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La natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove: così il Tar Campania boccia la delocalizzazione delle imprese.

di Michele De Sanctis

A causa della crisi, di una certa stasi del mercato interno e della poca attrattività rispetto ai competitor stranieri – specie quelli al di fuori dell’Eurozona – oltreché per un eccessivo costo del lavoro a fronte di una pesante pressione fiscale, sono stati molti gli imprenditori italiani che negli ultimi tempi hanno tentato di far fronte alla congiuntura economica delocalizzando la propria azienda. Per delocalizzazione si intende il trasferimento della produzione di beni e servizi in altri Paesi, solitamente in via di sviluppo o in transizione. In senso stretto, ci si riferisce ad uno spostamento della produzione da imprese poste sul territorio di un determinato Paese ad altre localizzate all’estero. La produzione ottenuta in seguito a questo spostamento dell’attività non è venduta direttamente sul mercato, ma viene acquisita dall’impresa che opera nel Paese di origine per essere poi venduta sotto il proprio marchio. Dal punto di vista economico e sociale, questa pratica è stata – ed è tuttora – oggetto di un aspro dibattito tra chi la considera un importante strumento competitivo e chi, invece, ne evidenzia gli aspetti critici. Il timore principale di alcuni analisti è, infatti, che la delocalizzazione possa impoverire l’economia nazionale, con perdita di posti di lavoro e valore aggiunto. Sotto un profilo sociale, va, poi, considerato che l’effetto immediato della delocalizzazione di un’azienda è il dramma della disoccupazione per chi viene licenziato e dell’inoccupazione per chi nel mercato del lavoro, in assenza di siti produttivi, proprio non riesce ad entrarci.

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Da un punto di vista giuridico, rilevano diversi aspetti di notevole impatto non solo sul diritto privato e commerciale, ma con talune ripercussioni anche in riferimento al diritto pubblico e amministrativo. Si tratta di aspetti per lo più legati alla libera circolazione delle merci e alla regolazione dei mercati e della concorrenza, la cui disciplina è fortemente influenzata dal diritto comunitario. Proprio in relazione al tema della concorrenza tra imprese europee e delocalizzate, si è pronunciato di recente il Tar Campania, con la sentenza n. 4695/2014 (depositata in data 3 settembre 2014).

Questi i fatti: un’impresa italiana, delocalizzata in Cina, aveva risposto a un bando di gara avente ad oggetto “l’affidamento della fornitura di materiale acquedottistico”. L’azienda in questione, che in un primo momento risultava aggiudicatrice della gara, veniva successivamente esclusa. In seguito all’intervenuta revoca dell’aggiudicazione, ricorreva dinanzi al G.A., impugnando gli atti presupposti e consequenziali della procedura d’appalto. Da questi si evinceva che l’esclusione della ricorrente era stata disposta in virtù della dichiarazione di produrre la totalità dei materiali oggetto dell’appalto nella Repubblica Popolare Cinese, senza, peraltro, indicare né la sede di produzione né alcun sito produttivo all’interno della Comunità Europea. La norma che rileva in tale circostanza è l’art. 234, co. 2, d.lgs. 163/2006, che prescrive un limite in capo ai concorrenti provenienti da Paesi cd. terzi: parte dei prodotti originari di questi operatori non deve, infatti, superare il 50% del valore totale dei prodotti che compongono l’offerta di gara.

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Nel rigettare il ricorso, il Tar ha evidenziato come l’art. 234 del Codice degli Appalti definisca in via prioritaria il concetto di Paese terzo, quale Paese estraneo alla Comunità Europea, con cui gli Stati membri non abbiano concluso convenzioni e accordi, multilaterali o bilaterali, tali che assicurino un accesso comparabile ed effettivo delle imprese della Comunità alle gare indette da questi Paesi. La ‘ratio’ di questa previsione (che pone una disciplina speciale, circoscritta ai soli appalti di forniture), risiede nell’esigenza di garantire che l’apertura del mercato degli appalti comunitari a tali Paesi terzi avvenga nel rispetto della condizione di reciprocità, utilizzando quest’ultima come mezzo di discrimine ai fini dell’accesso al mercato unico europeo da parte di operatori esterni all’UE. L’obiettivo è quello di garantire a tutti gli operatori economici un trattamento uniforme: l’ingresso di nuovi soggetti alle commesse pubbliche viene, pertanto contemperato con l’esigenza di assicurare le condizioni minime di tutela della ‘par condicio’ per le imprese comunitarie che partecipano alle procedure di gara. Ciò spiega l’introduzione, su impulso comunitario, di una disciplina speciale che si fonda sulla stipulazione o meno tra CE e i suddetti Paesi terzi, di accordi che garantiscano un accesso comparabile ed effettivo delle imprese comunitarie agli appalti indetti anche in tali Paesi.

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A nulla è servita la tesi difensiva della ricorrente, secondo cui la Repubblica Popolare Cinese avrebbe in passato sottoscritto con l’UE determinati accordi internazionali. Il G.A., di contro, rilevava che tali accordi sono carenti del requisito della reciprocità richiesto dalla norma “Non risulta, infatti, che tale Repubblica abbia concluso un altro accordo internazionale che possa garantire agli operatori economici della CE un effettivo accesso al settore degli appalti di quel Paese con piena reciprocità e dignità giuridica”. Il Tar ha, quindi, affermato che solo con l’adesione al GPA – General Procurement Agreement (accordo pluriennale sugli appalti pubblici siglato nell’ambito dell’OMC) è consentita l’apertura del proprio mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e dignità giuridica nei confronti delle imprese UE, come previsto dall’art. 234 del Codice degli Appalti (cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 2.07.2007, n. 5896).

Nella stessa pronuncia, oltreché chiarire la definizione di Paese terzo, rilevante sotto il profilo soggettivo, il Tribunale Amministrativo campano, si è poi concentrato sul profilo oggettivo dei prodotti. Fondamentale, infatti, è valutare l’origine delle produzioni che compongono l’offerta. L’accertamento in parola si basa sul Codice Doganale (Regolamento CEE n. 2913/92 del 12 ottobre 1992), il quale, all’art. 23, stabilisce che “sono originarie di un Paese le merci interamente ottenute in tale Paese” e, ancora, all’art. 24, dispone che “una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

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Il G.A. ha, infine, affermato che con l’art. 234 d.lgs 163/2006 ss.mm.ii (che, peraltro, recepisce il contenuto delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), il Legislatore ha istituito un sistema di preferenza comunitario basato non tanto sulla nazionalità degli offerenti, determinata dal luogo in cui è ubicata la sede legale e amministrativa (nel caso di specie, italiana ma con delocalizzazione integrale della produzione), quanto piuttosto sull’origine dei prodotti. Pertanto, al fine di determinare il campo di applicazione della norma, ciò che rileva è il luogo di produzione del bene e, di conseguenza, la sede dello stabilimento in cui esso viene realizzato, che, di per sé, può non coincidere con il luogo in cui è ubicata la sede legale o amministrativa dell’impresa (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. IV, 27.03.2014, n. 1848/2014; Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 15.02.2010, n. 131).

Al di là del caso in esame, si evidenzia che l’art. 234 del Codice degli Appalti non solo prevede al comma 2 la possibilità per le stazioni appaltanti di respingere un’offerta contenente, per oltre la metà del proprio valore, prodotti originari di Paesi terzi. La norma prevede, altresì, un vero e proprio obbligo di operare in tal senso, quando, come disposto dal successivo comma 3, la differenza di prezzo tra un’offerta con le caratteristiche sopra descritte e una che non le presenti sia inferiore al 3%. Tali criteri vengono, peraltro, ribaditi anche dall’AVCP (ora confluita nell’ANAC) nel ‘Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici’, nella sezione dedicata all’accesso dei Paesi terzi al mercato UE.

