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FONDO DI GARANZIA PER LA PRIMA CASA. PUBBLICATO IL DECRETO ATTUATIVO.

di Michele De Sanctis

Adottato lo scorso 31 luglio e registrato dalla Corte dei Conti in data 3 settembre, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 226 del 29/09/2014 il decreto MEF di attuazione del Fondo di garanzia ‘prima casa’, previsto dalla L. n. 147/2013 (cd. Legge di Stabilità), per la concessione della garanzia dello Stato sui mutui ipotecari relativi all’abitazione principale.

Il Decreto in parola individua in Consap S.p.A. (società controllata al 100% dal MEF) l’ente che gestirà il Fondo e, all’art. 1 e al successivo art. 3 co. 4, definisce le categorie per cui la Legge di Stabilità (all’art. 1, comma 48, lett. c L. n. 147/2013) prevede una corsia preferenziale nell’accesso alla garanzia per la prima casa. Ecco le operazioni ammissibili alla garanzia del Fondo.

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Ai sensi dell’art. 3 del Decreto, alla garanzia del fondo possono essere ammessi i mutui ipotecari per l’acquisto e per gli “interventi di ristrutturazione e accrescimento dell’efficienza energetica” relativi a immobili siti nel territorio nazionale da adibire ad abitazione principale. Sono, peraltro, ammissibili alla garanzia in parola i mutui ipotecari di ammontare non superiore a 250.000 euro, erogati in favore dei mutuatari per l’acquisto anche con accollo da frazionamento, ovvero per l’acquisto e per interventi di ristrutturazione e accrescimento dell’efficienza energetica, di unità immobiliari site sul territorio nazionale, da adibire ad abitazione principale del mutuatario.
L’immobile che si intende acquistare per poi essere adibito ad abitazione principale non deve, però, rientrare nelle categorie catastali A1, A8 e A9 e non deve avere le caratteristiche di lusso indicate nel decreto del Ministero dei Lavori Pubblici del 2 agosto 1969, n. 1072. Inoltre, alla data di presentazione del mutuo, è necessario che il mutuatario non sia già proprietario di altri immobili ad uso abitativo, salvo quelli di cui abbia acquistato la proprietà per successione mortis causa e che siano in uso a titolo gratuito a genitori o fratelli.

Il Gestore di cui all’art. 1, nelle attività di ammissione alla garanzia dei mutui ipotecari di cui al comma 1, in presenza di domande pervenute nella stessa giornata, deve assegnare priorità ai mutui erogati a favore:

– delle giovani coppie;
– dei nuclei familiari monogenitoriali con figli minori;
– dei conduttori di alloggi di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati;
– dei giovani di età inferiore ai 35 anni titolari di un rapporto di lavoro atipico, di cui all’art. 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. riforma Fornero).

LEGGI ANCHE ‘TRENTENNI E LA CRISI. FIGLI CONTRO PADRI.’

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Per i mutui ai quali viene assegnata priorità ai sensi del comma 4, il tasso effettivo globale (TEG) non potrà essere superiore al tasso effettivo globale medio (TEGM), così come pubblicato trimestralmente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in base alla legge 7 marzo 1996, n. 108.

Potranno effettivamente erogare i mutui garantiti dal Fondo le banche e gli intermediari finanziari, secondo quanto disciplinato, oltreché dal Decreto in parola, dai Protocolli d’intesa da stipularsi tra Dipartimento del Tesoro e Associazione Bancaria Italiana (ABI).

L’ammissione alla garanzia del Fondo avverrà per via telematica. A raccogliere le domande sarà la banca o l’intermediario finanziario che, verificata la regolarità delle stesse, le trasmetterà a Consap, che, come già anticipato, sarà il soggetto gestore dello strumento.

La garanzia del Fondo verrà, quindi, concessa nella misura del 50% della quota capitale: per ogni operazione di finanziamento ammessa, la Consap accantonerà a coefficiente di rischio un importo non inferiore al 10% dell’importo garantito del finanziamento stesso.

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La domanda deve contenere dichiarazione sostitutiva di certificazione e di atto di notorietà del richiedente il mutuo circa il possesso dei requisiti e delle eventuali priorità e, una volta raccolta dal soggetto finanziatore, sarà verificata dallo stesso la correttezza e regolarità di quanto autocertificato in essa, e verrà quindi trasmessa alla Consap, che assegnerà alla richiesta un numero legato all’ordine di arrivo. Verificata la disponibilità del Fondo, entro 20 giorni la Consap comunicherà al finanziatore l’ammissione alla garanzia. L’efficacia della garanzia del Fondo avrà decorrenza in via automatica dalla data di erogazione del mutuo, anche se l’erogazione resterà una facoltà dei soggetti finanziatori.

Tuttavia, affinché il fondo diventi operativo è necessaria la firma del protocollo di intesa tra Tesoro e ABI, cui si accennava sopra, che determinerà le modalità di adesione degli istituti di credito. Solo così, infatti, si potrà finalmente procedere alla concessione dei mutui.

