Ci ha lasciato un intellettuale intelligente, ironico e curioso. Addio, Umberto Eco.

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INPS: ASSEGNI FAMILIARI E QUOTE DI MAGGIORAZIONE DI PENSIONE 2016.

Dal 1° gennaio 2016 sono stati rivalutati, come ogni anno, i limiti di reddito per gli assegni familiari e le quote di maggiorazione di pensione, oltreché i limiti di reddito mensili ai fini dei diritto agli stessi assegni.

MDS – BlogNomos

Con circolare n. 211 del 31 dicembre 2015, l’INPS ha reso note le tabelle dei limiti di reddito familiare da applicare ai fini della cessazione o della riduzione degli assegni familiari e delle quote di maggiorazione di pensione. Nella stessa circolare sono stati altresì rivalutati i limiti di reddito mensili da considerare ai fini del riconoscimento del diritto agli assegni familiari.

Fate attenzione, perché non stiamo parlando dell’assegno al nucleo familiare. Gli assegni familiari sono una diversa prestazione rispetto all’ANF che l’INPS eroga a sostegno delle famiglie di alcune categorie di lavoratori italiani, comunitari ed extracomunitari attivi sul territorio italiano, il cui nucleo familiare abbia un reddito complessivo al di sotto dei limiti che tra poco illustreremo.

L’assegno familiare, in particolare, spetta:

– ai coltivatori diretti, coloni e mezzadri;

– ai piccoli coltivatori diretti;

– ai titolari delle pensioni a carico delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni e mezzadri).

Diversamente, l’assegno al nucleo familiare spetta ai lavoratori dipendenti, ai lavoratori dipendenti agricoli, ai lavoratori domestici, ai lavoratori iscritti alla gestione separata, ai titolari di pensioni (a carico del fondo pensioni lavoratori dipendenti, fondi speciali ed Enpals), ai titolari di prestazioni previdenziali ed ai lavoratori in altre situazioni di pagamento diretto.

Pertanto, gli assegni familiari e le maggiorazioni di pensione sono prestazioni economiche che l’INPS eroga a quei soggetti che risultano esclusi dalla normativa sugli assegni al nucleo familiare.

L’assegno familiare spetta per ogni familiare vivente a carico. La legislazione sociale del nostro Paese considera viventi a carico i familiari che abbiano redditi personali mensili non superiori ad un determinato importo stabilito dalla legge e rivalutato annualmente.

Tali sono:

– il coniuge, anche se legalmente separato purché sia a carico, solo se il richiedente è titolare di pensione a carico delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi;

– i figli o equiparati anche se non conviventi:

• di età inferiore a 18 anni;

• apprendisti o studenti di scuola media inferiore (fino a 21 anni);

universitari (fino a 26 anni e nel limite del corso legale di laurea);

• inabili al lavoro (senza limiti di età);

– i fratelli, le sorelle e i nipoti, conviventi:

• di età inferiore a 18 anni; apprendisti o studenti di scuola media inferiore (fino a 21 anni);

• universitari (fino a 26 anni e nel limite del corso legale di laurea);

• inabili al lavoro (senza limiti di età);

gli ascendenti (genitori, nonni, ecc..) ed equiparati, solo se il richiedente è piccolo coltivatore diretto;

– i familiari di cittadini stranieri residenti in Paesi con i quali esista una convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia.

Infine, il coniuge affidatario che non abbia titolo autonomo alla percezione di assegni può avere diritto al riconoscimento del diritto sulla posizione del coniuge non affidatario.

Si noti, inoltre, che nei confronti dei contribuenti aventi titolo alla corresponsione dell’assegno, l’eventuale cessazione del diritto, per effetto delle disposizioni in materia di reddito familiare, non implica la cessazione di altri diritti e benefici dipendenti dalla vivenza a carico e/o ad essa connessi.

  

Ad ogni buon conto, si precisa che gli importi delle prestazioni sono:

Euro 8,18 mensili spettanti ai coltivatori diretti, coloni, mezzadri per i figli ed equiparati;

Euro 10,21 mensili spettanti ai pensionati delle gestioni speciali per i lavoratori autonomi e ai piccoli coltivatori diretti per il coniuge e i figli ed equiparati;

Euro 1,21 mensili spettanti ai piccoli coltivatori diretti per i genitori ed equiparati;

LIMITI DI REDDITO MENSILE DA CONSIDERARE PER LA CORRESPONSIONE DELLA PRESTAZIONE.

In applicazione delle vigenti norme per la perequazione automatica delle pensioni, il trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti risulta fissato dal 1° gennaio 2016 e per l’intero anno nell’importo mensile di euro 501,89.

In relazione a tale trattamento, i limiti di reddito mensili da considerare ai fini dell’accertamento del carico (non autosufficienza economica) e quindi del riconoscimento del diritto agli assegni familiari risultano così fissati per tutto l’anno 2016: 

– Euro 706,82 per il coniuge, per un genitore, per ciascun figlio od equiparato;

– Euro 1236,94 per due genitori ed equiparati.

I nuovi limiti di reddito valgono anche in caso di richiesta di assegni familiari per fratelli, sorelle e nipoti (indice unitario di mantenimento).                   

Il limite di Euro 706,82 è, inoltre, preso in considerazione per la corresponsione delle quote integrative delle rendite INAIL per figli maggiorenni e fino ai 26 anni (purché studenti scolastici ovvero universitari regolarmente iscritti a un corso di studi) che percepiscano redditi.

Clicca qui e scorri fino al fondo della pagina per visualizzare le tabelle allegate alla circolare 211/2015.

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Le norme della Legge di Stabilità 2016 sulla erogazione dei servizi sanitari nel rispetto delle disposizioni dell’Unione europea in materia di orario di lavoro

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di Germano De Sanctis

Premessa

Come è noto, a far data dal 25.11.2015, in virtù dell’art. 14, comma 1, Legge n. 161/2014, la normativa italiana in materia di orario di lavoro dei medici e dirigenti sanitari si è ufficialmente riallineata alla normativa europea vigente.

Tale norma ha obbligato le PP.AA. a garantire in modo diretto ed immediato i seguenti obblighi normativi nella gestione dell’orario di lavoro della dirigenza medica:

  • il rispetto del limite massimo di lavoro giornaliero pari a 12 ore e 50 minuti di lavoro giornaliero;

  • il rispetto del limite massimo di orario di lavoro settimanale pari a 48 ore di durata media, compreso il lavoro straordinario;

  • il rispetto del limite minimo di riposo giornaliero pari a 11 ore continuative nell’arco dell’intera giornata.

Nello specifico, l’art. 14, comma 1, Legge, n. 161/2014, abrogando l’art. 41, comma 13, D.L. n. 112/2008 (conv. dalla Legge n. 133/2008), ha soppresso l’espressa previsione legislativa che consentiva alla contrattazione collettiva di gestire il regime derogatorio delle disposizione ex art. 7 D.Lgs. n. 66/2003, con il solo limite di assicurare modalità e condizioni di lavoro idonee a garantire un pieno recupero delle energie psico-fisiche.

In coerenza con tale previsione abrogatrice, l’art. 14, comma 2, Legge n. 161/2014 dispone che, per fare fronte alle esigenze derivanti dalle disposizioni di cui all’art. 14, comma 1, Legge n. 161/2014, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano devono garantire la continuità nell’erogazione dei servizi sanitari e l’ottimale funzionamento delle strutture, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, attraverso una più efficiente allocazione delle risorse umane disponibili sulla base della legislazione vigente, attuata attivando appositi processi di riorganizzazione e razionalizzazione delle strutture e dei servizi dei propri enti sanitari.

Peraltro, l’art. 14, comma 3, Legge n. 161/2014 prevede che, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 17, D.Lgs., n. 66/2003, al fine di garantire la continuità nell’erogazione dei LEA, i contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto sanità devono disciplinare le deroghe alle disposizioni in materia di riposo giornaliero del personale del S.S.N. preposto ai servizi relativi all’accettazione, al trattamento e alle cure, prevedendo anche equivalenti periodi di riposo compensativo, immediatamente successivi al periodo di lavoro da compensare, ovvero, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, adeguate misure di protezione del personale stesso.

Il medesimo art. 14, comma 3, Legge n. 161/2014 stabilisce, altresì, che, nelle more del rinnovo dei contratti collettivi vigenti, le disposizioni contrattuali in materia di durata settimanale dell’orario di lavoro e di riposo giornaliero, attuative degli abrogati art. 41, comma 13, D.L. n. 112/2008 (convertito dalla Legge, n. 133/2008) e art. 17, comma 6-bis, D.Lgs. n. 66/2003, cessano di avere applicazione a decorrere dal 25.11.2015.

Tale nuovo assetto normativo impone alle Direzioni delle Aziende U.S.L. di:

  • modificare immediatamente modificare l’organizzazione del lavoro di ciascun reparto e/o servizio;

  • riformulare, se necessario, gli obiettivi aziendali, al fine di renderli raggiungibili alla luce delle disposizioni in materia di orario di lavoro contenute nel D.Lgs. 66/2003.

In caso di mancato rispetto delle disposizioni previste dal D.Lgs. n. 66/2003, saranno irrogate le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal decreto legislativo medesimo.

Il rispetto di tali previsioni legislative ha creato non pochi problemi operativi alle PP.AA. interessate.

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La Legge 28.12.2015, n. 208 (c.d. Legge di Stabilità 2016)

A fronte di tale quadro normativo, è intervenuto l’art. 1, commi da 541 a 544 Legge 28.12.2015, n. 208 (c.d. Legge di Stabilità 2016), con l’intento di fornire una soluzione normativa alle difficoltà poc’anzi indicate.

Esaminiamo le norme appena introdotte nel dettaglio.