In definitiva, la natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove, anche se la produzione viene effettuata in proprio da soggetto italiano, essendo necessario scindere il profilo soggettivo del produttore da quello oggettivo dell’origine del prodotto, cui fa riferimento l’art. 234 del d.lgs. 163/2006.

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LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE IN SINTESI.

È stato pubblicato in G.U.R.I. dello scorso 12 settembre il d.l. 123/2014, con cui il Governo intende smaltire l’arretrato degli Uffici Giudiziari italiani. A distanza di due settimane dal via libera del Consiglio dei Ministri, è arrivato, dunque, il primo testo della riforma della giustizia civile, sotto forma di decreto legge, che dovrà adesso seguire il normale iter parlamentare di conversione. In realtà, il decreto in questione costituisce solo una parte della riforma della giustizia voluta dal Governo Renzi. L’intero pacchetto prevede, infatti, ulteriori interventi, alcuni regolati con decreto legge e altri con disegno di legge delega, in materia penale, oltreché una serie di disposizioni relative all’ordinamento giudiziario. Analizziamo in questa sede i punti principali degli interventi sul processo civile previsti dal d.l. 123/2014.

di Michele De Sanctis

POSSIBILITÀ DI SPOSTARE IL PROCEDIMENTO DAL CONTENZIOSO CIVILE A QUELLO ARBITRALE. Nelle cause civili pendenti sia in primo che secondo grado, le parti potranno richiedere congiuntamente di promuovere un procedimento arbitrale (già regolato dalle disposizioni ordinarie contenute nel codice di procedura civile ed espressamente richiamate dal decreto). Facoltà esclusa, tuttavia, per due materie di una certa rilevanza: le liti sui diritti indisponibili e le cause del lavoro. Quanto agli effetti, il lodo arbitrale avrà la stessa forza di una sentenza.

PROCEDURA NEGOZIALE ASSISTITA. Si tratta di una procedura di conciliazione tra le parti effettuata con l’assistenza di un avvocato e volta al raggiungimento di un accordo che eviti il giudizio, consentendo, peraltro, una rapida formazione di un titolo esecutivo stragiudiziale. La relativa convenzione dovrà avere forma scritta perché sia efficace. Non si tratta solo di una facoltà, poiché in taluni casi (liti in materia di risarcimento danni da circolazione stradale e nautica o nelle richieste di pagamento fino a € 50.000) il preventivo tentativo di conciliazione viene previsto come condizione di procedibilità, senza cui non sarà, pertanto, possibile adire il giudice.

NEGOZIAZIONE ASSISTITA NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO. La procedura di conciliazione appena illustrata ha una forte ricaduta nel diritto di famiglia, dal momento che, anche in tema di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio (nei casi di avvenuta separazione personale), di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, il decreto prevede la facoltà di ricorrere alla negoziazione, assistita da un avvocato o meno. I coniugi, infatti, oltre ad avere la facoltà di ricorrere alla procedura di conciliazione co-gestita con l’assistenza di un legale, potranno, in alternativa, recarsi semplicemente al cospetto di un ufficiale dello stato civile per formalizzare l’intesa raggiunta. Si tratta, dunque, di un’importante semplificazione dei procedimenti di separazione e divorzio, che renderà l’Italia uno dei Paesi europei, in cui lo scioglimento del matrimonio sarà più rapido.

DICHIARAZIONI RESE AL DIFENSORE. La riforma prevede la possibilità di raccogliere direttamente da terzi dichiarazioni utili sul procedimento giudiziario in corso per accelerare e razionalizzare la fase istruttoria. Il legale potrà, infatti, sentire testimoni al di fuori del processo. L’intervento in parola risulta, peraltro, complementare all’ampio spazio concesso dalla riforma alla risoluzione stragiudiziale delle controversie. In pratica, si introduce una specifica norma mediante cui si realizza la tipizzazione delle dichiarazioni scritte rese al difensore, quali fonti di prova che la parte può produrre in giudizio sui fatti rilevanti che ha l’onere di provare.

PASSAGGIO DAL RITO ORDINARIO AL RITO SOMMARIO. Nelle cause meno complesse e per la cui decisione è idonea un’istruttoria semplice, si affida al giudice unico, nelle materie di sua competenza, la possibilità di convertire d’ufficio il procedimento dal rito ordinario di cognizione al rito sommario, con ordinanza non impugnabile – e previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta.

RIDUZIONE DEI TERMINI DI SOSPENSIONE FERIALE DEI PROCEDIMENTI. Nonostante l’opposizione ricevuta dalla magistratura sul punto, il decreto stabilisce che il periodo interlocutorio di sospensione feriale nei Tribunali sia compreso dal 6 agosto al 31 agosto (anziché dal 1 agosto al 15 settembre). Mentre si prevede la riduzione delle ferie dei magistrati da 45 a 30 giorni.

MODIFICA AL REGIME DELLA COMPENSAZIONE DELLE SPESE E INTERESSI SULLE SPESE DI LITE. Chi perde è tenuto a rimborsare le spese del processo. Il decreto se da una parte tenta di scoraggiare le cd. liti temerarie, dall’altra appronta una limitazione a certe condotte processuali meramente dilatorie. Nel primo caso, riduce i margini di discrezionalità delle Autorità Giudiziarie in ordine alla compensazione delle spese di lite, di cui, nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica si continuava a fare larghissimo uso, specie se una delle parti in causa era un’Amministrazione Pubblica. La soccombenza, adesso, assume un suo naturale e rilevante costo, incrementato, peraltro, dall’attribuzione di un tasso d’interesse nel corso dei procedimenti di cognizione pari a quello per i ritardi nelle transazioni commerciali. Quest’ultima disposizione dovrebbe, peraltro, disincentivare le pratiche dilatorie.

ESECUZIONE FORZATA. In fase esecutiva si consente l’accesso telematico degli Uffici Giudiziari alle banche dati delle P.A. per individuare con esattezza l’ammontare dei beni aggredibili del debitore soccombente in giudizio. L’intervento in materia di ricerca dei beni da pignorare è finalizzato a migliorare l’efficienza dei procedimenti di esecuzione mobiliare presso il debitore e presso terzi in linea con i sistemi ordinamentali di altri Paesi europei. La via seguita è evidentemente quella di implementare i poteri di ricerca dei beni da parte dell’Ufficiale Giudiziario, colmando così la ‘asimmetria informativa’ tra creditore e debitore in riferimento agli asset patrimoniali di quest’ultimo. Al creditore spetta trasmettere in Cancelleria per via telematica la nota di iscrizione a ruolo, unitamente all’atto di pignoramento, al titolo esecutivo e al precetto. Ulteriori provvedimenti in materia di esecuzione sono l’eliminazione dei casi in cui la dichiarazione del terzo debitore sia resa in udienza e l’obbligo di ordinare la liberazione dell’immobile con la pronuncia di ordinanza di vendita.

COMPETENZA TERRITORIALE DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE. Il decreto stabilisce che, per tutti i soggetti diversi dalle Pubbliche Amministrazioni, la competenza per i procedimenti di espropriazione forzata di crediti verrà radicata presso il Tribunale del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore.

