e che nel 2008 dimostravano quanto quella crisi fosse divenuta ineluttabile, irreversibile e di carattere sistemico. Le privatizzazioni, l’attacco indiscriminato al costo del lavoro, al sistema del welfare e ai diritti, ma soprattutto la finanziarizzazione dell’economia finora hanno soltanto cercato di coprire una crisi dell’economia reale che si porta dietro il carattere della strutturalità e della sistemicità.
La competizione globale si inasprisce, così come pure il tentativo di centralizzare la ricchezza in poche mani, tentativo, peraltro, accompagnato da sempre più frequenti ‘guerre’: economico-finanziaria, commerciale e sociale. E infine da guerre militari per accaparrarsi nuove risorse. La caduta del regime di Gheddafi, per esempio, non è stata solo esportazione di democrazia, ma prima ancora è stata una conquista di matrice imperialista.
Contemporaneamente, la finanziarizzazione allargava il proprio giro, segnando l’arrivo dei Paesi che prima venivano denominati paesi in via di sviluppo, che ora divengono emergenti: i cosiddetti BRICS.
Sul fronte UE, invece, il modello esportatore tedesco, che aveva ormai sempre più bisogno di importatori, anche direttamente europei, porta la Germania ad investire l’avanzo che matura comprando titoli dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). A loro volta, questi Paesi sono costretti ad indebitarsi per rispondere alle regole dell’euro, soffocando le proprie economie e massacrando il mondo del lavoro per garantire che la “questione” dell’Euro rimanga funzionale allo sviluppo esportatore della Germania (e in seconda battuta agli interessi francesi). Gli stessi Stati Uniti hanno un indebitamento in parte sostenuto dalla Germania oltre che dalla Cina. La competizione, però, oggi è ancora più aspra, come si è già accennato, perché ci sono nuovi competitor e i BRICS rivendicano il loro spazio.
A questo punto gli USA che non hanno più la forza politica e militare per imporre al mondo il proprio modello di sviluppo fondato sul loro indebitamento, si vedono costretti a chiedere l’innalzamento del debito appunto perché sanno che fuori dai loro confini non troverebbero poi tanti soggetti disposti a finanziare il Paese come avveniva nella vigenza del precedente modello economico. E questa è la prova che il mondo a guida unipolare basato sull’egemonia statunitense è ormai tramontato.
Quello di spostare il problema del debito più avanti, cioè di tentare di far fronte al deficit, che è un dato congiunturale di flusso, trasformandolo in esposizione strutturale di stock, è un problema non solo americano, ma anche italiano. L’Italia sembra, infatti, entrata in una spirale perversa tra recessione e maggiori interessi sulla vendita dei titoli che dovrebbero servire a finanziare il debito (sic!). Il dato preoccupante, però, è che un esposizione strutturale di stock oggi sarà debito sovrano domani. Cioè il debito che penderà sulle future generazioni di lavoratori. E i meccanismi per far fronte al deficit, certe manovre ‘lacrime e sangue’ che ci vengono imposte per la prima volta, diventeranno la norma. Perché fintantoché si continuerà a far cassa a discapito dei lavoratori ogni manovra sarà lacrime e sangue. Ma se il debito continuerà ad essere finanziato con altro debito, con la vendita, cioè, di altri titoli, il circolo vizioso che s’è creato potrà spezzarsi con molta difficoltà. Perché diventerà il sistema. La parte di deficit che si capitalizza, quindi, è una mannaia per le generazioni del futuro.