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Art. 1, comma 541, Legge n. 208/2015

Nell’ambito della cornice finanziaria programmata per il S.S.N. e in relazione alle misure di accrescimento dell’efficienza del settore sanitario previste dall’art. 1, commi da 521 a 552, Legge n. 208/2015 e alle misure di prevenzione e gestione del rischio sanitario di cui all’art. 1, commi da 538 a 540, Legge n. 208/2015, al fine di assicurare la continuità nella erogazione dei servizi sanitari, nel rispetto delle disposizioni dell’Unione europea in materia di articolazione dell’orario di lavoro, le Regioni e le Province Autonome:

  • ove non abbiano ancora adempiuto a quanto previsto dall’art. 1, comma 2, D.M., n. 70/2015, adottano un provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del S.S.R., nonché i relativi provvedimenti attuativi. Le Regioni sottoposte ai piani di rientro, nel rispetto dell’art. 1, comma 4, D.M. n. 70/2015, devono adottare i relativi provvedimenti nel rispetto dei tempi e delle modalità operative definiti nei programmi operativi di prosecuzione dei piani di rientro (cfr., art. 1, comma 541, lett. a), Legge n. 208/2015);

  • predispongono un piano concernente il fabbisogno di personale, contenente l’esposizione delle modalità organizzative del personale, tale da garantire il rispetto delle disposizioni dell’Unione Europea in materia di articolazione dell’orario di lavoro attraverso una più efficiente allocazione delle risorse umane disponibili, in coerenza con quanto disposto dall’art. 14, Legge n. 161/2014 (cfr., art. 1, comma 541, lett. b), Legge n. 208/2015);

  • trasmettono entro il 29.02.2016 i provvedimenti di cui all’art. 1, comma 541, lett. a) e b), Legge n. 208/2015 al Tavolo di verifica degli adempimenti e al Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei LEA, nonché al Tavolo per il monitoraggio dell’attuazione del regolamento di cui al D.M. n. 70/2015. Il Tavolo di verifica degli adempimenti e il Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei LEA valutano congiuntamente, entro il 31.03.2016, i provvedimenti di cui all’art. 1, comma 541, lett. a) e b), Legge n. 208/2015 (cfr., art. 1, comma 541, lett. c), Legge n. 208/2015);

  • ferme restando le disposizioni vigenti in materia di contenimento del costo del personale e quelle in materia di piani di rientro, se sulla base del piano del fabbisogno del personale emergono criticità, si applica l’art. 1, commi 543 e 544, Legge n. 208/2015 (cfr., art. 1, comma 541, lett. d), Legge n. 208/2015).

 

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Art. 1, comma 542, Legge n. 208/2015

Nelle more della predisposizione e della verifica dei piani di cui all’art. 1 comma 541, lett. b), Legge n. 208/2015, nel periodo intercorrente dal 01.01.2016 al 31.07.2016, le Regioni e le Province Autonome, previa attuazione delle modalità organizzative del personale al fine di garantire il rispetto delle disposizioni dell’Unione Europea in materia di articolazione dell’orario di lavoro, qualora si evidenzino criticità nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, possono ricorrere, in deroga a quanto previsto dall’art. 9, comma 28, D.L. n. 78/2010 (conv. dalla Legge n. 122/2010), a forme di lavoro flessibile, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia sanitaria, ivi comprese quelle relative al contenimento del costo del personale e in materia di piani di rientro.

Se al termine del medesimo periodo temporale permangono le predette condizioni di criticità, tali contratti di lavoro possono essere prorogati fino al termine massimo del 31.10.2016.

Ovviamente, deve essere data tempestiva comunicazione ai Ministeri della Salute e dell’Economia e delle Finanze del ricorso a tali forme di lavoro flessibile, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia sanitaria, ivi comprese quelle relative al contenimento del costo del personale e in materia di piani di rientro.

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Art. 1, comma 543, Legge n. 208/2015

In deroga a quanto previsto dal D.P.C.M. 06.03.2015 e in attuazione dell’art. 4, comma 10, D.L. n. 101/2013 (conv. dalla Legge n. 125/2013), gli enti del S.S.N. possono indire, entro il 31.12.2016, e concludere, entro il 31.12.2017, procedure concorsuali straordinarie per l’assunzione di:

  • personale medico;

  • personale tecnico-professionale;

  • personale infermieristico.

Deve risultare che tale personale è necessario per a far fronte alle eventuali esigenze assunzionali emerse in relazione alle valutazioni operate sul piano di fabbisogno del personale, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 541, Legge n. 208/2015.

Nell’ambito di tali procedure concorsuali, gli enti del S.S.N. possono riservare i posti disponibili, nella misura massima del 50%, al personale medico, tecnico-professionale e infermieristico:

  • in servizio alla data di entrata in vigore della Legge n. 208/2015;

  • che abbia maturato, alla data di pubblicazione del bando, almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi cinque anni con i medesimi enti con:

    • contratti a tempo determinato;

    • contratti di collaborazione coordinata e continuativa;

    • altre forme di rapporto di lavoro flessibile.

Nelle more della conclusione delle medesime procedure, gli enti del S.S.N. continuano ad avvalersi del personale contrattualizzato in forma flessibile, anche in deroga ai limiti di cui all’art. 9, comma 28, D.L. n. 78/2010 (conv. dalla Legge n. 122/2010). In relazione a tale deroga, gli enti del S.S.N., oltre alla prosecuzione dei rapporti di lavoro flessibile già in essere, sono autorizzati a stipulare anche nuovi contratti di lavoro flessibile esclusivamente ai sensi dell’art. 1, comma 542, Legge n. 208/2015, fino al termine massimo del 31.10.2016.

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Art. 1, comma 544, Legge n. 208/2015

Per il biennio 2016-2017, le previsioni di cui all’art. 1 comma 543, Legge n. 208/2015, sono attuate nel rispetto della cornice finanziaria programmata e delle seguenti disposizioni:

  • art. 2, comma 71, Legge n. 191/2009, in virtù del quale le spese del personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle PP.AA. e dell’IRAP, non devono superare il corrispondente ammontare dell’anno 2004 diminuito dell’1,4 per cento;

  • art. 17, comma 3, D.L. n. 98/2011 (conv. dalla Legge n. 111/2011), secondo il quale le disposizioni di cui all’art. 2, commi 71 e 72, Legge, n. 191/2009 si applicano, ogni anno, fino al 2020;

  • art. 17, comma 3-bis D.L. n. 98/2011 (conv. dalla Legge n. 111/2011), il quale dispone che la verifica dell’effettivo conseguimento degli obiettivi di cui all’art. 17 comma 3, D.L. n. 98/2011 viene svolta con le modalità previste dall’art. 2, comma 73, Legge n. 191/2009. La Regione è giudicata adempiente, ove sia accertato l’effettivo conseguimento di tali obiettivi. In caso contrario, per gli anni dal 2013 al 2019, la Regione è considerata adempiente, ove abbia raggiunto l’equilibrio economico e abbia attuato, negli anni dal 2015 al 2019, un percorso di graduale riduzione della spesa di personale fino al totale conseguimento nell’anno 2020 degli obiettivi previsti all’art. 2, commi 71 e 72, Legge n. 191/2009;

  • art. 17, comma 3-ter, D.L. n. 98/2011 (conv. dalla Legge n. 111/2011), in virtù del quale le Regioni sottoposte ai piani di rientro dai deficit sanitari o ai programmi operativi di prosecuzione dei predetti pianirestano comunque fermi gli specifici obiettivi ivi previsti in materia di personale;

  • i piani di rientro previsti per le Regioni a loro sottoposte, i quali impongono specifici obiettivi in materia, da ritenersi comunque vincolanti, anche a fronte delle citate norme di rango nazionale.

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CLASSE 1980: LA GENERAZIONE PERDUTA. 

La scorsa settimana il presidente dell’INPS, Tito Boeri, rivelando al Paese ciò che Mastrapasqua, suo predecessore nella carica, ‘si vantava’ di nascondere per scongiurare una rivolta popolare, ha reso noto ai giovani le cifre delle loro future pensioni. Come era di facile previsione in un clima che Grammellini nel suo ‘Buongiorno’ del 2 dicembre ha definito catatonico, in un Paese che è sempre rimasto assopito dinanzi a tutto ciò che fosse altro da una partita di calcio, nessuna rivolta si è venuta a creare e anzi la notizia preoccupante che ha dato spunto a questo post, nell’era del tutto e subito, è già vecchia, vecchissima: per farci un’idea, su Flipboard e Google News dobbiamo scrollare parecchio prima di ritrovarla. Per farcene un’altra: si parla ancora di presepi e crocifissi in aula, visto che l’Avvento non è ancora finito, ma dei nati degli anni ’80 si è già smesso di discutere. Personalmente, trovo ingiusto protrarre il dibattito pubblico su argomenti di natura teologica, per quanto intrisi di risvolti sociali ed etnici di grande attualità, mentre io, che ho 35 anni, ho già smesso di fare notizia. Soprattutto se la notizia è che lavorerò ancora a lungo, diciamo tutta la vita, per irrorare la pensione di chi è cresciuto in un’epoca di diritti sociali e ne verrò per giunta ricompensato – sempre citando Grammellini – “con un epilogo esistenziale a base di fatica e di stenti.” La cosa, infatti, potrebbe anche darmi alquanto fastidio, specialmente perché il modello attuariale, in base al quale viene finanziato il nostro sistema previdenziale pubblico, la cosiddetta ripartizione pura, secondo cui le prestazioni attuali vengono finanziate contestualmente alla loro erogazione proprio da me che lavoro, da almeno un ventennio viene ‘simpaticamente’ chiamato dagli addetti ai lavori “metodo dell’imprevidenza” (lo trovate scritto perfino sui compendi della Simone). Eppure, poco o nulla si è fatto. Anzi, piuttosto si è infierito: ricorderete sicuramente l’amabile ex ministro Padoa Schioppa che ci definì bamboccioni e la formidabile Elsa Fornero che ci apostrofò come choosy. Vale a dire che per i grandi (in Italia lo si è tipo dopo i 40-45 anni) è colpa di noi piccoli se i nostri padri e i loro padri prima di loro si sono già mangiati tutte le provviste e hanno, nel contempo, avallato un sistema basato sull’orgia edonistica degli anni ’80, quando si consumava tutto e ciò che avanzava piuttosto si buttava, senza preoccuparsi del domani. Ebbene, il domani è arrivato ed è il mio presente e non mi sento responsabile del mio vivere ancora in famiglia, sebbene anche noi giovani abbiamo le nostre colpe, lo ammetto. Vero è che questa colpa la condividiamo con i nostri padri e le nostre madri. E con lo Stato, che fa leva sul risparmio delle famiglie come ammortizzatore sociale per i giovani disoccupati o precari – risparmio per lo più detenuto da chi 30 anni non li ha più da un pezzo.  
 Il nostro peccato più grave, infatti, è la rassegnazione con cui accettiamo ogni cosa. A differenza dei nostri coetanei che hanno avuto il coraggio di andare via, noi che siamo rimasti continuiamo a percepire come normale un sistema sadico, nel quale ciò che conta è l’anzianità. Non parlo solo di pensioni. Per esempio, in Italia un trentenne oggi potrà anche farsi apprezzare in azienda, nel pubblico come nel privato, per le sue capacità e conoscenze, ma all’atto di conferire una posizione di responsabilità, anche di una semplice linea di prodotto, la scelta cadrà con maggior probabilità su un soggetto più anziano del trentenne, perché più esperto, sebbene meno curriculato. Molti di noi, ad esempio, hanno continuato a studiare, nelle more di una vita professionale, che in teoria lo Stato avrebbe dovuto garantirci, almeno stando al dettato costituzionale. Quindi è facile che un trentenne abbia qualche laurea in più rispetto ai soggetti più anziani di lui che incontrerà nel mercato del lavoro. Ma la giustificazione di solito è sempre la stessa: “Tanto hai tutta la vita davanti! Arriverà anche per te…” La anormalità sta proprio in questo, perché sto vivendo anche adesso e se ritengo di meritare alcunché è giusto che io l’ottenga. Invece di norma il trentenne risponderà “grazie”, sperando in cuor suo di non dover aspettare altri dieci anni. In fin dei conti, se lo analizziamo in maniera spiccia, col contratto a tutele crescenti a venir istituzionalizzata e generalizzata è proprio la regola dell’anzianità. I sindacati, così contrari al Jobs Act, nei luoghi di lavoro continuano tuttora a tutelare le competenze acquisite. Sapete cosa vuol dire tutelare una competenza? Fare largo ai vecchi. Per cui è normale incontrare responsabili diplomati e operatori esecutivi laureati. Non lo è, ma noi siamo quelli che accettano qualunque lavoro, pur di portare a casa qualche soldo e pur essendo dottori magistrali facciamo i camerieri, i segretari o gli operatori di call center.