INFRUTTUOSITÀ DELL’ESECUZIONE. Viene, infine, introdotta una fattispecie di chiusura anticipata del processo esecutivo per infruttuosità (art. 164-bis disp. att. c.p.c.) nel caso in cui risulti che le pretese dei creditori non possano più conseguire un ragionevole soddisfacimento, tenuto altresì conto dei costi necessari ai fini della prosecuzione della procedura di esecuzione forzata, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo.

Clicca qui per leggere il testo del Decreto legge

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MOLESTIE SU FACEBOOK: PER LA CASSAZIONE IL SOCIAL NETWORK VA CONSIDERATO ‘LUOGO APERTO AL PUBBLICO’.

di Michele De Sanctis

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con Sentenza n. 37596 ha affermato che, ai fini della configurabilità del reato di molestie o disturbo alle persone, di cui all’art. 660 c.p., la piattaforma sociale Facebook va considerata alla stregua di un luogo aperto al pubblico, in quanto luogo ‘virtuale’ aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete.

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Pertanto, l’invio di messaggi molesti mediante l’uso di Facebook integra la fattispecie descritta dall’art. 660 c.p., che sanziona «chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo». Il contravventore è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516.

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Nel caso di specie, vittima del reato in parola era una donna, all’epoca dei fatti, nel 2008, caporedattore di una testata locale toscana, che aveva ricevuto ripetuti e continui apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale sia presso gli uffici del quotidiano per cui lavorava, che sul proprio account Facebook. Sul social, il molestatore aveva, peraltro, celato la propria identità con un falso profilo.

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In un primo momento il Tribunale di Livorno aveva assolto l’imputato con la formula “il fatto non sussiste” quanto ai fatti commessi presso gli uffici del giornale, escludendo che una redazione fosse luogo pubblico, e con la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato” quanto ai fatti «commessi utilizzando l’indirizzo di posta elettronica». Tuttavia, la Corte di Appello di Firenze, riformando la decisione di primo grado, rilevava come la redazione di un quotidiano fosse paragonabile a un luogo aperto al pubblico, in quanto frequentato dai dipendenti del giornale stesso oltreché da eventuali soggetti estranei che ivi portano notizie o chiedono la pubblicazione di annunci. Quanto poi alla condotta realizzata mediante i messaggi inviati sotto pseudonimo tramite la chat di Facebook al profilo della vittima, il Giudice di II grado, ritenendo che tale comportamento integrasse il reato di cui all’art. 660 c.p., evidenziava come il profilo della vittima sul social network costituisse una community aperta «evidentemente accessibile a chiunque».

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L’imputato, a questo punto, ricorreva in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza di secondo grado per violazione dell’art. 660 c.p., con riguardo alla nozione di luogo aperto al pubblico accolta in sede di gravame. In particolare, quanto alla condotta posta in essere su Facebook, rilevava l’imputato che l’invio dei messaggi era avvenuto tramite la chat privata del social network e non sul diario e che ciò escludesse l’analogia con altri luoghi aperti al pubblico. In verità, l’invio dei messaggi tramite la chat di Facebook lascerebbe, piuttosto, propendere per l’assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica (l’altra modalità di realizzazione delle molestie di cui all’art 660 c.p.), ma resterebbero dei profili da chiarire per quanto concerne i principi di tassatività e legalità. Tuttavia, poiché il gravame aveva liquidato il caso come molestia in luogo aperto al pubblico, secondo gli Ermellini il ricorso non risulta manifestamente infondato, per difetto della sentenza di II grado nella sua base fattuale, laddove si fa riferimento all’invio di messaggi su un profilo evidentemente accessibile a tutti, trascurando, invece, la fattispecie concreta dell’invio tramite chat privata.

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A prescindere dalle risultanze del caso di specie, ciò che più rileva e che merita di essere commentato, ancorché non si tratti di una decisione delle Sezioni Unite, è tuttavia l’estensione da parte dei Giudici della I Sez. della Cassazione del concetto di luogo aperto al pubblico in riferimento al social network. Infatti, la Corte, ritiene «innegabile che la piattaforma sociale Facebook (disponibile in oltre 70 lingue, che già nel 2008 contava più di 100 milioni di utenti) rappresenti una sorta di piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare. Ma che la lettera della legge non impedisce di escludere dalla nozione di luogo e che, a fronte della rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunità sociale, la sua ratio impone, anzi, di considerare».

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In definitiva, la molestia sul diario di Facebook integra la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (lo stesso potrebbe, forse, dirsi anche per l’invio di messaggi molesti via Facebook, se fosse possibile assimilarli alla molestia telefonica). E quindi, nel caso di specie, il giudice di rinvio avrebbe dovuto riformare il proprio giudizio, non censurando la molestia nella chat di Facebook come se fosse stata fatta in luogo pubblico, perché è solo la bacheca ad essere assimilata a un’agorà, non anche la mailbox. Avrebbe, perché la sentenza di appello per il caso finora illustrato è stata cassata, ma senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato contravvenzionale contestato.

Cassazione Penale, Sez. I, 12 settembre 2014 (ud. 11 luglio 2014), n. 37596 Presidente Chieffi, Relatore Di Tommasi

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AMMORTIZZATORI SOCIALI: ECCO I NUOVI CRITERI DI CONCESSIONE.

Con Circolare n. 19 dello scorso 11 settembre 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha chiarito quali siano i nuovi criteri di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga.

di Michele De Sanctis

Emanata a firma del neo Direttore Generale della Direzione Ammortizzatori Sociali, Ugo Menziani, la Circ. 19/2014 fornisce delucidazioni sul contenuto del Decreto Interministeriale n. 83473 datato 01/08/2014, inerente ai criteri di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga alla normativa vigente: fattispecie contemplate, termini di presentazione delle istanze, causali di concessione, limiti di durata, tipologie di datori di lavoro e lavoratori beneficiari.

Tra le principali novità previste dal Legislatore, si chiarisce che la diversa durata dei trattamenti (che, per tutte le imprese aventi diritto, si riducono dagli 11 mesi del 2014 ai 5 mesi previsti per il 2015) potrà ritenersi applicabile solo in seguito alla stipula di accordi successivi alla data di pubblicazione del Decreto in questione, vale a dire dopo il 04/08/2014.

Si tratta, comunque, di disposizioni che – lo ricordiamo – resteranno in vigore solo fino alla fine del 2016, quando interverrà la relativa abrogazione ad opera della riforma Fornero.

La circolare chiarisce anche l’obbligo, posto a carico dell’INPS dall’art 5 del Decreto Interministeriale in parola, relativo al “monitoraggio” mensile che dovrà essere effettuato sulle domande presentate, le prestazioni corrisposte e i flussi finanziari correnti e prevedibili (il cd. tiraggio). In particolare, la nota ministeriale specifica che i dati raccolti dall’Istituto saranno contestualmente comunicati al Ministero del Lavoro – Direzione Generale Ammortizzatori Sociali e alla Direzione Generale Tutela Condizioni di Lavoro – e al MEF, oltreché alla Regione o Provincia Autonoma interessate, limitatamente alle prestazioni riconosciute per il tramite delle stesse.

Quanto al campo di applicazione, la circolare in argomento ribadisce che gli ammortizzatori in deroga riguardano solo le imprese di cui all’articolo 2082 c.c.; restano, quindi, esclusi gli studi professionali e, di fatto, tutti gli altri datori di lavoro non esercenti attività di impresa. Tuttavia, rientrano nel novero dei destinatari i “piccoli imprenditori”, quali gli artigiani, i piccoli commercianti ed i coltivatori diretti.