20140221-163154.jpg

Ho parlato di spirale perversa, di circolo vizioso, ma, in realtà, il meccanismo descritto altro non è che semplice speculazione finanziaria. Eppure, all’indomani del crollo dei subprime americani ad essere messi sotto accusa non era stata proprio la finanza speculativa? La risposta è ovvia quanto evidente. Il mercato non conosce sazietà. “Guasto e’ il mondo, preda di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula mentre gli uomini vanno in rovina” recita la tomba del poeta inglese Oliver Goldsmith.
Guasto è il mondo, diceva Tony Judt nel testo che ha lasciato in eredità al l’umanità. Guasto perché il mercato è lasciato a se stesso, senza controlli o con meno controlli, perché il mercato che ha divorato se stesso ha ancor più necessità d’essere alimentato. Guasto perché gli appetiti personali sono diventati di colpo coraggiose virtù, la diseguaglianza s’è diffusa; la finanza, non più il lavoro e la produzione, è diventata la risorsa prima dell’economia. Guasto perché alla fine è arrivato il conto da pagare, salatissimo.
Il problema che si pone non è quello della crisi finanziaria ma di una crisi del modello di accumulazione: in crisi è quindi l’intero sistema capitalista. La finanza speculativa, che doveva essere quella in crisi, si sta, invece, riaffacciando in modo prepotente sfoderando armi diverse e combattendo su nuovi terreni. La speculazione finanziaria è ancora lì, come un avvoltoio, con quegli strumenti creativi con cui aggredisce chi non accetta le regole di dominio e che non effettua attacchi sempre più pesanti contro il salario diretto, indiretto e differito.
Sotto l’effetto di interessi particolari ed appetiti economici Gli ideali e la volontà di costruire una società coesa, prevalenti in Occidente nel dopoguerra, sono stati colpevolmente lasciati cadere. Per qualche decennio, hanno fatto da guida gli ideali keynesiani di un mercato temperato dall’intervento dello Stato. Le migliori leggi e le migliori politiche sociali adottate dall’America nel corso del XX secolo corrispondono in gran parte a ciò che gli europei chiamano socialdemocrazia. Ma poi qualcosa si è rotto: “Dovunque ti girassi” scrive Judt, “trovavi un economista o un ‘esperto’ che decantava le virtù della deregolamentazione, dello Stato minimo e delle tasse basse”. L’abbiamo sentita cantare anche noi questa canzone e ne stiamo sopportando i risultati.
Per uscire dal debito greco, per esempio, si stanno approntando nuovi strumenti di finanza creativa che dilazionano l’indebitamento e creano le premesse di nuovi collassi. La finanzia continua a svolgere il suo ruolo speculativo, in questo gioco al massacro ai danni delle casse pubbliche, dei salari e dello Stato sociale.
Il problema non è dunque la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ma il fatto – piuttosto – che per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale, anzi, ormai questo è diventato l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane.
In questo modo di fare, anzi di vivere, lo Stato è diventato un problema non una soluzione; le disuguaglianze sociali aumentano perché tutto si incentra sulla capacità e sulla furbizia di ciascun individuo, mentre i redditi tendono a concentrarsi nella cuspide della piramide in quanto lo sviluppo “sociale” del dopoguerra diventa “personale” per essere definitivamente abbandonato.
Il problema, pertanto, non è solo economico, ma altresì etico e politico. Secondo Hessel, le società civili, i giovani, in particolare, hanno il dovere morale di reagire di fronte a questa situazione. Di indignarsi! Secondo Judt, poi, avere idee nuove, per una società nuova, intendo, è fondamentale, in quanto è da qui che si parte per nuove correnti di pensiero, correnti che un giorno, magari, si trasformeranno in vere e proprie leggi.
Se la società è scomparsa a favore degli individui e se tutto ma proprio tutto verte sull’economia, ciò che riguarda l’etica – che implicitamente significa eguaglianza – diventa ogni giorno di più una cosa risibile. Ma questa cosa risibile è proprio il nostro punto da cui ripartire per riformare l’intera società. Oggi rivoluzione significa che dobbiamo tendere alla formazione di una “società nuova”. Bisogna, infatti, coniugare l’efficienza del capitalismo con la società, riducendo gli squilibri e permettendo allo Stato di rimanere un attore fondamentale all’interno del sistema sociale e del mercato.