  
C’è anche un altro aspetto, che tanto normale non appare, se lo confrontiamo con l’estero. Ad esempio, non è normale che i giovani in Italia non abbiano alcuna garanzia per la futura pensione, nessuna meritocrazia o nessun supporto all’acquisto della prima casa. Noi stiamo tollerando, come fosse se una situazione naturale, un’ingiustizia profonda: l’esclusione dal mondo del lavoro, dalla politica, dalla carriera nelle università (dove la cronaca ricorda che oltreché vecchio bisogna, peraltro, anche essere parente di qualcuno) e stiamo accettando senza riserve questa atroce disparità intergenerazionale. I trentenni vivono in una società che non è la loro, ma quella dei propri genitori. Sono privi di punti di contatto con un mondo reale che è loro estraneo, non hanno alcuna forza antagonista, vivono nella società come in famiglia, come il gatto di casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. Ciò che manca è la dialettica tra loro e la società.  

 
Dialettica che non può esistere senza un reale ricambio generazionale. La carenza di turn over nel mercato del lavoro, peraltro, comporta un altro grande gap, oltre al fatto che lascia soli in un ambiente di 50-60enni quei pochi di noi che riescono a lavorare. Infatti, l’assenza di massa di un’intera generazione dal lavoro sta modificando la struttura del modello sociale in modo allarmante. La cultura, l’industria, l’imprenditoria mancano per questo di innovazione e i giovani non sviluppano la carica antagonista che sempre ha fatto da propellente sul costume, sulla cultura e sulla stessa politica del nostro come degli altri Paesi. Il “parricidio” e l’allontanamento dalle famiglie di origine è un passo fondamentale per la crescita di un individuo. I giovani italiani, invece, rimangono in qualche misura ancora legati alla paghetta settimanale in una società neomediovale, dove la fluidità interclassista è praticamente inesistente. 

 
Il dramma della situazione che così si viene a creare è questo circolo vizioso tra genitori e figli, da cui per ora, considerato l’immobilismo del mercato del lavoro, non conviene uscire, ma che lascerà un’intera generazione sul baratro, quando mamma e papà non ci saranno più a darci una mano con le loro belle pensioni calcolate col metodo retributivo. Il nostro è un problema di asfissia culturale. I cattivi maestri (e gli pseudo maestri) ci sono sempre stati. Poi, però, si cresceva e si faceva a pugni con il sapere acquisito dai padri. Ma oggi a 30 anni non ancora si hanno gli strumenti per farlo e ci si appiattisce sulle idee dei vecchi. Gli attuali trentenni temono l’incertezza, più che in passato, sono terrorizzati dai rischi che il cambiamento porta con sé. Se l’Italia fosse un Paese forte, cosciente e solidale si occuperebbe di loro e, di conseguenza, del suo stesso futuro. Ma se continuiamo con questo non far nulla, la generazione dei nati negli anni ottanta sarà come se non fosse mai esistita. L’Italia avrà, allora, perso un’intera generazione e il danno in termini di capitale umano sul progresso materiale del Paese sarà inestimabile. Sarà irrecuperabile, sempre che non lo sia già.

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L’attuazione del D.P.C.M. 06.03.2015 relativo alle procedure concorsuali riservate per l’assunzione del personale precario del comparto sanità

di Germano De Sanctis

1. Premessa

Il recente D.P.C.M. 06.03.2015 ha consentito la stabilizzazione dei precari del Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N.), dando, così, attuazione alle specifiche previsioni in materia contenute nell’art. 4, commi 6, 7, 8, 9 e 10, D.L. n. 101/2013 convertito dalla Legge n. 125/2013.

Lo scopo del D.P.C.M.- 06.03.2015 consiste nel contribuire alla generale azione di razionalizzazione della spesa pubblica, prevedendo la possibilità di indire procedure concorsuali riservate al personale precario del servizio sanitario.

Con la sua emanazione, è sorta in capo alle Regioni la necessità di fare chiarezza sulle procedure e sui limiti concorsuali per il personale precario, nonché sui requisiti di ammissione alle selezioni del personale medico precario in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza. Tale esigenza chiarificatrice si è concretizzata nell’approvazione, in data 30.07.2015, delle linee guida per l’attuazione del D.P.C.M. 06.03.2015. In particolare, le linee guida in questione si soffermano su alcune specifiche disposizioni del D.P.C.M. 06.03.2015:

  • l’articolo 2 (procedure concorsuali riservate);

  • l’articolo 3 (limiti per l’attuazione delle procedure concorsuali);

  • l’articolo 6, comma 4 (requisiti di ammissione del personale medico precario nei servizi di emergenza e urgenza).

Fatta questa premessa, passiamo all’esame delle modalità attuative del D.P.C.M. 06.03.2015, alla luce delle citate linee guida.

2. L’ambito di applicazione (art. 1 D.P.C.M. 06.03.2015)

L’individuazione delle procedure concorsuali oggetto del D.P.C.M. 06.03.2015. Nello specifico, il D.P.C.M. 06.03.2015:

  • disciplina le procedure concorsuali riservate per l’assunzione presso gli Enti del S.S.N.;

  • prevede specifiche disposizioni per il personale dedicato alla ricerca.

Le procedure in questione sono riservate esclusivamente al:

  • personale del comparto sanità;

  • personale appartenente all’area della dirigenza medica e del ruolo sanitario.

3. Le procedure concorsuali riservate (art. 2 D.P.C.M. 6 marzo 2015)

Il termine per bandire le procedure concorsuali riservate. Entro la data del 31.12.2018, gli Enti del S.S.N. possono bandire procedure concorsuali, per titoli ed esami, per assunzioni a tempo indeterminato del personale del comparto sanità e di quello appartenente all’area della dirigenza medica e del ruolo sanitario (cfr. art. 2, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015)).

La non applicabilità delle norme in materia di mobilità. Stante la natura speciale delle procedure di stabilizzazione ed il fatto che viene garantito un adeguato accesso dall’esterno, le stesse procedure non devono conformarsi alle norme in materia di mobilità di cui all’art. 30, comma 2-bis, D.Lgs. n. 165/2001.

I vincoli di riserva previsti. Ai sensi dell’art. 2, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015 e nel rispetto del principio dell’adeguato accesso dall’esterno, tali procedure concorsuali sono bandite, previo esperimento delle procedure di cui all’art. 34bis n. 165/2001 e sono riservate al:

  • personale in possesso dei requisiti ex art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007;

  • personale che, alla data del 30.10.2013, abbia maturato negli ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio, anche non continuativo, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, anche presso enti diversi da quello che indice la procedura, purché afferenti all’ambito territoriale della Regione interessata dalla procedura concorsuale.

Esaminiamo queste due categorie nel dettaglio.

Segue. Il personale in possesso dei requisiti di accesso cui all’art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e di cui all’art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007. Lart. 2, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015 fa riferimento alle previsioni contenute nell’art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e nell’art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007. Tale rinvio deve essere interpretato letteralmente. Di conseguenza, non è consentito alle P.A. interessate ammettere alle selezioni personale in possesso di requisiti diversi, ancorché fossero previsti da diverse discipline in materia di stabilizzazione eventualmente approvate dalla Regione in attuazione delle predette disposizioni legislative statali, le quali, secondo quanto stabilito dall’art. 1, comma 565, lett. c), Legge n. 296/2006, (peraltro, non più richiamato, né dal D.P.C.M. 06.03.2015, né dal D.L. n. 101/2013), stante la loro natura di meri principi di riferimento.

Le procedure di stabilizzazione previste dall’art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e dall’art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007 non riguardano la dirigenza medica e sanitaria, in quanto tali norme consentivano la stabilizzazione del solo personale non dirigenziale. Pertanto, il personale della dirigenza medica e sanitaria stabilizzabile è solo quello che, alla data del 30.10.2013, ha maturato almeno tre anni di servizio anche non continuativo negli ultimi cinque anni.

Le procedure di stabilizzazione riservate si applicano anche nei confronti del personale che, pur essendo in possesso dei requisiti ex art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007, non èa stato stabilizzato nell’ambito delle relative procedure. Di conseguenza, le procedure di stabilizzazione devono essere avviate dalle Aziende del S.S.N. nei confronti del:

  • personale che aveva ritenuto di non partecipare alle selezioni riservate previste dalle predette norme;

  • personale che, pur partecipando alle selezioni riservate previste dalle predette norme, non aveva conseguito l’idoneità.

Tale personale deve comunque aver maturato l’anzianità di servizio con rapporto di lavoro subordinato presso enti del S.S.N. ubicati nell’ambito territoriale in cui ha sede l’ente che bandisce la selezione.

Segue. Il requisito dell’anzianità di servizio minima per l’accesso alle procedure concorsuali oggetto del D.P.C.M. 06.03.2015. Come detto, la stabilizzazione riguarda il personale del comparto Sanità e quello appartenente all’area della dirigenza medica e sanitaria. Di conseguenza, non costituiscono servizi utili per la stabilizzazione quelli resi presso enti di diverso comparto, né, tanto meno, sono configurabili stabilizzazioni di dirigenti dei ruoli professionale, tecnico e amministrativo.

Come detto, ai sensi dell’art. 2, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015, tale personale, alla data del 30.10.2013, deve aver maturato negli ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio, anche non continuativo, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, anche presso enti diversi da quello che indice la procedura, purché ricompresi nell’ambito della Regione Abruzzo.

Pertanto, non costituisce titolo di accesso alle selezioni:

  • il rapporto di lavoro maturato con contratto di lavoro diverso dalla dipendenza;

  • il servizio, ancorché prestato con rapporto di lavoro subordinato, maturato in Regioni diverse da quella in cui viene espletata la procedura di selezione.

I soggetti in possesso dei requisiti di stabilizzazione possono partecipare a tutte le selezioni indette dagli enti del S.S.N. della Regione.

L’anzianità di servizio deve essere maturata integralmente nel profilo messo a selezione, atteso che la stabilizzazione presuppone il necessario possesso di un’esperienza professionale nello svolgimento delle funzioni proprie del profilo di inquadramento. Invece, per le selezioni per la dirigenza medica, veterinaria e sanitaria, dovrà essere conteggiato anche il servizio maturato in disciplina equipollente/affine a quella oggetto di selezione.