Dunque, precedenza per i mutui in favore di giovani under 35 e precari, ma ragazzi, pazientate, perché c’è ancora un’altra tappa. Se, invece, siete nati tra la fine del 1979 ed il 1980, che posso dirvi? Io a inizio anno ne faccio 35…

Clicca qui per il testo integrale del Decreto Garanzia Prima Casa del 31 luglio 2014.

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SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE.

Capita a volte di leggere racconti di coming-out toccanti, storie di accettazione e di amore incondizionato. Altre volte questi racconti assumono sfumature tragiche e la storia che leggiamo parla di abbandoni e separazioni. Quello di cui mi accingo a parlarvi è il resoconto traumatico e doloroso di un rifiuto.

di Andrea Serpieri

Provare a spiegare a un eterosessuale come si senta un figlio gay prima di uscire allo scoperto con i suoi non è facile. Ancora più difficile – impossibile?- è tentare di farlo capire a quei tanti italiani che pensano che un diverso orientamento sessuale sia una scelta e che non vada quindi sbandierato, a quelli che credono che esista una cura per guarirne, a quelli per cui va bene a patto che chi è così non si faccia vedere in giro, a quelli che ritengono che l’istinto sessuale vada represso, a quelli che credono in Madre Natura e ai peggiori di tutti, quelli che confidano nel castigo eterno per chi sia dedito alla sodomia. Queste storie servono a loro, perché comprendano che un omosessuale non è un mostro, ma un essere umano. Queste storie non servono a fare propaganda in favore delle lobby gay, finanziate dai poteri forti. Supportare i diritti dei gay non è un atteggiamento da radical chic, ma da persona civile. Sui social network ho ultimamente letto le peggiori bestialità sui gay, alcune delle quali ho appena elencato. La peggiore, però, è quella per cui ci sarebbero problemi più importanti in Italia. Non è vero. La questione degli omosessuali in questo Paese è importante quanto la crisi economica. Perché se i gay pagano le tasse come gli altri cittadini, allora devono avere gli stessi diritti civili. Invece non è così, perché sono gay. Dunque, o parliamo solo delle cose importanti per le famiglie italiane e non facciamo più pagare le tasse ai gay, o il loro problema diventa un problema importante per tutta la nazione. Anche per i cattolici e i fascisti. È per questo che spero che il racconto che state per leggere raggiunga il maggior numero di persone: affinché dall’altra parte si intuisca, per lo meno, una parte della sofferenza che c’è nell’essere considerato dalla società un diverso. E nel sentirsi rifiutato per qualcosa che non si è scelto. Questa è la storia di Daniel.

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Daniel Ashley Pierce è un giovane ventenne della Georgia, che mercoledì scorso ha deciso di uscire allo scoperto con i suoi. Conoscendo la sua famiglia, temeva di subire delle violente ripercussioni a causa della sua rivelazione, così si è preventivamente organizzato per filmare di nascosto la tragedia. A quel punto sono iniziate le riprese del video che tutti voi potete visualizzare su YouTube a questo link.

In una mail inviata ad Huffington Post Usa, Daniel rivela, “Ho voluto assicurarmi che ci fossero prove nel caso in cui fosse accaduto qualcosa.”

Il video di Daniel è subito diventato virale. Nei suoi cinque minuti non si concentra mai sul volto dei suoi familiari, di cui, però, è possibile ascoltare la voce mentre lo aggrediscono dicendogli che la sessualità è una scelta.

“Io credo nella parola di Dio e Dio non crea nessuno in quel modo. È un percorso che si è scelto.” Dice una donna nella stanza, presumibilmente la nonna. E continua avvertendo il giovane che se sceglierà quel percorso la famiglia non lo supporterà più. Dovrà andarsene. Perché lei non può permettere alla gente di credere che giustifichi ciò che fa il nipote.

“Sei pieno di stronzate!”, dice la madre. Lui le chiede di lasciarlo restare a casa, lei si rifiuta. “Mi hai detto al telefono che non hai fatto questa scelta. Sai che non è iniziata così. Sai dannatamente bene che l’hai scelto.” Rincara la dose, poi, sostenendo che il padre ha fatto tutto il possibile per aiutarlo. L’uomo non ha nulla di cui rimproverarsi.

A questo punto, i due giungono alle mani. Anzi, è lei che picchia violentemente il figlio. L’obiettivo inizia a muoversi e si sente Daniel urlare alla donna di smettere di colpirlo. Allora un uomo, il padre, grida: “Sei un maledetto frocio!” e, alla fine del video, qualcuno apostrofa ulteriormente Daniel, definendolo ‘una vergogna’.

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Daniel, ormai fuori di casa, decide allora di sfogarsi su Facebook:
Che giornata…Pensavo che svegliarsi alle 9:48 ed arrivare al lavoro con 15 minuti di ritardo sarebbe stato il problema più grande di oggi. Ignoravo, invece, che il mio problema più grande sarebbe stato quello di essere rinnegato per sempre e cacciato dalla casa in cui ho vissuto per quasi vent’anni. E oltre al danno la beffa: mamma mi ha preso a pugni in faccia più volte, incitata da mia nonna. Sono ancora sotto shock e completamente incredulo.