I lavoratori beneficiari sono, peraltro, quei lavoratori subordinati, operai, impiegati, quadri, apprendisti, lavoratori somministrati, che siano in possesso di un’anzianità lavorativa di almeno 12 mesi, svolta presso l’impresa richiedente il trattamento. Risultano, dunque, esclusi, dall’intervento in deroga, i lavoratori per i quali sussistono i requisiti per accedere alle diverse prestazioni, di analoga finalità, previste dalla normativa vigente: trattamenti di mobilità ordinaria, indennità Aspi e miniAspi, indennità di disoccupazione agricola, Cig ordinaria e Fondi di Solidarietà.

CLICCA QUI PER VISUALIZZARE LA CIRC. 19/2014

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IPOTECHE: ISCRIZIONE NONOSTANTE SGRAVIO FISCALE, CASSAZIONE CONDANNA LA SOCIETÀ DI RISCOSSIONE.

di Michele De Sanctis

Società di riscossione condannata a pagare le spese di giudizio per aver iscritto un’ipoteca nonostante l’intervenuto sgravio del credito da parte del Fisco, senza quindi una preventiva verifica della pretesa tributaria.

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È quanto hanno stabilito i Giudici di Piazza Cavour con ordinanza n. 16948 dello scorso 24 luglio, respingendo il ricorso promosso da Serit Sicilia SpA per la cassazione di una sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, che, non accogliendo l’appello della stessa Serit avverso la decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Messina, aveva attribuito la responsabilità della lite alla società di riscossione, anche ai fini della regolazione delle spese. Il primo motivo di ricorso denunciava il vizio di omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della circostanza che lo sgravio fosse stato comunicato all’agente della riscossione con flusso telematico successivo alla data di iscrizione dell’ipoteca. Il secondo motivo denunciava, invece, la violazione dell’art. 15, comma 2, L. n. 59/97, censurando la sentenza gravata per aver trascurato il disposto, ivi contenuto, in base a cui gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e da privati con strumenti informatici o telematici,nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge.

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Tuttavia, la Cassazione, non ha ritenuto viziata la formulazione del primo e secondo grado di giudizio, secondo cui, dal momento che lo sgravio è un atto telematico, il concessionario, prima di procedere all’iscrizione ipotecaria, avrebbe dovuto controllarne la tempestività mediante l’uso del terminale allo stesso accessibile. Secondo gli Ermellini tale affermazione si articola in un implicito giudizio di fatto, per il quale l’agente di riscossione poteva conoscere lo sgravio utilizzando il terminale a sua disposizione. Situazione sufficiente, questa, ad escludere la non conoscenza dell’avvenuto sgravio ad opera dell’Agenzia delle Entrate, indipendentemente dall’eventuale ricezione per flusso telematico di idonea comunicazione ex art. 15, co. 2, L. 59/97.

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Per questi motivi, il ricorso della società di riscossione viene rigettato, con conseguente condanna a rifondere al contribuente le spese del giudizio di legittimità.

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SANITÀ. LA SVOLTA DIGITALE E LE AZIONI DI SISTEMA PER LO SVILUPPO DELL’E-HEALTH.

di Michele De Sanctis

Il Patto per la Sanità Digitale, contenuto all’interno del nuovo Patto per la Salute 2014-2016, si propone la riorganizzazione della rete assistenziale del Servizio Sanitario Nazionale, al fine di conciliare la crescente domanda di salute con i vincoli di bilancio esistenti, ottimizzando, così, il rapporto tra costi e risultati ottenuti, in termini di prestazioni rese. In linea con il più ampio disegno di informatizzazione della Pubblica Amministrazione, l’innovazione digitale in ambito sanitario può svolgere un ruolo chiave come fattore abilitante e, in taluni casi, determinante per la realizzazione di una nuova rete organizzativa. Se concretamente attuato, dunque, il Patto potrà diventare punto di svolta decisivo del SSN, sia in termini di sostenibilità sia per un’offerta di prestazioni più efficiente ed efficace. Si tratta, pertanto, di un’azione formale necessaria per riuscire a compiere un fondamentale passo avanti e, più in generale, di una spinta necessaria all’innovazione del Paese, tanto più importante in un momento particolare come quello del semestre italiano di Presidenza UE.

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Se, da una parte, il Patto costituisce un cambiamento di prospettiva e di approccio alla sanità, dall’altra è pur vero che, affinché sia produttivo di effetti concreti, è necessario che l’innovazione digitale venga sdoganata da un ambito prettamente tecnologico, per farsi strumento strategico di governo per le Aziende Sanitarie. Il canale telematico, perciò, deve divenire la prassi nei consueti rapporti col cittadino e la digitalizzazione della documentazione sanitaria, che, peraltro, comporterà una cospicua opera di reingegnerizzazione di molte strutture territoriali, dovrà estendersi in tutta Italia, o continueremo a parlare delle best practices di alcune isolate realtà, contro la cattiva gestione della maggioranza dei presidi: in altre parole di una sanità pubblica di serie A per alcune Regioni e di un’altra sanità che non merita neppure la serie C. Per promuovere in modo sistematico questo nuovo modello e non lasciarlo, quindi, realizzato in modo sporadico, parziale e comunque non conforme alle esigenze della sanità pubblica, è, altresì, necessario predisporre un piano strategico che contenga interventi normativi idonei a rimuovere alcuni ostacoli che ne rallentano o, in alcuni casi, ne impediscono la diffusione. Un piano strategico di sanità elettronica che richiede una significativa quantità di risorse economiche dedicate: l’adozione di piattaforme e di soluzioni capaci di supportare un nuovo modello di servizio sanitario basato sui pilastri della continuità assistenziale, del care management, della deospedalizzazione e della piena cooperazione tra tutti i soggetti coinvolti nella filiera della salute e del well‐being. Questo piano è, appunto, il Patto per la Sanità Digitale.

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Per capire in cosa effettivamente consista, bisogna prima chiarire cosa sia la sanità elettronica o e-Health. Con questa espressione ci riferiamo, in particolar modo, ad un complesso insieme di azioni e di interventi orientati all’innovazione, che, però, necessitano di una governance consapevole e di indicazioni di orientamento il più possibile chiare, lineari e programmatiche. Sviluppo digitale della sanità non significa, infatti, solo introduzione di tecnologie, che, seppur mature, risulterebbero del tutto nuove ed estranee alla maggior parte delle realtà ospedaliere del territorio nazionale. Sanità digitale significa, piuttosto, creazione di un fattore capace di consentire la contemporanea evoluzione dei modelli assistenziali e di quelli organizzativi. In particolare, i principali interventi per realizzare questi nuovi modelli consistono nella digitalizzazione del ciclo prescrittivo, con l’introduzione della trasmissione delle certificazioni di malattia online e la sostituzione delle prescrizioni cartacee con l’equivalente documento digitale, nella realizzazione e diffusione di una soluzione federata di Fascicolo Sanitario Elettronico del cittadino e nell’aumento del tasso di innovazione digitale nelle aziende sanitarie, sia nei processi di organizzazione interna, sia nell’erogazione dei servizi ai cittadini. Gli strumenti per attuarli sono: il progressivo assorbimento della Tessera Sanitaria nella Carta di Identità Elettronica o nella Carta Nazionale dei Servizi (CNS); lo sviluppo di un Centro Unico di Prenotazione unificato a livello nazionale, in cui far confluire i sistemi CUP, oggi presenti a livello provinciale e regionale, che operano spesso in modalità isolata e con canali differenziati; il collegamento in rete delle strutture di erogazione dei servizi sanitari, dai medici di medicina generale e pediatri di libera scelta alle Aziende Sanitarie Locali e a quelle Ospedaliere, fino alle farmacie, sia pubbliche che private; l’accesso da parte del cittadino ai servizi sanitari on-line; il pagamento online delle prestazioni erogate, nonché la consegna, tramite web (posta elettronica certificata o altre modalità digitali) dei referti medici; la creazione di adeguati sistemi di sorveglianza e di registri in ambito sanitario.