Il D.P.C.M. 06.03.2015 non ha compreso tra i requisiti di ammissione alla selezione l’essere in servizio ad una determinata data, ma solo in particolari periodi, anche non continuativi. Di conseguenza, sono ammissibili alle selezioni tutti i candidati in possesso dei requisiti previsti dalle norme di legge e dal D.P.C.M. 06.03.2015 anche se non in servizio presso enti del S.S.R. alla data di indizione del bando o in altra data.

L’anzianità di servizio a tempo determinato maturata in regime di part-time deve essere valutata per intero.

Il rinvio alle disposizioni previste dall’ordinamento per ciascuna delle procedure concorsuali riservate. Ai sensi dell’art. 2, comma 3, D.P.C.M. 06.03.2015, alle procedure concorsuali in esame, si applicano, per ciascuna categoria di personale, le disposizioni rispettivamente previste dall’ordinamento.

3. I limiti per l’attuazione delle procedure concorsuali (art. 3 D.P.C.M. 06.03.2015)

L’individuazione dei limiti. Le procedure concorsuali in esame sono avviate (nel rispetto del contenimento della spesa complessiva di personale previsti dalla normativa nazionale vigente), a valere sulle risorse finanziarie assunzionali relative agli anni intercorrenti dal 2015 al 2018 (anche complessivamente considerate), nel rispetto della programmazione del fabbisogno, nonché (a garanzia dell’adeguato accesso dall’esterno) nel limite massimo complessivo del 50%, in alternativa a quelle di cui all’art. 35, comma 3bis, D.Lgs. n. 165/2001 o, in maniera complementare, purché nel limite della predetta percentuale (cfr., art. 3, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015).

Le disposizioni specifiche correlate all’esistenza del piano di rientro. L’avvio delle procedure concorsuali tiene anche conto di quanto previsto dall’art. 1, comma 174, Legge n. 311/2004, in materia di blocco automatico del turn over, nonché, per le Regioni soggette ai piani di rientro, dei differenti regimi e vincoli assunzionali previsti dai piani medesimi.

Al riguardo, si precisa che tale limite del 50% delle risorse finanziarie assunzionali destinate alle stabilizzazioni non è riferito ad una singola procedura concorsuale, ma all’intero ambito di tali stabilizzazioni. Il rispetto del limite del 50% delle risorse finanziarie disponibili per le assunzioni costituisce attuazione del principio della garanzia di adeguato accesso dall’esterno, in alternativa alle altre misure disposte dalla normativa vigente, ed, in particolare, dall’art. 35, D.Lgs. n. 165/2001, le quali, di conseguenza, non trovano applicazione.

Le Regioni soggette ai piani di rientro dal deficit sanitario dall’art. 1, comma 180, Legge n. 311/2014 quantificano il predetto limite in rapporto alle risorse finanziarie assunzionali previste dai medesimi piani di rientro (cfr., art. 3, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015). Inoltre, per tali Regioni, sussiste la previsione contenuta nell’art. 4bis, D.L. n. 158/2012 (convertito con modificazioni dalla Legge n. 189/2013), secondo la quale, ove sia scattato per l’anno 2012 il blocco automatico del turn over ex art. 1, comma 174, Legge n. 311/2004 (ovvero sia comunque previsto per il medesimo anno il blocco del turn over in attuazione del piano di rientro o dei programmi operativi di prosecuzione del piano), tale blocco può essere disapplicato, nel limite del 15% e in correlazione alla necessità di garantire l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, qualora il competente tavolo tecnico di verifica dell’attuazione del piano di rientro abbiano accertato il raggiungimento, anche parziale, degli obiettivi previsti nel piano medesimo (cfr., art. 3, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015).

Il limite temporale massimo di utilizzo delle graduatorie. Le graduatorie definite in esito alle procedure in questione sono utilizzabili, nell’ambito delle singole Regioni, per le assunzioni che avverranno nel corso del quadriennio 20152018 a valere sulle predette risorse (cfr., art. 3, comma 3, D.P.C.M. 06.03.2015).

4. La proroga dei contratti a tempo determinato (art. 4 D.P.C.M. 06.03.2015)

Le condizioni di legittimità delle proroghe dei contratti a tempo determinato. Gli Enti del S.S.N. possono prorogare i contratti di lavoro a tempo determinato del personale del comparto sanità e di quello appartenente all’area della dirigenza medica e del ruolo sanitario, in relazione a:

  • il proprio effettivo fabbisogno;

  • le risorse finanziarie disponibili;

  • i posti in dotazione organica vacanti indicati nella programmazione triennale.

Tale proroga può essere effettuata fino all’espletamento delle procedure concorsuali e comunque non oltre il 31.12.2018, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’art. 9, comma 28, D.L. n. 78/2010 (convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 122/2010), che costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica, ai quali ogni singola Regione e gli enti del S.S.N. si devono adeguare, fermi restando, per le Regioni sottoposte al piano di rientro, il rispetto degli specifici vincoli previsti dal predetto piano.

5. Lavori socialmente utili e di pubblica utilità (art. 5 D.P.C.M. 06.03.2015)

L’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori socialmente utili e di pubblica utilità. Ai sensi dell’art. 5, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015, per meglio realizzare le finalità di superamento del precariato e al fine di favorire il reclutamento a tempo indeterminato dei lavoratori socialmente utili di cui all’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2000 e dei lavoratori di pubblica utilità di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 280/1997, nonché nel rispetto delle norme regionali di riferimento, le Aziende e gli enti del S.S.N. che hanno vuoti in organico relativamente alle qualifiche per le quali non è richiesto il titolo di studio superiore a quello della scuola dell’obbligo, nel rispetto dei vincoli previsti dall’art. 3 D.P.C.M. 06.03.2015, procedono all’assunzione a tempo indeterminato – anche con contratti di lavoro part time (cfr., art. 5, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015), attingendo i nominativi dagli elenchi predisposti ai sensi dell’art. 4, comma 8, Legge n. 125/2013 (di conversione del D.L. n. 101/2013).

6. La stabilizzazione del personale dedicato alla ricerca e del personale medico in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza delle Aziende Sanitarie (art. 5 D.P.C.M. 06.03.2015)

La stabilizzazione del personale dedicato alla ricerca. Ai sensi dell’art. 6, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015, è ammesso a partecipare alle procedure concorsuali riservate il personale dedicato alla ricerca in sanità, in possesso dei requisiti previsti dall’ordinamento vigente, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato.

I titoli equipollenti di accesso alla procedure concorsuali riservate al personale dedicato alla ricerca. L’art. 6, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015 evidenzia che, nei limiti indicati dai DD.II. 28.06.2011, 11.11.2011 e 15.01.2013, costituiscono titolo di accesso alla procedure concorsuali in esame anche le seguenti lauree:

  • laurea specialistica o magistrale in biotecnologie mediche, farmaceutiche e veterinarie (classe 9/S e LM9);

  • laurea in biotecnologie agrarie (classe 7/S e LM7);

  • laurea in biotecnologie industriali (classe 8/S e LM8).

Inoltre, il dottorato di ricerca costituisce titolo di accesso alternativo al diploma di specializzazione.

Le proroghe ammissibili dei contratti a tempo determinato del personale dedicato alla ricerca nelle more del completamento delle procedure concorsuali. Ai sensi dell’art. 6, comma 3, D.P.C.M. 06.03.2015, sono prorogati fino al completamento delle procedure concorsuali, e comunque entro e non oltre la data del 31.12.2018, i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato del personale:

  • dedicato alla ricerca nel S.S.N., alla data di pubblicazione (cioè, il 30.10.2013) della Legge n. 125/2013 (di conversione del D.L. n. 101/2013);

  • che, ai sensi dell’art. 35, comma 3bis, lett. a), D.Lgs. n. 165/2001, o ai sensi dell’art. 4, comma 6, D.L. n. 101/2013 (convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 125/2013), ha maturato presso l’ente che intende effettuare le procedure concorsuali (ovvero presso altri enti del S.S.R.), almeno tre anni di servizio.

La stabilizzazione del personale medico in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza. Ai sensi dell’art. 6, comma 4 D.P.C.M. 06.03.2015, è consentita la stabilizzazione del personale medico dei servizi di emergenza e urgenza non in possesso del diploma di specializzazione in medicina e chirurga d’accettazione e d’urgenza con almeno cinque anni di “prestazione continuativa” antecedenti alla scadenza del bando presso i servizi di emergenza e urgenza degli Enti del S.S.N., fatti salvi i periodi di interruzione previsti dall’art. 19, comma 2 e dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015.

Le procedure di stabilizzazione del personale medico in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza. I soggetti ammissibili alle procedure di stabilizzazione del personale medico in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza, in coerenza con le disposizioni della Legge n. 125/2013 (di conversione del D.L. n. 101/2013), nonché alla luce dei richiami contenuti nel D.Lgs. n. 81/2015, sono solo coloro che hanno maturato cinque anni di servizio con rapporto di lavoro subordinato. Il personale interessato deve comunque essere in possesso di una specializzazione, anche se non equipollente o affine a medicina e chirurgia d’accettazione e d’urgenza. Il personale interessato deve comunque essere in possesso di una specializzazione, anche se non equipollente o affine a medicina e chirurgia d’accettazione e d’urgenza.

Il termine per bandire la procedura concorsuale, in coerenza con e altre selezioni previste dal D.P.C.M. 06.03.2015, è il 31.12.2018.

Il personale precario eventualmente in scadenza può essere prorogato alle stesse condizioni e con gli stessi limiti stabiliti dall’art. 4 D.P.C.M. 06.03.2015 per il personale in possesso dei requisiti di cui all’art. 2 D.P.C.M. 06.03.2015.

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Perché utilizzo un vecchio computer con Linux installato

di Germano De Sanctis

Spesso mi ritrovo a partecipare a riunioni di lavoro, circondato da svariate persone in giacca e cravatta, quasi tutti con il Mac sul tavolo, accanto allo smartphone e, a volte, pure al tablet. Anzi, al dire il vero, nel corso di questi incontri, mi capita sempre più spesso ad essere uno dei pochi partecipanti che lavora ancora con un computer e, per di più, con Linux installato.
Immaginatevi lo stupore degli astanti che mi vedono poggiare in modalità silenziosa il mio smartphone al solo scopo di ricevere una telefonata (come se fosse un cellulare Nokia di vent’anni fa!) e comincio a dipanare il filo dell’obsoleto alimentatore del mio computer, per, poi, attaccarlo alla presa, incurante che i cavi che si aggroviglino sotto la sedia. Lo ammetto, non sono affatto “cool”.