La loro reazione, ha spiegato il ragazzo all’Huffngton, era prevedibile: sono molto credenti e conosceva la loro opinione sui gay. Dopo l’incidente, questa devota famiglia non ha contattato i media per dare la propria versione dei fatti, ma ha lasciato un messaggio vocale a Daniel, intimandogli di rimuovere il video dell’incidente da YouTube. Il ragazzo, peraltro, non ha denunciato l’aggressione alle forze dell’ordine. Ma il filmato, originariamente postato dal compagno di Daniel sulla community Reddit e subito rimbalzato sul sito LGBT del Nuovo Movimento dei Diritti Civili, non solo è ancora on line, ma ha, altresì, ottenuto più di 3.874.000 visualizzazioni ed oltre 31.000 commenti. La veridicità del video è stata confermata dallo zio del ragazzo, Teri Cooper, ad Advocate.com. È stata, altresì, lanciata, ad opera del suo ragazzo, una campagna GoFundMe per raccogliere i fondi necessari a coprire le spese di Daniel. In soli tre giorni, dal 27 agosto ad oggi, sono già stati raccolti circa 94.000 $, ma nemmeno un centesimo – temo – potrà compensare la perdita degli affetti familiari per questo ragazzo appena rimasto ‘orfano’.

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L’audio del video e l’impeto delle urla che ascoltiamo parlano da sé. Ho cercato di fornirvi un resoconto breve, ma il più possibile fedele, tralasciando la disputa tra nonna e nipote su verità scientifiche e dogmi religiosi. Guardatelo, non occorre conoscere la lingua per capire che qualcosa di sbagliato deve esserci nei familiari di Daniel. L’unica cosa contro natura che traspare è proprio l’aggressione di un figlio da parte di un genitore e solo perché questo figlio non è come lo si vorrebbe. Forse è vero che certe famiglie meritano soltanto menzogna. Perché far conoscere loro la nostra più intima verità significa munirli di una potente arma per distruggerci. E ciò che ci resta dopo la visione del filmato è solo tanta tristezza.

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IN BOCCA AL LUPO, DANIEL!

VIDEO: How not to react when your child tells you that he’s gay.

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Il volontariato d’impresa si diffonde in Italia

 

 

di Germano De Sanctis

 

Il volontariato d’impresa si sta affermando tra gli imprenditori italiani. Infatti, i dati statistici indicano come sia in aumento il ricorso a questa particolare strategia di responsabilità sociale d’impresa (cioè, la sfera che tocca scelte e implicazioni etiche nella visione complessiva di un’azienda) da parte del sistema imprenditoriale italiano.

Il volontariato d’impresa consiste nella possibilità concessa dai datori di lavoro ai propri dipendenti di dedicare una o più giornate al mese (di norma, tre) a favore delle associazioni “no profit”, considerandole come normali giornate di lavoro retribuito.

Si tratta di numeri che appaiono non particolarmente rilevanti, se osservati soltanto in termini assoluti, ma estremamente significativi se considerati sotto l’aspetto della loro crescita esponenziale. Infatti, si è in presenza di un dato che emerge chiaramente dalle risultanze dell’ultimo rapporto dedicato a questo settore e redatto dall’Osservatorio Socialis (http://www.osservatoriosocialis.it/) di Errepì comunicazione insieme all’istituto Ixè (http://www.istitutoixe.it/).

Infatti, nel 2011, le imprese che dichiaravano di impegnarsi nella responsabilità sociale d’impresa erano il 64% del campione. Quest’anno, tale dato statistico è salito al 73% delle imprese italiane con più di 80 dipendenti.

Ovviamente, il volontariato d’impresa si esplica in forme decisamente eterogenee, diverse l’une dalle altre. Tuttavia, analizzando bene il fenomeno, è possibile individuare alcuni minimi comuni denominatori.

In primo luogo, tali iniziative si connotano sostanzialmente per le seguenti due modalità d’intervento:

  1. l’impresa interessata promuove azioni di volontariato nelle quali coinvolgere i propri dipendenti, fuori dalla realtà aziendale;

  2. l’impresa interessata organizza azioni di volontariato per i propri lavoratori anche in orario lavorativo.

In secondo luogo, la gran parte delle iniziative di volontariato d’impresa (circa il 42% del totale) si caratterizza per il rapporto instaurato dalle imprese interessate con il proprio territorio di riferimento, ricorrendo sovente al volontariato sociale ivi presente.

Appare interessante notare come l’analisi statistica del fenomeno abbia rilevato il fatto che la maggior parte imprese coinvolte (il 47%) ricorra a tale forma di responsabilità sociale per migliorare la propria reputazione, attraverso un utile riposizionamento dell’immagine ’aziendale. Di conseguenza, gli imprenditori puntano su iniziative ad alta visibilità mediatica (40%), oppure strettamente connesse al tessuto sociale locale (31%). Si deve anche rilevare che un nutrito numero di imprenditori (il 28%) sceglie il volontariato d’impresa per attrarre nuovi clienti e/o migliorare le relazioni aziendali interne (il 27%). Infine, sono rinvenibili anche motivazioni di ordine etico e/o connesse allo sviluppo sostenibile.