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Il primo caposaldo per il conseguimento di questi risultati è quello di rispettare il principio che il Patto introduce relativamente alla necessità di procedere ad uno sviluppo congiunto delle reciproche sinergie tra e con stakeholder e fornitori di soluzioni ICT, aspetto cui il Patto riconosce una certa importanza per quanto concerne il know-how sull’IT in sanità, quale, ad esempio, quella di divenire un possibile motore di sviluppo, attraverso specifiche iniziative di investimento. Infatti, un problema rilevante che il Patto per la Sanità Digitale pone in ordine allo sviluppo dell’e-Health è quello dei finanziamenti stimati in 3,5-4 miliardi di euro nel triennio 2014-2016. Al riguardo, il documento in parola propone una serie di azioni di sistema per l’acquisizione dei capitali necessari, che vede, appunto, l’intervento congiunto di diversi attori, non solo pubblici. È, ad esempio, prevista la costituzione di fondi strutturali nell’ambito delle azioni di procurement pre-commerciale (PCP) e di sviluppo dell’Agenda Digitale e si ipotizza, altresì, la possibilità per le Regioni di stanziare fondi ad hoc per la costituzione di modelli di partenariato pubblico-privato. Viene, inoltre, ammessa l’introduzione di iniziative private attraverso modelli di project financing e o di performance based contracting (una sorta di remunerazione dei fornitori in base ad obiettivi predefiniti e misurabili, in termini di condivisione dei ricavi e/o dei minori costi conseguiti). Infine, si evidenzia l’opportunità di porre una quota a carico dei cittadini, quale corrispettivo di specifici servizi e-Health a valore aggiunto offerti (si tratterebbe, però, di servizi resi su adesione volontaria da parte del cittadino e caratterizzati, pertanto, da standard superiori rispetto a quelli degli altri servizi gratuitamente ed equamente distribuiti all’utenza nel suo complesso). Per incrementare l’efficacia di queste azioni, il Patto suggerisce di definire ex-ante una specifica metodologia di misurazione multidimensionale dei risultati conseguiti con verifiche periodiche da effettuare durante e alla fine dei progetti, con lo scopo di attivare già in corso d’opera eventuali azioni correttive e di riorientamento dei progetti stessi.

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È, dunque, evidente quale sia l’attività propedeutica che il Patto antepone alla reingegnerizzazione del Servizio Sanitario: quella, cioè, di avviare un processo che veda la collaborazione tra stakeholder, Regioni e ASL, perché intraprendano le opportune iniziative di sistema, avviando anche un circuito di riuso delle soluzioni sviluppate, in un’ottica di condivisione ed integrazione. L’azione sarà guidata da un Comitato di Coordinamento, che entro la fine dell’anno produrrà un Master Plan per le iniziative della Sanità Digitale, contenente le indicazioni prioritarie, i cronoprogrammi attuativi e i modelli di copertura finanziaria prevista. Contestualmente, il Ministero della Salute, da parte sua, avvierà un tavolo di studio con l’Autorità Nazionale Anticorruzione (l’ANAC che per effetto del DL 90/2014 assorbe le funzioni della soppressa AVCP) e la Corte dei Conti per divulgare modelli di applicazione delle norme che già oggi regolano forme contrattuali di partenariato pubblico-privato, rendendole facilmente accessibili alle stazioni appaltanti anche attraverso la pubblicazione di linee guida, contratti tipo, casi d’uso immediatamente applicabili al contesto specifico. Resta ora da attendere – e si spera non invano – l’effettiva (e celere) digitalizzazione del SSN.

Clicca QUI per scaricare il Patto per la sanità Digitale.

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TAR LOMBARDIA: LEGITTIMO IL TRASFERIMENTO DELLA PROPRIETÀ DI UNA FARMACIA TRAMITE L’ISTITUTO DEL TRUST.

Con un recente provvedimento, il Tar Lombardia, Sezione II di Brescia, ha dichiarato l’illegittimità del negato riconoscimento da parte di un’Azienda Sanitaria Locale del trasferimento della titolarità di una farmacia mediante l’istituto del trust, mettendo in parte in discussione una prassi amministrativa ben consolidata nel settore delle farmacie private. Secondo la sentenza in parola (n. 890 del 30 luglio 2014), il ricorso al trust non sarebbe, infatti, alla stregua di un negozio elusivo della normativa di riferimento, quella, cioè, dettata dalla L. 475/78, ma si tratterebbe piuttosto di uno strumento necessario a garantire il subentro generazionale in un’attività di famiglia in presenza di eredi che, tuttavia, risultino ancora privi dei requisiti richiesti dalla legge. Analizziamo insieme gli aspetti più rilevanti di questa sentenza, che potremmo definire ‘storica’.

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di Michele De Sanctis

La questione di fondo alla pronuncia dei giudici bresciani sull’argomento è che la L. 475/78 (e successive modifiche e integrazioni) prevede solo sei mesi di tempo dalla presentazione della denuncia di successione, quale termine concesso all’erede per trasferire la farmacia in capo a un soggetto professionalmente idoneo. Seppur breve, il termine di sei mesi risponde ad un principio coerente con la regola di diritto pubblico, in base alla quale la proprietà della farmacia deve coincidere con la titolarità della relativa concessione amministrativa. Sussiste, però, un problema di non coincidenza tra proprietà e titolarità nel caso in cui l’erede non sia ancora farmacista idoneo o addirittura sia minorenne, col conseguente rischio che l’attività di famiglia vada perduta. Una soluzione non convenzionale potrebbe essere quella offerta da una prassi di derivazione anglosassone, con cui è possibile regolare una molteplicità di rapporti giuridici di natura patrimoniale (isolamento e protezione di patrimoni, gestioni patrimoniali controllate ed in materia di successioni, pensionistica, diritto societario e fiscale). Si fa riferimento a quel contratto atipico per il diritto civile italiano, poiché non ancora disciplinato/tipizzato dal legislatore, che va sotto il nome di trust. Il trust è rapporto giuridico che sorge per effetto della stipula di un atto tra vivi o mortis causa, con cui un soggetto (settlor o disponente) trasferisce ad un altro soggetto (trustee) beni o diritti con l’obbligo di amministrarli nell’interesse del disponente o di altro soggetto (beneficiario), ovvero per il perseguimento di uno scopo determinato, sotto l’eventuale vigilanza di un terzo (protector o guardiano), secondo le regole dettate dal disponente nell’atto istitutivo del trust. Tuttavia, sia per la sua atipicità, sia per la sua complessità ed estrema flessibilità, potrebbe dubitarsi circa la reale esperibilità dell’uso di questo istituto per il passaggio generazionale della farmacia o per affrontarne le questioni alla relativa successione ereditaria. Soprattutto per le norme di carattere imperativo alla base del provvedimento amministrativo di concessione.