Devo riconoscere che, a livello estetico, il mio antiquato (sebbene costantemente potenziato e aggiornato) netbook Asus non può competere con un Macbook, né il mio amatissimo (e sconosciutissimo) Ubuntu Phone può suscitare la medesima attenzione generata dalla vista dell’ultimo modello di un iPhone o di un Galaxy.
Tale situazione è la diretta conseguenza del fatto che, ormai, molti consumatori, acquistando un dispositivo informatico, non comprano una tecnologia, bensì vogliono comprare uno stile di vita. Proprio partendo da questa constatazione, posso dire che ha a me piace molto Linux. E mi piace nella consapevolezza dell’esistenza di tutti i problemi che comporta usare un sistema operativo libero e gratuito, che non gode del supporto incondizionato delle società produttrici di hardware e che periodicamente ha problemi di incompatibilità (a volte il wifi non funziona, altre volte manca un driver per la scheda audio, oppure il risparmio energetico non è ottimizzato etc.). A dirla tutta, l’aspetto di Linux che mi piace più in assoluto consiste nel fatto che, vista l’esiguità dei computer in vendita (peraltro, quasi solo on line) con Linux già preinstallato, per poterlo utilizzare devo scaricarmi l’immagine ISO di una sua distribuzione e la devo installare da solo, con la conseguenza che posso “cucirmi” su misura la configurazione che più si adatta alle mie esigenze contingenti.
A fronte di tali difficoltà, peraltro, superabili grazie al prezioso lavoro di supporto ai neoifiti svolto dai volontari appartenenti ai vari gruppi LUG (Linux Users Group) sparsi in tutto il mondo, Linux rende l’utente libero da ogni condizionamento, poiché non richiede l’accettazione di licenze d’uso ed installabile su qualsiasi macchina, grazie all’esistenza di decine e decine di distribuzioni prodotte da una “comunità” di sviluppatori sempre più prolifica (forse anche troppo, data l’eccessiva frammentazione che caratterizza il panorama dei sistemi operativo del pinguino).

Attualmente, Linux è il sistema operativo installato su tutti i supercomputer del mondo (nonché sulla maggioranza dei server). Inoltre, il kernel di Linux è il cuore pulsante di Android. In altri termini, il fatto che il sistema operativo del pinguino risulti essere così poco conosciuto dall’opinione pubblica non ne sminuisce affatto l’importanza, dato che esso ha ormai assunto un ruolo di assoluto rilievo nella gestione delle varie attività e dei singoli servizi della nostra vita quotidiana. Infatti, le infrastrutture informatiche (come, ad es., quelle per l’erogazione dell’elettricità, quelle fognarie, o quelle stradali), quando funzionano bene, sono date per scontate (anzi, sono invisibili), ma non per questo motivo sono meno importanti.

A ben vedere, le difficoltà di utilizzo di Linux sono un elemento irrinunciabile della sua bellezza, anzi, ne sono un aspetto fondamentale. Certamente, la sua installazione e la gestione degli eventuali problemi connessi al suo corretto funzionamento non sono una passeggiata per qualsiasi utente, ma sono proprio questi aspetti che costringono chi lo voglia usare ad apprendere gli elementi basilari della programmazione di un sistema operativo, nonché a conoscere le componenti hardware sui cui è installato.
Infatti, al contrario di Apple e Windows, Linux costringe l’utente ad abbandonare la quella dimensione di tranquillità e comodità in cui il computer decide aprioristicamente quali operazioni e/o scelte di programmazione possono essere svolte. Invece, Linux responsabilizza l’utente nell’utilizzo del suo computer, costringendolo a saperlo usare consapevolmente, anche correndo qualche rischio di “crash”. È noto che ogni grande potere genera grandi responsabilità e la gestione di “root” è indubbiamente un grande potere.
A me affascina il fatto che questa responsabilità mi costringe ad imparare sempre nuovi aspetti del linguaggio informatico. Ovviamente, sono consapevole che la riduzione della complessità del linguaggio macchina rappresenta uno dei motori dell’innovazione informatica degli ultimi decenni, poiché ha reso possibile a sempre più persone l’utilizzo di dispositivi complessi e potenti. D’altronde, proprio questo aspetto rappresenta il cuore della rivoluzione compiuta, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, da Windows e Apple, le quali hanno reso semplice l’uso di un computer, al punto da permetterne l’utilizzo a milioni di persone prive di specifiche competenze informatiche.

Tuttavia, bisogna tenere sempre a mente che questa facilità d’uso comporta un pericoloso costo intellettuale. Infatti, la eliminazione della complessità impedisce di capire come funziona il proprio computer ed, in generale, i dispositivi informatici. Oggigiorno, pochi utenti hanno la consapevolezza di come funziona il loro computer, tablet, o smartphone, o, peggio ancora, pochissimi di loro sono in grado si svolgere operazioni di riparazione.
Si tratta della negazione della cultura degli hacker, secondo la quale, invece, l’accesso ai codici sorgenti (cioè, l’ “apertura” del sistema) e la curiosità di chi usa un computer possono esplicarsi pienamente solo convivendo con la scomodità e le difficoltà di utilizzo insite in un sistema operativo dove l’utente deve “amministrare” ogni singola operazione.
Infatti, Linux, depurato dalle sue moderne e sempre più “friendly” interfacce grafiche (i c.d. desktop environment), è un sistema operativo complicato, ma, al contempo aperto e trasparente. Inoltre, esso è un sistema operativo “abilitante”, in quanto il suo utilizzo comporta un immediato aumento del proprio livello di consapevolezza da parte di ogni singolo utente. Infatti, solo grazie allo studio della riga di comando ho imparato ad usare un computer in modo consapevole, in quanto ho imparato a capirlo, smettendo di essere un utente ignaro di quello che accadeva all’interno del dispositivo che stavo utilizzando.

Pertanto, ho deciso che, per quanto mi riguarda, preferisco convivere con un minimo di scomodità, anche perché questa condizione mi permette di non irrigidirmi ed impantanarmi nella gestione di routine informatiche predefinite da altri. In altri termini, trovo ragionevole “litigare” con il mio sistema operativo, pur di non perdere l’opportunità di continuare ad apprendere sempre qualcosa di nuovo sulla sua gestione.

Bisogna ricordare che questo modo di ragionare è uno dei concetti fondamentale sui cui si è sviluppata negli anni la filosofia dell’open source, la quale prevede che l’innovazione nasce dalla felice commistione di un pizzico di sana anarchia, tanta libertà e altrettanto giustificata ambizione.
In altri termini, il modo dell’informatica non si sarebbe affatto sviluppato nel modo a cui abbiamo assistito se le innovazioni fossero state affidate solo ad un gruppo startupper esclusivamente intenzionati a fatturare milioni di dollari. D’altronde, gli stessi Mac e Windows hanno rispettivamente rinvenuto la loro base di sviluppo in un sistema sistema libero come Unix e nelle interfacce a finestre inventate (ma mai brevettate) negli straordinari laboratori dello Xeroc Park.

In conclusione, nonostante il passare degli anni e il continuo diffondersi di software sempre più “automatizzati” e chiusi, cerco ancora di rispettare lo spirito della cultura hacker, la quale è alla base della migliore tecnologia contemporanea, cioè, quella aperta, accessibile, anche se, a volte, un po’ scomoda.

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Il nuovo regolamento sugli standard dell’assistenza ospedaliera

di Germano De Sanctis

Premessa

Lo scorso 19 giugno è entrato in vigore il Decreto del Ministero della Salute 2 aprile 2015 n. 70 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 127 del 4 giugno 2015), il quale è stato emanato in attuazione dell’art. 1, comma 69, Legge 30 dicembre 2004, n. 311 e dell’art. 15, comma 13, lett. c). D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 agosto 2012, n. 135).

Il D.M. n. 70/2015 è un complesso documento di programmazione sanitaria che introduce, mediante le disposizioni contenute nel suo allegato tecnico, una serie di importanti novità per la sanità italiana, a cui le Regioni e le strutture sanitarie dovranno adeguarsi entro il 2016.

Nello specifico, il decreto ministeriale in questione è un regolamento recante la definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera.

In altri termini, il D.M. n. 70/2015 ridisegna, sia la mappa, che l’organizzazione dell‘intera rete ospedaliera italiana. Infatti, il regolamento in tende garantire, nell’erogazione delle prestazioni sanitarie, dei livelli qualitativi appropriati e sicuri, favorendo, al contempo, una significativa riduzione dei costi, nel rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza (c.d. LEA). Infatti, si è in presenza di un complesso documento tecnico, che si caratterizza per l’enorme numero di previsioni finalizzate ad assicurare, su tutto il territorio nazionale, un’uniforme definizione degli standard delle strutture sanitarie dedicate all’assistenza ospedaliera.

Anzi, si può tranquillamente affermare che l’adozione del D.M. n. 70/2015 segna l’avvio della fase applicativa del processo di quel riassetto strutturale e di qualificazione della rete assistenziale ospedaliera, che rappresenta, ormai da diversi anni, una fondamentale linea programmatica del Servizio Sanitario Nazionale. In particolare, tale riassetto dovrà fornire risposte effettive alle nuove esigenze del mutato quadro di riferimento sanitario, così come delineato dalle tre principali transizioni degli ultimi decenni: l’epidemiologica, la demografica e la sociale.

Infatti, la definizione degli standard dimensionali, l’analisi dei volumi di attività e l’individuazione delle soglie minime di esito rappresentano gli strumenti essenziali per rendere effettiva la valutazione della qualità delle prestazioni, garantendo al contempo, un recupero sostanziale di risorse. Quest’ultima considerazione trova ulteriore conforto nel recente accordo raggiunto in seno alla Conferenza Stato Regioni circa un’ulteriore riduzione della dotazione finanziaria del Fondo Sanitario Nazionale e che impone, di conseguenza, una revisione sostanziale degli standard ospedalieri, al fine di garantire il contenimento della spesa e la sostenibilità del sistema sanitario.

Appare evidente che il conseguimento di simili ambiziosi obiettivi necessita della costruzione di un sistema capace di integrare rete ospedaliera con la rete dei servizi territoriali. In altri termini, il regolamento in esame intende rafforzare la missione assistenziale affidata agli ospedali, al fine di rendere possibile a ciascuna componente del Servizio Sanitario Nazionale lo svolgimento del proprio specifico ruolo di presa in carico delle persone, assicurando, al contempo, i dovuti livelli di qualità degli interventi.

Fatta questa premessa passiamo all’esame del regolamento in questione, dedicando preliminarmente qualche riga all’evoluzione storica dell’argomento in questione, al fine di meglio comprendere le novità introdotte.

Cenni storici

Sin dall’introduzione del Servizio sanitario nazionale (SSN) con la Legge 23 dicembre 1978 n. 833, il legislatore nazionale ha cercato di individuare le forme più idonee per la sua gestione, al fine di migliorare le prestazioni fornite al cittadino, nel rispetto del principio di ottimizzazione delle risorse disponibili.