Un aspetto molto interessante di tale fenomeno è rappresentato dalla sua capacità d’implementare le conoscenze professionali dei lavoratori coinvolti, al punto da passare, in breve tempo, da esperienze di mero volontariato ad attività produttive certificate. Un simile risultato è reso possibile dal fatto che il volontariato d’impresa è capace di rafforzare le capacità trasversali, attraverso la realizzazione di percorsi di apprendimento non-formali, informali e certificabili.

In altri termini, il volontariato d’impresa è in grado di sviluppare le “soft skills”, ossia le competenze comportamentali (o manageriali, per chi ricopre ruoli di coordinamento). Esse sono quelle competenze emotive e sociali (non tecniche, ma comunque essenziali) ritenute necessarie per poter ambire ad un riconoscimento professionale per chi ha già un lavoro e che sono destinate ad assumere sempre più importanza nel curriculum professionale di ogni lavoratore.

Pertanto, il volontariato d’impresa si trasforma in un volontariato di competenza, in quanto siffatta forma d’intervento da parte delle imprese si traduce in autentica innovazione sociale.

Ovviamente, tale forma di volontariato non si limita a migliorare un curriculum, ma, ovviamente, dona a chi vive una simile esperienza un arricchimento del proprio bagaglio emotivo più intimo.

Affinché questa tendenza si radichi e si diffonda sempre di più, è necessario creare relazioni stabili e radicate tra il sistema imprenditoriale ed il mondo degli operatori no profit. Infatti, a fronte della frammentaria e talvolta episodica attività di fondazioni e di enti intermedi che mettono in contatto imprese e terzo settore, l’attuale legislazione statale di riferimento non prevede alcun sistema incentivante dell’impegno sociale delle imprese, attraverso, ad esempio, incentivi, sgravi fiscali o premialità capaci di strutturare permanentemente il fenomeno in questione.

Infatti, dalle rilevazioni statistiche emerge il fatto che la spinta ad intervenire in tale settore arrivi principalmente dall’opinione pubblica (il 16% del campione vede in essa il sostenitore più convinto della responsabilità sociale), dall’impresa (il 18%), dal terzo settore (il 15%). Invece, le Pubbliche Amministrazioni e le Università sono considerate meno interessate (solo il 5% del campione), a fronte di un 75% del campione che ritiene fondamentale un intervento pubblico in tale settore.

In altri termini, le imprese sono indotte ad adottare forme di volontariato d’impresa soltanto sotto la spinta dell’opinione pubblica o del terzo settore. Si tratta di un sostegno necessario, ma chiaramente non sufficiente e che necessita di un ormai deciso e non più prorogabile intervento da parte della Pubblica Amministrazione.

 

 

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CIVIL PARTNERSHIP ALLA TEDESCA. ANZI NO, ALL’ITALIANA.

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di Andrea Serpieri

“A settembre, dopo la riforma della legge elettorale, realizzeremo un impegno preso durante le primarie, un impegno vincolante: quello sui diritti civili“. A dirlo è stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. La promessa giunge direttamente dall’Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Renzi è tornato a parlare di diritti civili e all’assise Dem ha illustrato il suo progetto sulla civil partnership alla tedesca, già annunciata durante la campagna elettorale per le primarie, ma finora rimasta sostanzialmente fuori dall’agenda politica dell’esecutivo. Ricordiamo che a tutt’oggi la legge contro l’omofobia stagna al Senato da settembre scorso. E a un anno da quell’ultimo (debole) step, il prossimo mese di settembre sarà quello della riforma copernicana della società italiana.

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Riforma difficile, comunque: il premier sarà infatti costretto a trattare con la destra di Alfano e Giovanardi (sic!) e il centro di Monti, ma forse l’apertura di Grillo sulla legge elettorale, potrebbe portare esiti insperati anche su altri temi importanti come questo e magari i grillini si sporcheranno le mani con quelli del PD. Magari. La speranza, si sa, è l’ultima a morire, ma, come si dice, chi di speranza vive, disperato muore: il M5S è lo stesso non-partito che nel PE è alleato di un’orda di xenofobi della peggior specie e di omofobi convinti guidati da Capitan Farage.

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Non sarà, quindi, una proposta indolore, anzi. Francesco Clementi come altri dello staff di Renzi, alla fine del 2013 aveva avanzato proposte alternative, come il riconoscimento delle Coppie di fatto, ottime proposte, animate dai migliori intenti (nessuno vuol metterlo in dubbio), ma pur sempre insufficienti per un vero salto di qualità. Perché? Perché innanzitutto bisogna sgomberare il campo da strumentalizzazioni e contrapposizioni ideologiche, operando in maniera davvero laica ma pragmatica, dando dignità ‘giuridica’ all’amore che lega due persone dello stesso sesso. Il semplice riconoscimento di fatto verrebbe a creare un istituto di serie B. In pratica, ciò che verrebbe a riconoscersi sarebbe solo il valore della diversità naturale del rapporto rispetto a quello tradizionalmente matrimoniale. Ma affinché l’Italia riparta, perché sia davvero l’Italia della svolta buona, c’è bisogno di riforme profonde, non solo in campo istituzionale ed economico. Serve un terremoto come lo fu per la famiglia tradizionale quando vennero introdotti il divorzio e in seguito l’aborto.