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Ebbene, la sentenza del TAR in esame affronta la questione fornendo una risposta chiara e precisa: dichiarando, infatti, l’illegittimità del negato riconoscimento da parte dell’ASL del trasferimento della titolarità di una farmacia mediante trust, il Giudice Amministrativo ha ritenuto quest’istituto – e ogni altro negozio fiduciario con cui si disponga l’effettivo trasferimento di una proprietà aziendale – compatibile con la disciplina speciale in materia di farmacie. Il trust, quindi, non solo non confligge con la norma che impone di non dissociare la titolarità della farmacie e il relativo esercizio dell’impresa dalla proprietà piena dell’azienda, ma garantisce, altresì, il pieno perseguimento delle finalità d’interesse pubblico tutelate dalla L. 475/78.

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Secondo il G.A., il trasferimento della proprietà al trustee integra il rispetto delle condizioni di legge, poiché la norma che prescrive il trasferimento in proprietà a un soggetto legittimato al subentro, in quanto farmacista ammette altresì che, successivamente, tale proprietà possa essere nuovamente trasferita, purché rispettando la condizione che ciò avvenga a favore di un farmacista qualificato. Ora, il caso del trasferimento della proprietà a un trustee comporta che tale successione sia già programmata, in quanto alla scadenza del termine del trust, la proprietà dovrà essere necessariamente trasferita o ai beneficiari, se titolati, oppure ad un terzo, da individuarsi da parte del disponente entro il termine di legge di sei mesi. “In tutti i casi e in tutti i momenti (con la sola esclusione dell’eventuale fase di transizione alla scadenza del trust senza che si sia verificata la condizione per il trasferimento ai beneficiari) sono sempre garantiti sia la coincidenza tra proprietà e gestione, che la qualifica di farmacista del proprietario. Ne consegue che né le singole disposizioni, né la ratio della norma possano ritenersi frustrate dal ricorso al particolare istituto del trust, una volta chiarito, come si è fatto nella parte che precede, che il trustee è a tutti gli effetti proprietario, ancorché temporaneamente, e che i vincoli ad esso imposti non possono, di per sé, precludere il raggiungimento dello scopo della norma”. Il Tar di Brescia ritiene, peraltro, che non rappresenti un problema neppure “il fatto che la farmacia, la cui proprietà è trasferita al trustee, non entri nel patrimonio di quest’ultimo (essendo ciò espressamente escluso dalla disciplina dell’istituto): al contrario, ciò pare fornire maggiore garanzia al sistema sanitario, in quanto la farmacia e i suoi beni non potranno essere aggrediti dai creditori personali del trustee, diversamente da quanto accade in situazioni di ordinaria titolarità”.

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Si tratta, inoltre, di una conclusione assolutamente coerente con i principi e le regole del diritto farmaceutico, anche alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia dell’UE, che “ha ritenuto compatibile con i principi comunitari la particolare disciplina del sistema farmaceutico nazionale, ma solo entro il limite del garantire che le farmacie siano gestite da farmacisti professionisti, in quanto proprio la professionalità degli stessi può rappresentare la garanzia contro il rischio, per la sanità pubblica, che la finalità di lucro prevalga sulla sicurezza e qualità della distribuzione dei medicinali. Data l’ontologica tendenza al perseguimento del lucro, il contemperamento con il perseguimento del fine pubblico può essere garantito solo dalla deontologia del farmacista professionista e dal fatto che della violazione di essa il professionista deve rispondere compromettendo “non soltanto il valore del suo investimento, ma altresì la propria vita professionale” (cfr. Quarta Sezione della CGUE, sentenza del 5 dicembre 2013 nelle cause riunite da C-159/12 a C-161/12).

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Tale obiettivo primario, il cui perseguimento è, peraltro, ritenuto legittimo a livello comunitario, risulta, dunque, ampiamente garantito nel caso di specie, in cui la gestione della farmacia è pacificamente affidata ad un farmacista professionista, anche se costituito, coerentemente con le previsioni di legge, nella forma della società di persone.

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Vale, allora, la pena di leggere attentamente l’intera sentenza fin qui esaminata, in attesa di conoscere l’eventuale seguito che avrà la vicenda, in caso di ricorso dell’Azienda Sanitaria dinanzi al Consiglio di Stato, e di analizzarne, fin da adesso, le logiche conseguenze che potrebbe avere sul piano negoziale. Siamo, infatti, di fronte a un primo precedente in materia, che costituirà probabilmente anche un punto di riferimento per casi analoghi, aprendo, altresì, scenari contrattuali del tutto inediti nell’esperienza giuridica italiana, ove sarà possibile trasferire la proprietà di una farmacia ad un’entità esterna, nondimeno senza i requisiti richiesti dalla L. 475/78, purché la stessa farmacia venga gestita da un trustee, ovvero da una figura equiparabile all’attuale direttore responsabile, che ne detenga a tutti gli effetti la piena titolarità.

Clicca QUI per leggere la sentenza TAR Lombardia, Brescia sez. II, 30/7/2014 n. 890

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P.A.: IL MINISTRO MADIA FIRMA LA CIRCOLARE SUL DIMEZZAMENTO DI DISTACCHI E PERMESSI SINDACALI. Circolare Ministero Semplificazione 20/08/2014 n. 5

È il 1° settembre la data fissata per la riduzione al 50% delle prerogative sindacali nelle Pubbliche Amministrazioni, tra cui si annoveno anche permessi e distacchi. Il 20 agosto, infatti, il ministro Madia ha firmato la circolare n. 5, con cui viene regolata la disciplina recata dal decreto legge di riforma n. 90/2014 (convertito definitivamente in legge lo scorso 7 agosto).

di Michele De Sanctis

Colpirà oltre un migliaio di lavoratori, almeno secondo la stima delle principali sigle, il dimezzamento dei distacchi sindacali, istituto con cui viene riconosciuto al dipendente pubblico il diritto di svolgere, a tempo pieno o parziale, attività sindacale, con la conseguente sospensione dell’attività lavorativa, ma con retribuzione a carico dell’Amministrazione di appartenenza. È per questo che la riduzione in parola, si legge sul sito del Ministero per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, «è finalizzata alla razionalizzazione e alla riduzione della spesa pubblica». La Corte dei Conti ha, infatti, stimato che, solo nel 2012, i costi delle prerogative sindacali ammontavano a circa 110 milioni di euro: in pratica il corrispettivo della mancata prestazione lavorativa di un dipendente pubblico ogni 750.