Tale intento è rinvenibile anche nel successivo D.Lgs. n. 502/1992, il quale, nel riordinare la disciplina sanitaria, dedica un intero Titolo alle prestazioni in ambito sanitario.

Tuttavia, nel tempo, l’attenzione del legislatore non si è esclusivamente soffermata sulle sole strutture di erogazione dei servizi, bensì anche sulla struttura centrale ministeriale. Infatti, il D.Lgs. 30 giugno 1993 n. 266 ha riorganizzato Ministero, assegnandoli (per espressa previsione dell’articolo 1) le funzioni di programmazione sanitaria ed individuando i livelli delle prestazioni da assicurare uniformemente sul territorio nazionale, nonché il coordinamento del sistema informativo e la verifica comparativa dei costi e dei risultati conseguiti dalle singole Regioni. Infine, l’art. 5 D.Lgs. n. 266/1993 ha istituito l’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas), con funzione di supporto delle attività regionali, di valutazione comparativa dei costi e dei rendimenti dei servizi resi ai cittadini e di segnalazione di disfunzioni e sprechi nella gestione delle risorse personali e materiali e nelle forniture.

In seguito, il D.P.R. 14 gennaio 1997 ha individuato i criteri per l’erogazione dei servizi sanitari da parte delle varie strutture presenti sul territorio nazionale. Nello specifico, sono dettagliatamente indicati i requisiti specifici per le strutture che erogano prestazioni all’interno del SSN, suddividendoli in tre macro aree:

  1. l’assistenza specialistica in regime ambulatoriale, da erogarsi in strutture, intra o extraospedaliere, preposte all’erogazione di prestazioni sanitarie di prevenzione, diagnosi;

  2. la terapia e la riabilitazione, da svolgersi in situazioni che non richiedono ricovero neanche a ciclo diurno;

  3. il ricovero ospedaliero, a ciclo continuo e/o diurno per acuti.

Infine, merita una specifica segnalazione il D.P.C.M. del 29 novembre 2001 (in vigore dal 23 febbraio 2002), il quale ha definito i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), cioè le prestazioni e i servizi che il SSN deve fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (il c.d. ticket). A tal proposito, si ricorda che le principali fonti normative sui LEA il D.Lgs. n. 502/1992 ss.mm.ii. e la Legge n. 405/2001.

I LEA sono organizzati in tre grandi aree:

  1. l’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro: essa ricomprende tutte le attività di prevenzione rivolte alle collettività ed ai singoli. Nello specifico, sono ascrivibili a tale area:

    • la tutela dagli effetti dell’inquinamento;

    • la tutela dai rischi infortunistici negli ambienti di lavoro;

    • la sanità veterinaria;

    • la tutela degli alimenti;

    • la profilassi delle malattie infettive;

    • le vaccinazioni e i programmi di diagnosi precoce;

    • la medicina legale;

  2. l’assistenza distrettuale: essa ricomprende tutte le attività ed i servizi sanitari e sociosanitari diffusi capillarmente sul territorio. Nello specifico, sono ascrivibili a tale area:

    • la medicina di base;

    • l’assistenza farmaceutica;

    • la specialistica e diagnostica ambulatoriale;

    • la fornitura di protesi ai disabili;

    • i servizi domiciliari agli anziani e ai malati gravi;

    • i servizi territoriali consultoriali (consultori familiari, Sert, servizi per la salute mentale, servizi di riabilitazione per i disabili, etc.);

    • le strutture semiresidenziali e residenziali (residenze per gli anziani e i disabili, centri diurni, case famiglia e comunità terapeutiche);

  3. l’assistenza ospedaliera: essa ricomprende le seguenti attività:

    • pronto soccorso;

    • ricovero ordinario;

    • day hospital e day surgery, in strutture per la lungodegenza e la riabilitazione.

Nonostante gli sforzi operati dai singoli Governi che si sono succeduti nel tempo, per assicurare ai cittadini un’erogazione delle prestazioni sanitarie efficaci, efficienti e omogenee su tutto il territorio nazionale, i Servizi Sanitari Regionali (intesi nel loro complesso) non sono mai riusciti finora a garantire un corrispondente assetto organizzativo, al punto da giustificare la produzione da parte del legislatore nazionale di norme sulla formazione del bilancio finalizzate al contenimento delle spese ed al miglioramento delle prestazioni.

Un norma esemplificativa di tale situazione è rinvenibile nella Legge 30 dicembre 2004 n. 311 che fissa criteri e limiti per le assunzioni del personale (tuttora sostanzialmente vigente: cfr., art. 1, comma 584, Legge 23 dicembre 2014 n. 190), nonché il rispetto degli obblighi di programmazione a livello regionale, razionalizzando le reti strutturali della domanda e dell’offerta ospedaliera e garantendo l’equilibrio economico-finanziario dei singoli sistemi sanitari regionali (cfr., l’art. 1, comma 98 e comma 173, lettera d), Legge 30 dicembre 2004 n. 311).

Le novità contenute nel D.M. n. 70/2015 in materia di standard ospedalieri

Gli obiettivi.

In primo luogo, necessita evidenziare che il punto 1 dell’Allegato I individua gli obiettivi e gli ambiti di azione, sottolineando la necessità di ridurre il tasso di occupazione dei posti letto, la durata della degenza media, nonché il tasso di ospedalizzazione, che consente un aumento della produttività ed un conseguente miglioramento delle performance del SSN.

La classificazione degli ospedali.

Ai sensi del punto 2 dell’Allegato I, gli obiettivi del D.M. n. 70/2015 sono fondati sull’integrazione dei servizi offerti dalle reti dell’emergenza-urgenza, dell’ospedale e del territorio. In particolare, il punto 2 dell’Allegato I classifica gli ospedali vengono classificati in tre livelli:

  1. ospedali di base con un bacino di utenza compreso tra 80.000 e 150.000 abitanti (cfr., punto 2.2 dell’Allegato I);

  2. ospedali di I livello con un bacino di utenza compreso tra 150.000 e 300.000 abitanti (cfr., punto 2.3 dell’Allegato I);

  3. ospedali di II livello con un bacino di utenza compreso tra 3.000.000 e 1.200.000 abitanti (cfr., punto 2.4 dell’Allegato I).

Inoltre, si prevede espressamente che i singoli ospedali devono disporre, in relazione al livello di appartenenza, di unità operative di complessità e specialità crescente.

Il dimensionamento delle strutture in funzione del bacino di utenza rappresenta un aspetto molto positivo del D.M. n. 70/2015, in quanto di vincola l’individuazione della struttura sanitaria più appropriata ad un parametro oggettivo, scevro da ogni forma di discrezionalità. In tal modo, sarà possibile evitare inutili duplicazioni delle strutture, con evidenti benefici in termini di efficienza nell’utilizzo delle risorse a disposizione del Servizio Sanitario Nazionale. Al contempo, il dimensionamento delle strutture per bacino di utenza renderà oggettivamente necessaria l’attivazione di servizi e/o strutture in aree geografiche che attualmente ne risultano sguarnite.

Il rapporto posti letto per abitante.

In tale contesto organizzativo, il regolamento in esame dispone che la programmazione regionale deve attribuire le funzioni di lungodegenza e di riabilitazione entro il limite di 0,7 posti letto per mille abitanti, di cui almeno 0,2 per la lungodegenza (cfr., punto 2.6 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015). A tal proposito, si evidenzia che le funzioni di riabilitazione sono quelle indicate nel piano di indirizzo per la riabilitazione allegato all’Accordo Stato-Regioni del 10 febbraio 2011.

I rapporti con gli erogatori privati.

Il punto 2.5. dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 si sofferma sui rapporti con gli erogatori privati. Tale punto adotta un criterio vincolante di programmazione ospedaliera ed indica alle Regioni un parametro da rispettare nel conferire la dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del Servizio Sanitario Regionale.

In primo luogo, si evidenzia che il regolamento dispone che le strutture ospedaliere private devono essere accreditate, mediante la sottoscrizione di appositi accordi contrattuali annuali e in base alla programmazione regionale. Tale ultima precisazione presuppone che gli erogatori privati svolgano compiti coerenti ed integrati all’interno della rete ospedaliera.

Inoltre, sin da quest’anno, la soglia di accreditabilità non può essere inferiore a 60 posti letto per acuti ed a 40 posti letto per singole strutture facenti parte di un unico gruppo, con la sola espressa esclusione delle strutture monospecialistiche. In altri termini, siamo alla vigilia di un complesso processo di riconversione e/o fusione, finalizzato al raggiungimento di una dotazione di posti letto adeguata, con l’avvertenza che, dal 1° gennaio 2017, non sarà più possibile sottoscrivere contratti con strutture accreditate con posti letto compresi tra i 40 ed i 60 posti letto per acuti e che non siano state oggetto delle predette aggregazioni.

Gli standard minimi e massimi di strutture per singola disciplina.

Il punto 3.1 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 individua le strutture di degenza e dei servizi relativi ai posti letto, nonché il tasso di ospedalizzazione. Inoltre, si precisa che l’indice di occupazione dei posti letto deve attestarsi su valori del 90% tendenziale e che la durata media della degenza per i ricoveri ordinari non deve essere superiore a 7 giorni.

Conseguentemente il regolamento in esame ha anche individuato il tasso di ospedalizzazione atteso di ricoveri appropriati, fissandolo nella misura di 160 posti letto per 1000 abitanti (di cui circa un quarto per day hospital).

Si tratta di una riduzione del fabbisogno di posti letto resasi necessaria anche in virtù del percorso che prevede, sia la conversione dei ricoveri ordinari in day hospital, che la conversione dei ricoveri in day hospital in prestazioni territoriali.

In virtù di tali parametri, il regolamento afferma, altresì, che il numero di 17,5 posti letto per struttura complessa ospedaliera risulta essere perfettamente compatibile con quanto previsto dal Comitato LEA.

I volumi e gli esiti.

Per quanto concerne i volumi e gli esiti, il punto 4 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 introduce una novità normativa che ha un solo precedente rinvenibile nelle disposizioni in materia di dimensionamento dei punti nascita contenute nell’Accordo della Conferenza Stato-Regioni in sede di Conferenza Unificata del 16 dicembre 2010. Infatti, il punto 4.2. dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 introduce le soglie minime di volume di attività e le individua attraverso una specifica tabella.

Per di più, viene specificato che tali soglie, entro sei mesi dall’emanazione del D.M. n. 70/2015, debbano essere monitorate, ridefinite ed eventualmente implementate per volumi di attività specifici, correlati agli esiti migliori.

Questa introduzione di un rapporto tra volume di prestazioni, esiti delle cure e numerosità delle strutture risulta essere molto importante. Infatti, l’introduzione della regola seconda la quale una struttura può continuare a svolgere le sue funzioni in base al volume e agli esiti rappresenta un elemento di sicura novità, nonché di garanzia della qualità e sicurezza delle cure erogate ai cittadini su tutto il territorio nazionale.