20140221-163514.jpg

La politica, dunque, è la strada maestra, l’unica via percorribile affinché si possano regolamentare difendere i cittadini più deboli e vessati da questo sistema, cittadini che ogni giorno aumentano sempre di più. È, pertanto, indispensabile l’impegno politico e sociale di tutti i cittadini, che devono continuamente spronare e stimolare il dibattito pubblico, al fine di evitare che si spenga tra le ceneri del potere.
Se infatti ci si arrendesse, il gioco al massacro a cui stiamo assistendo continuerà finché il numero delle vittime non sarà superiore a quello dei salvati. E accadrà davvero se non ci riappropriamo di un’etica della politica e se, nel contempo, non smettiamo di pensarci come singoli individui, piuttosto che come membri di un’unica società.
Dal punto di vista pratico, per mettere un argine a questa situazione, per lo meno nel vecchio continente, bisogna innanzitutto abbandonare la via tracciata dalla Trojka. Infatti, la cosa assurda è che chi dovrebbe confezionare proposte in grado di tirarci fuori da questa situazione in realtà pensa agli interessi di una sola parte dei Paese di Eurolandia, i ricchi e i soliti noti, banchieri e finanzieri, come dimostrano le ultime leggi finanziarie e la legge di stabilità. Secondo Luciano Vasapollo, docente di Economia applicata a La Sapienza, una prima risposta può essere lanciare una campagna del mondo del lavoro non contro l’Europa, ma contro le regole del massacro sociale imposte dalle compatibilità economico-finanziarie dell’euro. La seconda questione che va posta all’ordine del giorno è rilanciare una serie di politiche in ordine ad un’efficiente nazionalizzazione e statalizzazione delle banche e dei settori strategici dell’economia. Il debito sovrano sta diventando un nodo nei Paesi deboli, perché con i soldi pubblici si sono finanziate le banche. Quindi la prima nazionalizzazione deve essere del sistema bancario. E poi è necessario porre immediatamente la soluzione del nodo dei settori strategici di energia, trasporti e comunicazioni che devono da subito ritornare in mano allo Stato. Quello che Vasapollo prospetta nel suo illuminante saggio del 2011 ‘Il risveglio dei maiali. PIIGS. Le proposte di CESTES-PROTEO’ sembrerebbe un ritorno agli anni 50-60, quando si creò in Italia una forte economia mista, con un welfare vero e un futuro per i giovani.
Tuttavia, le tesi di Vasapollo sono in linea con quelle di altri economisti critici ed eterodossi, che, nelle loro varie componenti, stanno cercando di trovare un accordo su un programma minimo di controtendenza da proporre e insieme praticare con il ruolo centrale del sindacalismo conflittuale di classe. In ogni caso, se da un punto di vista logico, esistono, infatti, varie alternative possibili alla attuale competizione globale, fino alla maggiore determinazione del superamento del modo di produzione capitalista, d’altro canto ognuna presenta distinti gradi di probabilità in funzione di ragioni tecnico-economiche o politico-sociali. Ciò che più rileva, comunque, è che qualsiasi proposta attuabile dovrà “fare i conti”, in primo luogo, con la tecnologia. Il cambio tecnologico può rappresentare un progresso tecnico e sociale solo se è frutto di una decisione collettiva dei lavoratori, maggioritaria, responsabile, aperta al dialogo, negoziata e contrattata. Dall’epoca “luddista” – l’epoca di quegli operai che distruggevano le macchine che andavano ormai a prendere il loro posto nelle fabbriche tessili -, i sindacati dei lavoratori hanno rinunciato a controllare, a regolare e a partecipare nel senso e nell’orientamento del cambio tecnico. È stata una decisione che si è lasciata sempre in mano agli imprenditori e al capitale. Invertire questa tendenza secolare implica intendere in altra maniera lo sviluppo democratico, comprendere che il dibattito sulla tecnologia, che è in fondo parte del dibattito tra marxisti, esige che tra i lavoratori vi sia una cultura tecnologica – che oggi non c’è -, delle strutture che servano a canalizzare e organizzare il dibattito sul cambio tecnico. L’attuale processo di privatizzazione delle risorse, per esempio, verrebbe superato proprio da questa nuova cultura tecnologica. In secondo luogo, anche l’economista Vasapollo dichiara la necessità etica di un cambiamento radicale di tipo socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune): un cambio che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica. La politica, infatti, è sempre stata al servizio dell’economia, quantomeno dal XIX secolo. Il discorso politico occultava precedentemente questi interessi nell’essenza dell’economia; ma nel XX secolo c’è stata una svolta, il discorso politico è stato colonizzato dagli interessi economici, tanto che oggi sembra che parlare di politica sia esclusivamente parlare di economia, di spesa pubblica, di interessi, di imposte, di marche legali, di legislazione del lavoro o legislazione commerciale. Questo è logico solamente in un sistema che subordina lo sviluppo sociale agli interessi di mercato.