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Ad un Paese come il nostro abituato a stanche contrapposizioni tra laici e cattolici che da trent’anni bloccano qualsiasi processo di riforma civile serve una rivoluzione, come detto prima, copernicana della società. La colpa di questo stato paludoso delle riforme, tuttavia, non è solo della Chiesa e della destra. Sul blocco delle riforme civili ci hanno lucrato in tanti, troppi forse. Anche tra coloro che si stracciavano le vesti proclamando o matrimonio o niente, nella sinistra radicale, che raccoglieva il consenso dei gay insoddisfatti, ma anche in certe associazioni gay che sostenevano quella sinistra. Di fatto fermando il cammino verso un’evoluzione del dialogo. Anzi del non-dialogo. È un Paese strano il nostro: si afferma con forza per negare, infine, ciò per cui si lotta.

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Finora solo alcuni sindaci e consigli comunali (a Grosseto, Latina, Fano e ora Napoli) si sono mossi per ordinare la trascrizione dei matrimoni conclusi all’estero da coppie gay e lesbiche italiane. Un piccolo passo, che insieme al recente convegno romano organizzato il 30 maggio scorso da Magistratura Democratica, Rete Lenford e Articolo 29 sulla discriminazione matrimoniale di gay e lesbiche, dimostra l’insofferenza della società civile e giuridica per una discriminazione sofferta quotidianamente dalle persone omosessuali, e che significativamente si muove ‘dal basso’, dalle aule di giustizia dei tribunali di periferia, dalle università e dai comuni, per rimuovere l’assordante silenzio del Parlamento.

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Ma torniamo all’attualità: all’annuncio di Renzi. Il Governo italiano sta lavorando su un disegno di legge che introduca entro la fine di quest’anno una forma di unioni civili, peraltro, già sperimentate in altre realtà come Germania e Regno Unito. Non parliamo di matrimonio, quindi. Ma di civil partnership. Vediamo di cosa si tratta. Dal punto di vista dei diritti e dei doveri acquisiti non c’è nessuna differenza tra il matrimonio civile e la civil partnership: eredità, pensione, visite in ospedale, protezione contro la violenza domestica. Nel caso delle civil partnership britanniche, inoltre, l’adozione è ammessa sia a singoli che a coppie, senza distinzione di orientamento sessuale e le responsabilità sono le medesime che per una coppia etero sposata con il rito del civil marriage. Ma le nostre unioni saranno di ispirazione teutonica: per cui tranquilli, moralisti italiani, ché in programma non c’è la corruzione di anime innocenti, la cui sorte verrà lasciata alla follia omicida dei loro stimati padri biologici, nell’intervallo di tempo tra un amplesso consumato con la moglie già uccisa al piano di sotto e una partita di calcio in TV con gli amici del bar.
Tornando al tema del post, se i diritti e i doveri della civil partnership sono gli stessi che scaturiscono dal matrimonio, dobbiamo, allora, chiederci qual è la differenza tra i due istituti. Quella principale è che la civil partnership non può avere nessuna connotazione o riferimento alla religione, mentre la parola ‘matrimonio’ nell’immaginario collettivo ha già, di per sé, una connotazione religiosa. L’altra differenza è invece di natura tecnica: una civil partnership per essere valida deve solo essere firmata dai coniugi e quindi non è obbligatoria una cerimonia. Per un matrimonio, invece, è obbligatorio che vengano scambiate alcune formule rituali prima della firma da parte dei coniugi.

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Rispetto al riconoscimento delle coppie di fatto, d’altro canto, che registrano a posteriori un rapporto già consolidato, fornendogli diritti e doveri, che dovrebbe essere disciplina aggiuntiva estesa a tutte le coppie, le civil partnership sono un contratto pubblico che fa sorgere diritti e doveri della coppia che dichiara di voler condividere un progetto di vita comune per il proprio futuro.

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Alla luce della recentissima sentenza della Corte Europea che ha equiparato il trattamento delle coppie sposate con unioni civili rispetto a quelle che hanno contratto matrimonio, il Governo è ormai investito di un’urgente richiesta di sanare quel vuoto legislativo, già denunciato dal Presidente della Corte Costituzionale Gallo, solo un anno fa, che costituisce la prima e più inaccettabile delle discriminazioni che esistono in Italia. Ha senso disporre una strategia antidiscriminazione senza affrontare la più importante tra queste? Ha senso che ancora una volta la politica se ne lavi le mani delegando quel che può alle associazioni gay oppure ad un Parlamento che non ha ancora avuto neanche la forza di far diventare legge una proposta contro l’omofobia? Oggi, dall’Europa, siamo ancora clamorosamente fuori. Fuori luogo, fuori tempo massimo, fuori tutto.