Gli standard generali di qualità

Innanzi tutto, preme ricordare che, relativamente agli standard generali di qualità ed ai requisiti di autorizzazione e accreditamento è intervenuta la recente approvazione da parte della Conferenza Stato-Regioni dell’Intesa in materia di adempimenti relativi all’accreditamento delle strutture sanitarie (cfr., n. 32/CSR del 19 febbraio 2015).

Invece, in tema di standard organizzativi, strutturali e tecnologici, il punto 6.2 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 stabilisce che il rapporto percentuale tra il numero del personale del ruolo amministrativo ed il numero totale del personale impegnato nei Presidi ospedalieri che non può superare il limite del 7%.

Le reti ospedaliere.

Il punto 8 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 dedica la sua attenzione all’articolazione anche delle reti ospedaliere, istituendo le seguenti 10 reti focalizzate per patologie che integrano l’attività ospedaliera:

  1. rete infarto;

  2. rete ictus;

  3. rete traumatologica;

  4. rete neonatologica e punti nascita;

  5. rete medicine specialistiche;

  6. rete oncologica;

  7. rete pediatrica;

  8. rete trapiantologica;

  9. rete terapia del dolore;

  10. rete malattie rare.

Inoltre, nell’ambito di tali reti vengono evidenziate le reti infarto, ictus e traumatologica come le tre reti in riferimento alle quali la dimensione “tempo” assume un ruolo determinate.

La rete dell’emergenza-urgenza.

Il punto 9 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 dedica la sua attenzione all’articolazione delle reti di assistenza del Servizio sanitario nazionale ed, in particolare, alla rete dell’emergenza-urgenza.

A tal proposito, il regolamento prevede che la rete ospedaliera dell’emergenza sia costituita da strutture di diversa complessità assistenziale, le quali si devono relazionare secondo il modello hub and spoke integrato con una serie di strutture articolare su quattro livelli di operatività. Tali strutture devono essere in grado di rispondere alle necessità d’intervento secondo livelli di capacità crescenti in base alla loro complessità, alle competenze del personale, nonché alle risorse disponibili.

La continuità ospedale-territorio.

Merita una particolare attenzione la lettura del punto 10 dell’Allegato I del D.M. n. 70/2015, il quale è dedicato alla continuità tra le reti dell’assistenza ospedaliera e quella del territorio. Infatti, tale punto afferma espressamente che la riorganizzazione della rete ospedaliera sarà insufficiente se, in una logica di continuità assistenziale, non verrà affrontato il tema del potenziamento delle strutture territoriali, la cui carenza, o mancata organizzazione in rete, produce forti ed immediate ripercussioni sull’utilizzo appropriato dell’ospedale.

L’ospedale di comunità.

In virtù di questa importante affermazione di principio, il punto 10.1 dell’Allegato I del D.M. n. 70/2015 qualifica il c.d. ospedale di comunità, come la struttura che può fungere da elemento d’unione tra la rete ospedaliera e quella del territorio, coerentemente con quanto espressamente previsto, sia dalla Conferenza Stato-Regioni con l’Accordo n. 36 del 13 febbraio 2013 (contenente le linee di indirizzo per la riorganizzazione del sistema di emergenza-urgenza in rapporto alla continuità assistenziale), sia dall’art. 5 del Patto per la Salute 2014-2016 (avente ad oggetto l’assistenza territoriale).

Nello specifico gli ospedali di comunità devono essere strutture capaci di erogare una serie di cure che, pur non richiedendo il ricovero nelle strutture ospedaliere ordinarie, necessitano di un livello assistenziale superiore a quello domiciliare.

Esse devono avere 15-20 posti letto, devono fare riferimento ai distretti sanitari e devono essere gestite esclusivamente da personale infermieristico.

L’assistenza medica al loro interno deve essere assicurata da medici di medicina generale, pediatri o altri medici, secondo criteri da definirsi al livello regionale.

Le modalità di attuazione del D.M. n. 70/2015

Il D.M. n. 70/2015 prevede ben dodici suoi provvedimenti attuativi, fatta eccezione delle ulteriori indicazioni attuative contenute nella sua Appendice 2.

Inoltre, la tempistica di tre provvedimenti attuativi è già oggetto di mancato rispetto.

In particolare, si evidenzia il provvedimento attuativo previsto dall’art. 1, comma 2, del D.M. n. 70/2015. Tale norme dispone che, entro il 31 dicembre 2014, le Regioni devono adottare il provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del Servizio Sanitario Regionale, a un livello non superiore a 3,7 posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per la riabilitazione e la lungodegenza postacuzie, nonché i relativi provvedimenti attuativi, assicurando, al contempo, il progressivo adeguamento agli standard definiti all’interno dello stesso D.M. n. 70/2015 nel corso del triennio 2014-2016. Tuttavia, come detto in premessa, il D.M. n. 70/2015 è entrato in vigore il 19 giugno 2015 e, di conseguenza, al momento della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, la tempistica in esame era già scaduta da quasi sei mesi.

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L’incoerenza della Francia (nucleare) che vuol salvare il pianeta boicottando la Nutella. 

  

Con i suoi 58 reattori nucleari, la Francia possiede il secondo parco al mondo di impianti energetici di questo tipo (preceduta solo dagli USA), mentre la sua quota di energia nucleare sulla produzione totale di energia elettrica corrisponde a quasi il 79%, ponendola come leader indiscusso a livello mondiale. Come noto, a differenza dei nostri cugini francesi, noi italiani abbiamo scelto fonti di energia più sostenibil. Ma per il ministro dell’Ambiente francese Ségolène Royal, il principale problema della Terra non sono gli impianti nucleari del suo Paese. Per il ministro francese, piuttosto, bisogna smettere di mangiare la Nutella per salvare il pianeta. 

  
En passant, Greenpeace ha subito precisato che la Ferrero, azienda italiana produttrice della famosa Nutella, è una delle principali aziende al mondo a sostenere il progetto del Palm Oil Innovation Group, oltre ad essere uno dei primi gruppi che è riuscito a sostituire l’olio di palma utilizzato nella sua filiera con quello certificato dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil. Cioè per fare la Nutella nessun albero viene abbattuto per creare spazio e piantare una coltivazione intensiva di palme.

  

Diversamente, Greenpeace da anni si batte per la chiusura delle centrali nucleari d’Oltralpe. Il 18 marzo 2014, per esempio, la stessa organizzazione ecologista riuscì ad esporre su uno dei reattori dell’impianto della centrale nucleare di Fessenheim situata nell’est della Francia un enorme striscione che recitava “Stop risking Europe” (Basta mettere a rischio l’Europa). L’iniziativa era tesa a denunciare le debolezze del sistema di sicurezza degli impianti atomici. Secondo quanto riportato da TMNews, l’impianto nucleare di Fessenheim, che sorge sulle rive del Reno, ai confini con Svizzera e Germania, è considerato uno dei più vulnerabili alle attività sismiche e alle inondazioni. Un anno prima, ben 29 attivisti erano stati arrestati dalla polizia francese dopo aver fatto irruzione nella centrale nucleare francese di Tricastin, per esporre due striscioni con la scritta: “Tricastin: incidente nucleare” e “Francois Hollande: presidente della catastrofe?”. In particolare, le proteste sono mirate soprattutto alla chiusura delle centrali più antiche, non solo in Francia, ma in tutta Europa, che, considerata l’usura e l’obsolescenza dei propri impianti, sono anche le più a rischio di disastro ambientale.

  
Nonostante le promesse del presidente Hollande sulla chiusura di alcuni impianti, il parco nucleare francese è ben lontano da una sua dismissione, sia pure parziale. E nonostante il rischio ambientale rappresentato dai reattori nucleari del proprio Paese, il ministro dell’Ambiente francese si occupa, invece, degli alberi che verrebbero abbattuti da una sola azienda italiana per produrre la sua nota crema gianduia, senza, peraltro, informarsi o meno se tale azienda sia effettivamente responsabile della deforestazione mondiale, di cui – in ogni caso – sarebbero responsabili molte altre industrie (non solo alimentari), visto l’uso intensivo che dell’olio di palma viene fatto nelle catene produttive di tutto il pianeta. E salvo, poi, chiedere scusa su Twitter. In ogni caso, notiamo con disappunto che ha chiesto solo scusa, il ministro, non ha detto che si è sbagliata. Insomma, non è che abbia anche ritrattato.

  
Questo brutto episodio di politica 2.0 della peggior specie, ci lascia però supporre che il tema dell’ecologia sia stato solo strumentale a sabotare una delle poche aziende italiane più competitive a livello globale. L’economia europea in questi anni di crisi ha dimostrato come la politica dei singoli Paesi si stia facendo via via più aggressiva nei confronti dei propri partner UE: questa specie di campagna diffamatoria stroncata sul nascere non è che un piccolo esempio. E oltretutto non è che un episodio marginale tra altri ben più macroscopici. 

  
Se, infatti, per salvare il mondo dobbiamo smettere di mangiare Nutella come suggerisce la ministra francese, dobbiamo allora pensare che lasciare i profughi del Nord Africa sugli scogli, o respingerli entro i confini italiani, come fa il governo a cui lei appartiene, contribuisce a migliorarlo? E se la Nutella contribuisse davvero a distruggere il pianeta, per chi dovremmo salvarlo? Per una manica di razzisti con la ‘spocchia’ di chi si sente migliore di chi non ha avuto la fortuna di nascere nella civile ed evoluta Europa? Così civile da aver prodotto due guerre mondiali in meno di cinquant’anni? Vale davvero la pena salvare il pianeta per chi lo sta rendendo un posto peggiore?

MDS – BlogNomos

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Alla ricerca di un modello sostenibile di Servizio Sanitario Nazionale

di Germano De Sanctis

L’attuale favorevole congiuntura economica globale sta iniziando ad interessare anche i Paesi dell’Unione Europea e tale fattore macroeconomico ha immediatamente alimentato un dibattito politico e sociale molto accesso sulla ridefinizione delle politiche in materia di salute e welfare. Negli ultimi anni, la crisi ha determinato l’affermazione di un modello di Servizio Sanitario Nazionale (e Regionale) che ha cercato di garantire il proprio equilibrio finanziario perseguendo esclusivamente una mera visione ragionieristica della soluzione del problema, attraverso una lunga serie di tagli lineari alle risorse disponibili e di conseguente riduzione dei finanziamenti disponibili.
Si è trattato di una scelta resasi necessaria a causa delle ristrettezze del bilancio nazionale e che ha provocato non pochi disagi sociali, in quanto si è assistito (e si assiste) allo scontro tra due diverse opposte esigenze. Infatti, da un lato si riscontra la necessità di un’ormai ineludibile revisione della spesa sanitaria, dall’altro si rileva l’obbligo di garantire politiche programmatorie capaci di affrontare i problemi posti dal crescente invecchiamento della popolazione, dalle nuove istanze di prevenzione collettiva e dalla non più rinviabile revisione dei modelli di cura. Appare chiaro come la risposta a tutte queste istanze comporti una totale riorganizzazione della rete ospedaliera e territoriale.