20140221-163650.jpg

Le proposte concrete e immediate sono quindi quelle offerte da nazionalizzazioni, investimenti in edilizia pubblica, lavoro e salario pieno e a totalità di diritti veri, di uscita dall’euro (o quantomeno di creazione di un euro debole nell’area mediterranea e in Irlanda), ma più importante di tutte è la proposta di azzeramento del debito. Questi sono i primi punti qualificanti il programma minimo di controtendenza.
Il problema è che l’economia finanziaria non crea risorse perché sul medio periodo è un gioco a somma zero, quindi in questo ballo mascherato delle celebrità , cioè dei potentati finanziari devono entrarci gli Stati, i lavoratori, in ultima istanza, su cui si scarica tutta la durezza e drammaticità della crisi. Per esempio, in Grecia non bisogna dilazionare ma dare un taglio netto. E del resto è quanto è già stato fatto in Sud America, ad esempio quando l’Argentina girò le spalle al Fondo Monetario Internazionale. Se si entra nella logica della diminuzione del tasso di interesse e di allungamento del debito, il ricatto diventa continuo e l’economia reale perde completamente i parametri di sostenibilità sociale e ambientale. Per questo, un’alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia. L’Europa deve costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito in piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi. Solo così l’autonomia di classe potrà assumere un vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da quel sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione che il capitale sia stato in grado di conoscere. E in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi, ma nella crisi deve trovare gli elementi del rafforzamento della sua soggettività politica. Ciò vuol dire che non è accettabile alcuna gestione della crisi da parte dei lavoratori, né è ammissibile un nuovo sistema compatibile con la sopravvivenza del capitalismo: l’indipendenza del mondo del lavoro dal cosiddetto ‘sviluppismo’ capitalista significa in primis non collaborare ma offrire un proprio programma minimo di classe al di là delle compatibilità del capitale, esprimendo, così, tutta la propria autonomia nella conflittualità. Entrare nel gioco significherebbe piuttosto morire nel gioco! Sono sempre i più deboli che soccombono: prosperano, cioè, i fondi pensione e di investimento e perdono i lavoratori con la privazione di pensioni e salari, del welfare e dei diritti sociali.

20140221-163811.jpg

Subordinare l’economia alla politica sarebbe quindi un’alternativa alla mondializzazione capitalista realmente esistente. Non è, in fondo, altra cosa del vecchio, ma non antico né superato, programma delle organizzazioni internazionali di classe: la subordinazione del capitale al lavoro, della produzione all’essere umano.

BlogNomos

SEGUICI ANCHE SU FACEBOOK!

20140220-081248.jpg

CLICCA QUI PER ESSERE REINDIRIZZATO SULLA NOSTRA PAGINA FACEBOOK

I chiarimenti del Ministero del Lavoro sulle corrette sanzioni da applicare in caso di lavoro straordinario “fuori busta”

Immagine

La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in risposta al un quesito della DRL Veneto, Prot. nr. 2642 del 06-022014, ha chiarito che, nelle ordinanze-ingiunzione concernenti la violazione del datore di lavoro di retribuire un lavoratore che ha effettuato lo straordinario senza che il valore venga iscritto nel Libro Unico del Lavoro (c.d. “fuori busta“) deve essere applicata, prioritariamente, la sanzione prevista dagli artt. 1 e 3 della Legge, nr. 4/1953. Tale sanzione prevedeobbligo in capo ai datori di lavoro di consegnare, all’atto della corresponsione della retribuzione, ai lavoratori dipendenti, con esclusione dei dirigenti, un prospetto di paga in cui devono essere indicati il nome, cognome, e qualifica professionale del lavoratore, il periodo cui la retribuzione si riferisce, gli assegni famigliari e tutti gli altri elementi che, comunque, compongono detta retribuzione, nonché, distintamente, le singole trattenute ed il prospetto di paga deve essere consegnato al lavoratore nel momento stesso in cui gli viene consegnata la retribuzione.