La circolare n. 5, firmata due giorni dopo la pubblicazione in GURI della conversione in legge del DL 90 (18 agosto) e a un giorno dall’entrata in vigore del provvedimento (19 agosto) prevede, dunque, che entro il 31 agosto «tutte le associazioni sindacali rappresentative dovranno comunicare alle Amministrazioni competenti la revoca dei distacchi sindacali non più spettanti». E il rientro nelle Amministrazioni dei dirigenti sindacali, oggetto dell’atto di revoca avverrà – come viene specificato nella circolare – nel rispetto del contratto collettivo nazionale quadro sulle prerogative sindacali, oltreché delle altre disposizioni di tutela dei lavoratori.
In particolare, tra le garanzie che la circolare riconosce al dipendente che riprende servizio al termine del distacco o dell’aspettativa sindacale c’è la domanda di trasferimento, con precedenza rispetto agli altri richiedenti, in altra sede della propria Amministrazione, quando si dimostri di aver svolto attività sindacale e di aver avuto il domicilio nell’ultimo anno nella sede richiesta, ovvero in altra Amministrazione – anche di diverso comparto – ma della stessa sede. Inoltre, si chiarisce che il lavoratore «è ricollocato nel sistema classificatorio del personale vigente presso l’Amministrazione, ovvero nella qualifica dirigenziale di provenienza, fatte salve le anzianità maturate, e conserva, ove più favorevole, il trattamento economico in godimento all’atto del trasferimento mediante attribuzione ‘ad personam’ della differenza con il trattamento economico previsto per la qualifica del nuovo ruolo di appartenenza, fino al riassorbimento a seguito dei futuri miglioramenti economici». La circolare evidenzia altresì come chi rientra non possa venire discriminato per l’attività in precedenza svolta quale dirigente sindacale né possa essere assegnato ad attività che facciano sorgere conflitti di interesse con la stessa».

La circolare in esame, oltre a dettare, punto per punto, l’applicazione delle misure contenute nell’articolo 7 del decreto, pone anche una serie di eccezioni. Limitatamente ai distacchi, ad esempio, «la decurtazione del 50 per cento non trova comunque applicazione qualora l’associazione sindacale sia titolare di un solo distacco». Altra precisazione riguarda «le Forze di polizia ad ordinamento civile e il Corpo nazionale dei vigili del fuoco (personale non direttivo e non dirigente e personale direttivo e dirigente)». In tali casi «in sostituzione della riduzione del 50% si prevede che alle riunioni sindacali indette dall’Amministrazione possa partecipare un solo rappresentante per associazione sindacale».
Si prevede, inoltre, la possibilità di procedere a compensazione in caso di eccedenze. Ciò significa che nel caso in cui «le associazioni sindacali abbiano comunque utilizzato prerogative sindacali in misura superiore a quelle loro spettanti nell’anno si provvederà secondo le ordinarie previsioni contrattuali e negoziali». Di conseguenza, «ove le medesime organizzazioni non restituiscano il corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti, l’Amministrazione compenserà l’eccedenza nell’anno successivo, detraendo dal relativo monte-ore di spettanza delle singole associazioni sindacali il numero di ore risultate eccedenti nell’anno precedente fino al completo recupero».

Si attendono adesso le prossime istruzioni operative relativamente agli altri interventi contenuti nel Decreto PA, che, lo ricordiamo, è già legge. Tra questi i più rilevanti riguardano la cd. pensionabilità dei manager al 62esimo anno d’età, in anticipo rispetto ai parametri della legge Fornero, il taglio dei compensi per gli amministratori delle società partecipate (-20%), la mobilità obbligatoria di tutti i lavoratori, salvo quelli con tre figli o parenti disabili a carico ed una maggiore flessibilità nella realizzazione del turnover. Nel decreto spicca, poi, l’abrogazione dal 1° novembre dell’istituto del trattenimento in servizio, che ora permette ai dipendenti pubblici di continuare a lavorare per altri 2 anni dopo il conseguimento dei requisiti per poter andare in pensione.

La novità più attesa, tuttavia, riguarda il diritto degli appalti pubblici, ossia quella branca del diritto amministrativo che interessa l’attività di acquisizione di beni e servizi da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Sarebbe, infatti, pronto e dovrebbe essere pubblicato nelle prossime settimane un decreto ministeriale che individuerà le caratteristiche essenziali e i prezzi benchmark dei beni acquisiti dalle Amministrazioni Pubbliche, come previsto dal Decreto Irpef. Stretta su acquisti PA in arrivo, quindi: una volta pubblicate le caratteristiche dei beni acquistabili – e i relativi prezzi benchmark – potranno, infatti, partire i relativi controlli sull’attività di approvvigionamento del settore pubblico. Ma di questo vi daremo notizia, non appena il decreto in questione sarà disponibile.

CLICCA QUI per scaricare la Circolare n. 5/2014 inerente alla riduzione delle prerogative sindacali nelle PP.AA., ai sensi dell’art. 7, D.L. 90/2014, convertito nella Legge 114/2014

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LA RACCOMANDAZIONE NON È SEMPRE REATO: LO DICE LA CASSAZIONE.

Con questo post esamineremo una recente sentenza con cui la Cassazione ha escluso la rilevanza sotto il profilo penale di uno specifico caso di raccomandazione. Tuttavia, prima di procedere, è necessario premettere che quello della Cassazione è un giudizio di legittimità: i giudici di piazza Cavour, cioè, non possono entrare nel merito del contenzioso, il loro non è un terzo grado di giudizio. Per cui né la Corte ha inteso fornire una giustificazione a certe pratiche clientelari né io con questo post intendo promuoverne l’esistenza.
Personalmente, anzi, sulla base delle mie esperienze concorsuali, considero il raccomandato un ladro della peggior specie, che ogni mese non solo ruba denaro pubblico non meritato, ma che, soprattutto, sottrae indebitamente la vita a chi, invece, ne avrebbe avuto diritto, se solo questo fosse stato un Paese onesto.

di Michele De Sanctis

Con Sentenza n. 32035 ud. 16/05/2014 – deposito del 21/07/2014, la Quinta sezione della Suprema Corte di Cassazione ha affermato che non ricorre alcun abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. di un pubblico ufficiale in concorso con altri coimputati, in quanto per il concorso morale nel reato di abuso d’ufficio non basta la mera ‘raccomandazione’ o ‘segnalazione’, ma occorrono ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano un’efficacia determinante sulla condotta del soggetto qualificato. In particolare, poi, la raccomandazione, benché effettuata da un pubblico ufficiale o da un parlamentare, non integra il reato di abuso d’ufficio qualora avvenga al di fuori delle proprie funzioni.

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Nel caso di specie, ricorrente era un Comandante di una Stazione dei Carabinieri di un Comune in cui era stato bandito un concorso per il quale aveva raccomandato ad un assessore comunale la figlia perché venisse
‘utilmente’ collocata nella graduatoria finale di merito. In favore del Comandante era, però, sopraggiunta pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Tuttavia è stato proprio avverso tale pronuncia che l’Ufficiale ha proposto il ricorso, che la Cassazione ha ora accolto, in quanto, si legge in motivazione, “in presenza di una causa estintiva del reato, il proscioglimento nel merito deve essere privilegiato quando dagli atti risulti, come nel caso in esame, la prova positiva dell’innocenza dell’imputato”. I giudici del Palazzaccio, hanno, quindi, ritenuto ininfluenti le intercettazioni telefoniche che dapprima avevano inchiodato il Comandante, inquisito nell’ambito delle medesime indagini che avevano visti coinvolti e successivamente imputati per abuso d’ufficio e falsità in atti il Presidente, i Componenti della commissione, il segretario del concorso ‘incriminato’ e l’assessore comunale.
Il punto della sentenza, infatti, è questo: la mera raccomandazione lascia, comunque, libero il soggetto attivo di aderire o meno alla segnalazione, secondo il suo libero convincimento e per tale motivo non ha efficacia causativa sul comportamento del soggetto attivo.