Tuttavia, si è in presenza di una dicotomia solo apparentemente irrisolvibile e che ha visto un’evoluzione della filosofia con la quale si è cercato di affrontarla. Come detto, gli ultimi anni hanno inizialmente visto prevalere le logiche di intervento caratterizzate dal rigido contenimento della spesa. Infatti, nel 2012, il governo Monti ha avviato un’intesa attività di spending review, perseguendo lo scopo di realizzare una radicale revisione della spesa pubblica, entrando anche nel merito dell’utilizzo delle risorse pubbliche. L’esito fu un’immediata strategia d’intervento sulla spesa sanitaria, caratterizzata da una serie di tagli lineari, che non prevedeva, in prima istanza, alcuna riforma strutturale del sistema.

Tale politica di intervento si è esclusivamente basata sull’assunto che il Sistema Sanitario Nazionale si fosse fino a quel momento connotato esclusivamente per i suoi sprechi e per la sua spesa fuori controllo.
Questa politica di tagli ha sicuramente prodotto risultati dal punto di vista della riduzione delle risorse allocate. Difatti, recentemente, l’OCSE ha svolto un’indagine statistica sugli esiti di tale drastica riduzione della spesa sanitaria nazionale, rilevandone una diminuzione che, nel corso degli ultimi anni, l’ha vista attestarsi a circa il 9,2% del PIL. Si tratta di un dato che garantisce all’Italia una performance migliore di quella Germania (11,3%), della Francia (11,6%) e dei Paesi Bassi (11,8%).

Ciononostante, nel corso dell’ultimo biennio, è emersa chiaramente la chiara insufficienza di una politica d’intervento basata sui soli tagli lineari. Tale presa d’atto ha prodotto un cambio di filosofia, che ha spinto ad operare i tagli alla spesa sanitaria soltanto a seguito di un attento monitoraggio delle sue varie componenti. In tal modo, sono state individuate analiticamente le tipologie dei servizi erogati, le loro priorità di intervento ed il loro tasso di efficienza. Inoltre, tale metodologia ha rilevato anche l’origine di molti sprechi nell’erogazione delle prestazioni sanitarie.
A fronte di questa nuova tendenza, vi è stato recentemente un revirement, in quanto si è tornati a discutere su ulteriori tagli (diretti ed indiretti) all’ammontare del Fondo Sanitario Nazionale. In altri termini, si tratta di una nuova riduzione dell’ammontare della spesa sanitaria, operata senza dare l’adeguata attenzione all’effettiva attuazione dei principi contenuti nel “Patto per la Salute 2014-2016” e, quindi, senza introdurre nessuno dei necessari cambiamenti strutturali di cui abbisogna il Servizio Sanitario Nazionale.
Probabilmente, sarebbe più efficace l’introduzione di un omogeneo modello organizzativo del Servizio Sanitario Nazionale, capace di assicurare l’analisi, la valutazione ed il controllo dei costi sostenuti dai singoli Sistemi Sanitari Regionali.
Tuttavia, una simile capacità di misurazione necessita di un non ancora realizzato sistema unico informatico basato su un’unica banca dati e alimentato da indicatori omogenei e condivisi tra lo Stato, le Regioni e i stakeolders. Solo in tal modo, sarà possibile programmare ex ante le attività ed operare tempestive correzioni in itinere. Ovviamente, il presupposto per avviare queste attività è la sempre più necessaria realizzazione di un’infrastruttura informatica meno frammentata.
Queste ulteriori affermazioni non devono ingenerare l’errata convinzione che non sia possibile ridurre ulteriormente i costi del Servizio Sanitario Nazionale, come, ad esempio, quelli afferenti l’acquisizione di beni e servizi non prettamente sanitari. Tuttavia, bisogna essere consapevoli che la riduzione della spesa sanitaria ha raggiunto un livello tale da ridurre drasticamente la possibilità di operare ulteriori tagli di rilevanti dimensioni.
Al contempo, le future riduzioni di spesa non possono interessare l’innovazione tecnologica, ma, anzi, sarà fondamentale la previsione di risorse adeguate a suo favore, per rendere il Sistema Sanitario Nazionale capace di sfruttare i dati prodotti da un sempre più puntuale sistema informativo.

In estrema sintesi, bisogna elaborare strategie capaci di trovare un giusto equilibrio tra il contenimento della spesa sanitaria ed il mantenimento della qualità nell’erogazione dei LEA.

L’esperienza maturata in materia di controllo della spesa nelle Regioni interessate dal Piano di Rientro dimostra che le strategie adottate sono state capaci di assicurare il pareggio di bilancio, focalizzando le azioni intraprese principalmente sui fattori economici. Invece, si è finora dedicata scarsa attenzione alla riqualificazione dei singoli Sistemi Sanitari delle Regionali. Si tratta di una situazione destinata, nel medio e lungo periodo, ad ampliare ulteriormente il divario già esistente tra tali Regioni “commissariate” e quelle definite “virtuose”.
Tale situazione desta ancor più preoccupazione, se si considera che la crisi economica che da diversi anni condiziona lo sviluppo dell’intero Paese necessita di approcci innovativi e non meramente contenitivi, dovendo affrontare il problema di una spesa sanitaria che appare sovente programmata secondo parametri non più coerenti con la società e l’economia contemporanee. Pertanto, appare ormai ineludibile procedere ad una analisi critica delle politiche sanitarie nazionali e regionali finora applicate, per, poi, introdurre nel Sistema Sanitario Nazionale nuovi strumenti d’intervento capaci di assicurare livelli di assistenza adeguati, pur assicurando il raggiungimento degli obiettivi di risparmio prefissati.
In tale ottica, uno dei primi interventi da attuare è rinvenibile nell’introduzione di un unitario percorso di tutela della salute che parte dalla prevenzione, passa per la cura e si conclude con la riabilitazione. Si tratterebbe di un’importante novità, atteso che attualmente tale visione unitaria è spesso assente, comportando, da un punto di vista squisitamente finanziario, l’assenza di sempre più necessarie sinergie e determinando, da un punto di vista di tutela dei pazienti, risposte insufficienti ed incoerenti alle esigenze di cura.

Ovviamente, l’attuazione di una strategia così complessa ed innovativa necessita anche di un completo ripensamento dell’intero sistema sanitario e di welfare, creando un percorso di tutela della persona che non si limiti ad intervenire in un’ottica meramente finalizzata alla cura delle patologie nel momento della loro fase acuta, ma che si dimostri capace, sia di attuare politiche di prevenzione, sia di assicurare un sistema efficace di cure domiciliari. Solo in questo modo, sarà possibile abbattere il sempre troppo elevato tasso di ospedalizzazione delle persone malate. Ovviamente, un simile obiettivo impone un radicale cambiamento culturale da parte di tutti gli operatori del Servizio Sanitario Nazionale.

L’importanza di un mutamento dell’approccio culturale appare evidente se si considera il fatto cherecente taglio di 4 miliardi imposto dalla legge di stabilità 2015 alle Regioni inciderà necessariamente sulla politica sanitaria locale, con particolare riferimento sull’erogazione dei LEA. Un’eventuale permanere di vecchie logiche d’intervento comporterà un sicuro depauperamento della qualità dell’assistenza sanitaria, atteso che i citati tagli alla spesa sanitaria hanno, ormai, ridotto all’osso i possibili ulteriori margini di riduzione della spesa medesima intesa in termini esclusivamente economici.
In altri termini, a fronte dei ridotti margini di un’ulteriore riqualificazione dell’assetto finanziario, sussistono ancora ampi spazi di miglioramento in termini di riqualificazione e riorganizzazione del Sistema, Sanitario Nazionale, sia relativamente ai servizi erogati da parte del settore pubblico, che da quello privato profit.

È bene precisare che l’innovazione di cui stiamo parlando, non può limitarsi ai processi clinici, ma deve coinvolgere tutti gli atti programmatori. Infatti, un sistema sanitario efficace, di qualità e coerente con gli attuali tempi di crisi non può limitarsi al rinnovamento di macchinari e tecnologie, ma deve spingersi fino ad un completo mutamento delle modalità di cura delle persone, favorendo sempre di più la prevenzione e la medicina del territorio e ricorrendo all’ospedale soltanto quando esso sarà veramente necessario.
Coerentemente con tali asserzioni, il Patto per la Salute 2014-2016 ha previsto una serie di attività condivise tra Governo e Regioni che mirano alla produzione di risparmi capaci di concorrere alla creazione di un Servizio Sanitario Nazionale efficiente, efficace e improntato ad appropriatezza ed equità.
In particolare, il Patto per la Salute 2014-2016 mira alla completa riorganizzazione del sistema, al fine di assicurare uniformità e omogeneità nell’erogazione dei servizi. Purtroppo, a fronte di una simile e chiara prescrizione descrittiva, l’attuazione di tali principi è condizionata da tempi dilatati, anche e soprattutto per la complessità e la numerosità degli impegni assunti.

Pertanto, sebbene gli effetti del predetto cambiamento culturale saranno valutabili soltanto nel medio e lungo periodo, è necessario procedere subito in tale direzione, altrimenti sarà impossibile abbandonare la logica dei meri tagli lineari, per dedicarsi alla creazione di un nuovo modello sostenibile di Servizio Sanitario Nazionale, capace di garantire l’effettiva congruità ed adeguatezza delle risorse ad esso assegnate.
Infatti, per garantire ai cittadini interventi sanitari misurabili in termini di benefici associati a costi sostenuti, sarà necessario procedere ad un complessivo ripensamento del vigente modello di Servizio Sanitario Nazionale anche sotto il profilo della riforma delle sue leggi istitutive e dell’introduzione di un’attività programmatoria a lungo termine capace di garantire ai cittadini livelli di assistenza maggiori e coerenti con le nuove esigenze dettate dalla società contemporanea, la quale è caratterizzata dal basso tasso di natalità infantile e dal contemporaneo crescente invecchiamento delle popolazione.

Ovviamente, tale nuovo modello sostenibile di Servizio Sanitario Nazionale comporterà l’introduzione di un un diverso e più moderno metodo di ripartizione delle risorse alle singoli Regioni. Sebbene il diritto alla salute sia economicamente condizionato dai ridotti margini del bilancio statale, ogni istituzione pubblica pubblica preposta alla tutela di questo diritto dovrà adoperarsi per evitare che tale condizionamento interessi i cittadini in modo differenziato in relazione al loro luogo di residenza ed incrementando, in tal modo, un ulteriore disequilibrio tra i singoli territori.
Appare evidente che si tratta di una sfida cruciale per il futuro del nostro Paese, a causa delle sue evidenti ricadute sociali.

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