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HO FATTO OUTING E ADESSO SONO FELICE!

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di Andrea Serpieri

Coming out significa uscire allo scoperto. Fare outing vuol dire rivelare il proprio orientamento sessuale al mondo e vivere una vita alla luce del sole. Io l’ho fatto e devo ammettere che ciò che si dice in proposito è tutto vero: fa bene alla salute. Gay, lesbiche e bisessuali che dichiarano apertamente la propria condizione sessuale, anche se solo alla famiglia o agli amici, conducono una vita più serena, hanno meno ansie e, tutto sommato, sono più rilassati. Per non parlare di tutta una serie di complessi che ci si lascia alle spalle vuotando il sacco. Semplicemente smettendo di mentire. Non è, però, solo una constatazione. C’è anche un fondamento scientifico. I fratelli e le sorelle di condizione che dichiarano il proprio status senza vergogna al mattino hanno livelli di cortisolo più bassi, dal che dipende un minore stress rispetto a quanti nascondono la loro scelta. Anche i livelli degli altri indicatori di salute e benessere come colesterolo, insulina, adrenalina e pressione del sangue risultano migliori. Diminuiscono, inoltre, gli episodi di ansia e gli stati depressivi. Insomma la sincerità è meglio del Seropram.

A parte l’ultima affermazione, di cui rivendico la paternità, quanto ho appena sostenuto è il risultato di una ricerca promossa dall’Università di Montreal che ha preso in esame 87 volontari sui 25 anni, di cui la metà eterosessuali. Attraverso questionari, test psicologici e analisi mediche si è tentato di delineare un quadro sullo stato generale di salute dei soggetti esaminati. I primi risultati sperimentali hanno evidenziato che chi vive una sessualità libera, consapevole e trasparente, presenta un quadro clinico migliore di chi vive all’ombra. Parliamoci più chiaramente. Fare outing vale per noialtri: che lo si voglia fare davanti a un microonde mentre si assaggia un risotto 4 salti in padella Findus o con modalità meno televisive, l’importante è che si riesca a vivere liberamente e serenamente la propria vita sessuale. Il che, nondimeno, vale anche per gli eterosessuali. Sdoganiamo certi tabù! Il sesso è bello chiunque sia il vostro partner. Fatelo. Amatevi e divertitevi. Perché non è un peccato. Magari per noi che siamo cresciuti in un Paese cattolico è difficile da capire. Ma dobbiamo sforzarci. Avete presente quella sigaretta che vi godete dopo? O la sensazione che provate anche senza sigaretta? Immaginate una vita intera così. Ecco…

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Vero è che i risultati per ora sono ancora provvisori, la ricerca è ancora in una fase sperimentale ed il campione su cui si è basata è troppo ridotto per poter avere un reale valore scientifico. Ma, in effetti, l’identità sessuale è una componente significativa dell’individuo e viverla con coerenza significa certamente migliorare la propria qualità di vita.
Un valido approccio alla psicologia, per esempio, ci ha insegnato che quando non si vive in armonia con i bisogni, i desideri e le convinzioni dell’Io si genera una distonia, ovvero una condizione di disallineamento tra i comportamenti e l’essere che è, poi, alla radice delle nevrosi. Rispondere, dunque, in maniera adeguata alle proprie pulsioni sessuali è prima di tutto una questione di salute. Certamente il coming out è un momento destabilizzante e doloroso. Si teme, innanzitutto, il giudizio delle persone a cui vogliamo bene, da cui non vorremmo mai essere scacciati, si ha paura di perdere gli affetti fondamentali di un individuo e si vive il senso di colpa per aver contravvenuto a regole sociali e morali che si presume siano assolute. Ma che tali non sono, appunto perché sociali e morali e, quindi, in costante evoluzione con la società stessa. Invece, presentarsi per quello che si è veramente, ha indiscutibili effetti positivi a lungo termine, sia a livello personale che socio-relazionale.

Non mi fraintendete. Vivo anch’io in Italia e non mi sognerei mai di istigare nessuno al coming out. Tant’è che gli stessi studiosi di Montreal hanno avuto la premura di precisare che la loro ricerca ha senso solo se collocata nel giusto scenario; si parla, infatti, della possibilità di fare outing relativamente al popolo occidentale. In alcuni Paesi, purtroppo, l’omosessualità è costretta alla clandestinità per cause di forza maggiore, tra cui arresto, tortura e pena di morte. Fortunatamente non è il caso dell’Italia. Tuttavia, anche qui la condanna sociale in ambienti culturalmente arretrati, filofascisti e patologicamente influenzati dalle omelie domenicali può ancora essere ugualmente severa. Per cui l’outing fatelo solo se siete davvero convinti che sia giusto. Sia per voi che per i vostri cari.