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La formula assolutoria deve, pertanto, prevalere sulla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione anche nel caso in cui si volesse prendere in considerazione, sotto il profilo soggettivo, la raccomandazione effettuata dall’imputato in qualità di Comandante della Stazione dei Carabinieri del Comune in cui il concorso era stato bandito.
Infatti, ache in tal caso, per la Corte, il delitto di abuso d’ufficio sarebbe insussistente perché, come, peraltro, già chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione a proposito di raccomandazioni provenienti da un parlamentare (sent. del 09/01/2013, n. 5895) l’abuso ex art. 323 c.p. “deve realizzarsi attraverso l’esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione attribuita”. Dunque, in carenza dell’esercizio del potere (come nella fattispecie in esame, nella quale la richiesta di raccomandazione esula dalle funzioni tipiche connesse al ruolo di graduato dell’Arma dei Carabinieri, rivestito dall’imputato) non è possibile inquadrare la segnalazione di un candidato nel reato di abuso d’ufficio.

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Il reato, in verità, oggi potrebbe esserci, ma all’epoca dei fatti il nostro Codice Penale non lo contemplava. E siccome non c’è reato senza una norma sanzionatoria, comandante e parlamentare devono oggi essere assolti con formula piena. La Cassazione, infatti, non può far altro che decidere sulla base delle norme vigenti a quel tempo, per il principio di non retroattività della legge penale. E perché – lo si è già detto – il suo è un giudizio di legittimità. Il reato in questione si chiama ‘traffico di influenze illecite’. Una figura introdotta nel nostro ordinamento soltanto due anni fa, durante il Governo Monti, dall’art. 1, comma 75, L. 06/11/2012, n. 190 (cd. Legge Anticorruzione) con decorrenza dal 28/11/2012 ed attualmente contenuta dall’art. 346 bis c.p.

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Quindi, parafrasando, fino al 2012 l’Italia era quel Paese dei balocchi, in cui non ci sarebbe stato reato se il comandante della stazione dei carabinieri X avesse chiesto l’assunzione di sua figlia nel comune dell’assessore Y. E lo stesso valeva per Tizio, parlamentare della Repubblica Italiana che tanto caldeggiava la causa di Sempronio, amico degli amici. Sempreché l’azione fosse avvenuta al di fuori delle funzioni esercitate dai signori sponsor. In fondo cosa c’era di male – direbbero loro? Ho solo segnalato un giovane bravo e preparato, sul cui livello di preparazione, tuttavia, noialtri esclusi dovremmo ‘fare a fidarci’ visto che manca del tutto una valutazione oggettiva. In fondo chi è che è rimasto danneggiato? Solo una manciata di aspiranti a quel posto comunale, che, ormai, saranno riusciti a farsene una ragione e avranno continuato a tentare in altri Enti, magari confidando ancora nella correttezza delle istituzioni, e – chissà – fiduciosi di poter riuscire a lavorare un giorno in quel comune avranno forse accettato posti lontano da casa e ancora pazientano per potervi ritornare. O, peggio, una parte di quegli esclusi (che non credo sia riuscita a farsene davvero una ragione) ancora attende un lavoro onesto e meritato. Fiduciosi, tutti quanti, a ogni selezione. Anche se è davvero difficile non perdere questa fiducia, concorso dopo concorso, ingiustizia dopo ingiustizia. Nonostante la Legge Anticorruzione, resta infatti il dubbio che fatta una nuova legge, il leguleio di turno ne abbia già trovato l’inganno. Perché, in fondo, questa è l’Italia.

Clicca QUI per leggere l’intera Sentenza n. 32035/2014.

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VIAGGIARE SICURI: ARRIVA L’APP DEDICATA ALLA TESSERA EUROPEA DI ASSICURAZIONE E MALATTIA.

di Michele De Sanctis

La tessera europea di assicurazione e malattia, Team,
è una tessera gratuita con cui i cittadini dei 28 Stati membri dell’UE hanno diritto all’assistenza sanitaria statale in caso di permanenza temporanea in una Nazione europea diversa dalla propria, oltreché in Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera, alle stesse condizioni e allo stesso costo del proprio Paese di provenienza (anche gratuitamente se previsto dallo Stato membro).

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Per utilizzarla basta esibirla negli ospedali o negli studi convenzionati con il sistema sanitario pubblico. Tuttavia, la Team non copre né l’assistenza privata né i costi relativi a viaggi programmati per curarsi fuori dall’Italia, per i quali è attesa, entro il prossimo 31 ottobre, la promulgazione da parte del nostro Ministero della Salute di specifiche linee guida, mentre è già attivo un Punto di Contatto Nazionale, presso cui ottenere informazioni relative all’accesso e all’assistenza sanitaria transfrontaliera all’interno dell’Unione Europea. Dunque, che si tratti di una malattia o di un incidente, ovvero di infortunio sul lavoro, questa tessera ci permette, di semplificare il nostro accesso ai servizi sanitari del Paese in cui soggiorniamo temporaneamente, siano essi gratuiti o a pagamento.

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La tessera europea di assicurazione e malattia viene rilasciata a tutte le persone a carico del Servizio Sanitario Nazionale in possesso della cittadinanza italiana e con residenza in Italia, ma spetta anche ai cittadini extracomunitari iscritti al SSN e non a carico di istituzioni estere. Così come in Italia, la tessera è stata rilasciata in tutta Europa: gli ultimi dati diffusi dalla Commissione Europea indicano che sono circa 200 milioni i cittadini europei che ne usufruiscono e che, soprattutto, la portano con sé in viaggio. A fronte di questi dati incoraggianti, tuttavia, c’è il ragionevole dubbio che non tutti i 200 milioni di utenti lo facciano in maniera consapevole. Quanti di voi, per esempio, sanno di essere già in possesso di una propria Team personale? In realtà, la tessera europea di assicurazione e malattia altro non è che la parte retrostante della nostra tessera sanitaria nazionale o, per chi abita in Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Sicilia, della carta regionale dei servizi. Per cui non dobbiamo fare alcuna richiesta per ottenerla: abbiamo già la nostra Team.

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Tuttavia, considerata la diversità dei sistemi sanitari europei, non sempre è facile capire come utilizzare la Team secondo le regole nazionali. Ecco perché, in occasione del decimo anniversario della tessera, la Commissione Europea ha deciso di introdurre nuove regole, affinché i cittadini europei potessero usufruire nel modo più semplice possibile del proprio sistema nazionale di identificazione elettronica per l’accesso ai servizi sanitari, quando si trovano in un altro Stato UE. E lo ha fatto lanciando una nuova mobile app dedicata al servizio, disponibile su AppStore, Google Play e Windows Marketplace. L’applicazione è già disponibile in 24 lingue, italiano compreso, con un’opzione molto semplice da usare per passare da una lingua all’altra.

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Per ogni Paese l’app fornisce:
informazioni generali, numeri di emergenza, cure coperte da assicurazione pubblica e costi. Troverete, inoltre, le modalità per presentare la richiesta di rimborso e chi contattare in caso di smarrimento della tessera. Con l’app sarà inoltre possibile calendalizzare la scadenza della propria tessera.

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Al primo avvio l’app richiede un ulteriore download di dati del peso di 9MB senza cui non sarà possibile la relativa inizializzazione. Vi consiglio di effettuare il download dell’app e del pacchetto dati sotto copertura Wi-Fi. Diversamente i costi per il download varieranno a seconda del piano tariffario sottoscritto con il vostro operatore per il traffico sotto copertura 3G.

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Per ottenere tutte le informazioni di cui avete bisogno per un corretto uso della vostra tessera europea di assicurazione e malattia, potete consultare il sito istituzionale della Commissione Europea e quello del Ministero della Salute.

Scaricate gratis l’app per il vostro smartphone:

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