Secondo l’indicazione ministeriale, tale norma prevale su quella prevista dall’art. 5, comma 5, D.Lgs. nr. 66/2003, il quale statuisce che il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dai contratti collettivi di lavoro.

In conclusione, in presenza di lavoro straordinario pagatofuori busta“, il Ministero del Lavoro ritiene che trovino applicazione le sanzioni previste dalla Legge, nr. 4/1953 e, qualora gli importi corrisposti siano inferiori a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, anche la sanzione di cui al D.Lgs., nr. 66/2003.

BlogNomos

SEGUICI SULLA NOSTRA PAGINA FACEBOOK!

20140220-061352.jpg

CLICCA QUI PER ESSERE REINDIRIZZATO SULLA NOSTRA PAGINA FACEBOOK

Che cos’è il Documento di Valutazione dei Rischi?

20140219-143324.jpg

L’aumento degli infortuni sul lavoro ha fatto emergere l’esigenza di predisporre misure di sicurezza via via maggiori in ordine alla tutela della salute nei luoghi di lavoro.
Il testo unico per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/08 e ss.mm.ii.) ha previsto alcune provvedimenti finalizzati alla tutela della salute dei lavoratori, come per esempio i corsi di formazione per i lavoratori (Accordo Stato – Regioni), il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), la sorveglianza sanitaria ect ect.

In particolare, il DVR rappresenta il punto di partenza nella gestione della sicurezza di ogni azienda (privata e pubblica). In esso il datore di lavoro deve procedere all’individuazione di tutti i fattori di rischio esistenti in azienda e delle loro reciproche interazioni, nonché alla valutazione della loro entità. Egli deve inoltre individuare le misure di prevenzione e pianificarne l’attuazione, il miglioramento ed il controllo al fine di verificarne l’efficacia e l’efficienza.
La valutazione è effettuata in collaborazione con il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e con il Medico Competente (nei casi in cui è obbligatoria la sorveglianza sanitaria), previa consultazione del Rappresentante per la Sicurezza dei Lavoratori (RLS).
Al termine della valutazione viene redatto un apposito documento, che verrà poi conservato presso l’azienda, e che costituisce il punto di riferimento per tutti i soggetti che intervengono nelle attività rivolte alla sicurezza in azienda.
Il Documento di Valutazione dei Rischi è elemento fondamentale per garantire la sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro e per la tutela della salute dei lavoratori.
Per redigere il DVR bisogna preventivamente effettuare una valutazione dei rischi: a questa si procede con l’analisi dei luoghi in cui si svolge l’attività dell’azienda ed effettuando osservazioni, analisi e misurazioni per individuare i pericoli presenti e per determinare l’entità con cui incidono sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori. Il DVR è, quindi, quella relazione scritta circa l’attività di valutazione, arricchita da un piano di miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza.
Ma il Documento Valutazione Rischi non individua solamente la rappresentazione dello stato dell’azienda dal punto di vista della sicurezza: è, infatti, anche una guida che indica a tutti gli operatori preposti alla sicurezza all’interno dell’azienda gli interventi da attuare per raggiungere un miglioramento significativo.
In carenza della valutazione dei rischi e dell’adozione del documento in collaborazione con l’RSPP e il MC, il datore di lavoro è sanzionato con l’arresto da 3 a 6 mesi o ammenda da € 2.500 a € 6.400. Tuttavia, la sostituzione dell’arresto con la sanzione pecuniaria non è consentita qualora la violazione abbia avuto un contributo causale nel verificarsi di un infortunio da cui sia derivata la morte o una lesione con prognosi superiore ai 40 giorni.

Redazione BlogNomos