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L’Italia cambierà: qualche passo è stato fatto, ma sono ancora tanti quelli da fare: se pensiamo che una scelta di marketing della Findus sia una conquista per i nostri diritti civili vuol dire che siamo messi ancora molto male. È perciò importante ricordare che affinché la società sia in grado di evolversi positivamente ed orientarsi verso l’universalizzazione dei diritti civili, è necessario il contributo di tutti noi. È un cambiamento lento, ma inevitabile. E ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte. Per questo su questo blog abbiamo deciso di dedicare uno spazio importante alle tematiche LGBTQ, perché è anche dalla condivisione di queste idee che passa l’educazione alla legalità di una società, quella legalità che ispira sempre il nostro desiderio di informare. Ed è soprattutto per questo che noi non ci stancheremo mai di dire stop all’omofobia e alla violenza di genere.

E voi che fate? Siete con noi, amici?

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Don Milani, il sacerdote che difese la vera politica.

Don Lorenzo oggi avrebbe novant’anni, sarebbe uno di quei nostri vecchi (quanti ce ne sono ormai) svegli e curiosi. E invece se n’è andato senza aver raggiunto neppure i quarantacinque, senza arrivare neanche a quel 1968 che le sue parole e i suoi gesti avevano così anticipato e influenzato.

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di Walter Veltroni, da l’Unità del 27 maggio 2014

Don Lorenzo Milani se lo portò via un tumore, ma gli ultimi mesi volle passarli con i suoi ragazzi lì nella canonica di Barbiana, dove insieme avevano scritto quella «Lettera a una professoressa» diventata quasi un libro di scuola, di un’altra scuola.

Barbiana è una frazioncina di Vicchio nel Mugello, tra Firenze e le montagne. Quando don Lorenzo ci finì a fare il prete aveva sì e no duecento abitanti. Un paesetto microscopico e appartato nell’Italia del boom, nell’Italia che aveva smesso di essere rurale e agricola per diventare urbana e industriale. Da quest’angolo quasi sperduto Don Lorenzo Milani seppe guardare avanti e determinare un pezzo del futuro. Del nostro, perché lui non fece neppure in tempo a vederlo.

Oggi, mentre festeggiamo i novant’anni dalla sua nascita e misuriamo la distanza che ci separa dalla sua morte qualcuno si chiederà se la sua storia ha ancora qualcosa da insegnarci, qualcuno penserà che è venuto il momento di lasciarcelo alle spalle. Io penso il contrario. Penso che questo fiorentino colto e irruento, quest’uomo di cui qualcuno ricorda la bontà e qualcun altro il cattivo carattere, è uno di quei padri fondatori di cui l’Italia ha ancora tanto bisogno. Io, quando mi è capitato di partire per una esperienza nuova (che fosse alla fine degli anni Novanta o nel più vicino 2007) son sempre ripartito da Barbiana. Fuori dalla canonica c’è ancora il cartello con su scritto «I care». Che ha a che fare un motto in inglese per quella scuola di ragazzini poverissimi? Tutto: «I care» (difficile tradurlo in italiano, me ne curo, ne prendo cura) è – lo diceva don Lorenzo – il contrario esatto del «me ne frego» dei fascisti, è il segno di una attenzione, di una empatia, di una comunità. Non era il maestro don Milani ad «aver cura» dei ragazzi (quel motto sarebbe stato in questo caso un segno di autoaffermazione), è ognuno di noi a doversi far carico di tutti e di ciascuno.

Dicono che don Lorenzo Milani fosse un maestro esigente, lo era certamente: proprio perché partiva dagli ultimi voleva che questi fossero i primi. Benché il Sessantotto avesse letto e riletto la «Lettera ad un professoressa» (un atto di accusa implacabile alla scuola di classe, che respingeva i poveri, che selezionava a vantaggio dei più ricchi, che escludeva gli ultimi allontanandoli da ogni sapere, e quindi da ogni potere) mi viene il dubbio che l’avesse capita. Il sei politico, il livellamento in basso, il successo facile erano lontani mille miglia dal clima che si respirava nelle aule della canonica o sotto al pergolato in cui si faceva lezione nei mesi di sole. La scuola di Barbiana era insieme dura ed esigente ma era anche collaborativa e amica. Per Don Milani diritto allo studio e affermazione delle pari opportunità, realizzazione del singolo individuo come cittadino e impegno per la pace non furono principi astratti. Erano idee da tradurre nella realtà, parlando al cuore delle persone, con tutte le forze disponibili e (se serviva) pagando in prima persona la coerenza delle proprie posizioni.

Pagina 3 di 3 Don Milani, il sacerdote
che difese la vera politica Di Walter Veltroni 27 maggio 2013 A – A
A novant’anni dalla nascita parole come partecipazione e responsabilità, valori per lui fondamentali, sono anche oggi i cardini di una comunità che vuol essere aperta e inclusiva. Così altrettanto attuale è l’idea della centralità della cultura, e della «politica» intesa nel suo senso più alto, per l’emancipazione degli uomini e per lo sviluppo delle comunità.

Certo, credo che l’Italia di oggi viva problemi (sociali, civili, di tenuta della democrazia) apparentemente molto lontani da quelli dell’Italia dei primi anni sessanta in cui la miseria e l’analfabetismo segnavano ancora tanta parte del Paese. Ma credo anche che le questioni dell’oggi non siano meno gravi, anzi forse esse rischiano di essere più drammatiche perché la spinta alla trasformazione di allora appare attenuata, quasi spenta. Abbiamo bisogno di ricominciare e per farlo le parole sono sempre le stesse, quelle indicate a Barbiana da questo sacerdote scomodo e difficile: partecipazione, responsabilità, voglia di cambiare, pari opportunità, comunità. Declinata certo con i modi e le parole di oggi, ma dalla lezione di un maestro esigente e generoso come don Milani non si scappa se non ci si vuole tradire.

Fonte: l’Unità

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Io, prof trans, e i sorrisini dei ragazzi.

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di Carlotta De Leo, da Il Corriere della Sera del 31 maggio 2014

Il supplente di matematica e fisica è entrato in classe in gonna. Gli studenti del liceo scientifico Oberdan di Trieste hanno pensato a un errore: aspettavano un uomo, e invece si sono trovati di fronte una professoressa con tacchi e rimmel. Nessuno sbaglio: Michele Romeo, il docente che in questi ultimi giorni di scuola ha preso il posto di quello di ruolo, è un trans. «Io non sono una travestita, sono androgina: in me convivono aspetti femminili e maschili» dice.
La storia, pubblicata dal quotidiano Il Piccolo , ha suscitato reazioni e polemiche, con genitori che sarebbero sul piede di guerra. «Non mi reputo così importante come il polverone sollevato –dice Romeo – Non ho problemi a parlare di me, e anzi trovo importante che il mio caso abbia aperto discussioni. Spero serva a tutte le persone che vivono di nascosto e con sofferenze simili alla mia».

La scoperta
Nato in Puglia nel 1976, a dieci anni ha scoperto la sua vera identità. «Avevo la passione per gli abiti e le scarpe della mamma, e un amore infinito per le scienze che sono tutt’oggi la mia vita» dice Romeo. E in effetti, nel tempo ha collezionato un curriculum di tutto rispetto: laurea in Fisica a Lecce, due anni al Politecnico di Monaco di Baviera come ricercatore associato, e attualmente un dottorato in nanotecnologie all’università di Trieste. Ed è proprio in questa città che, nel gennaio del 2013, ha sposato la sua fidanzata storica: «Stiamo insieme da 17 anni e lei ha accettato con grande intelligenza la mia decisione».

Il coming out
Cinque anni fa, infatti, dopo una crisi di panico – «unica e terrificante, mi sentivo sdoppiato» – ha iniziato il lungo percorso del coming out. «Mi sono liberato di tutti i fardelli inutili, con grande onestà intellettuale. E ho cominciato a vivere nella massima naturalezza quello che sento di essere – dice – Certo, non mi aspetto che tutti comprendano. Non mi impongo né voglio rivendicare sonoramente i miei diritti: non vado al gay pride, non frequento ambienti Lgbt. Cerco solo quella che comunemente è chiamata normalità».

«Cerco di motivare i ragazzi»
A iniziare dal lavoro. Romeo, è iscritto nelle graduatorie della scuola, «terza fascia, quella dei precari». «Insegno non solo per solo per avere un po’ più di soldi, ma perché credo che sia importante indirizzare i ragazzi – dice – All’università ho fatto il tutor con buoni risultati. Non solo, per circa un decennio durante gli studi ho anche dato lezioni private. Lavoravo tanto con l’obiettivo di fare superare ai ragazzi la maturità o gli esami di recupero a settembre. Non insegnavo solo le formule, ma cercavo di motivarli, nutrivo la loro autostima minata dai docenti, dai genitori e dal contesto. Insomma, volevo portarli ad avere fiducia in se stessi. Insomma, quello che un docente normale deve fare».

«Faccio scorrere l’imbarazzo»
Con questo approccio Michele si presenta a scuola anche oggi. E quando sale in cattedra, di fronte agli immancabili sorrisini e alle battute, resta impassibile. «Faccio scorrere l’imbarazzo iniziale. Una volta finito le risate, i ragazzi sono obbligati a fare i conti con il motivo della loro reazione di disagio. E nella maggior parte dei casi quei sorrisi non tornano più».

«Non voglio fare l’animale da circo»
Più complicato, invece, il rapporto con il mondo degli adulti e dei media. «Ma non sempre. Questa al liceo Oberdan non è stata la prima supplenza, ma la prima a fare rumore» chiarisce. Poi però confessa qualche timore: «Sono preoccupato di quanto sta accadendo, non per me, ma per i miei cari. Da scienziata so bene quello che può accadere: o la cosa si spegne per un non allineamento delle variabili, oppure si amplifica in un effetto butterfly che porterà conseguenze che io non vorrei. Ovvero al circo degli animali di esposizione. Tutta la mia vita è all’insegna dell’onestà e del serio impegno».

«Non c’è nulla di più normale»
Di fronte alle polemiche dei genitori dell’Oberdan, in sua difesa è scesa anche la preside del liceo triestino, Maria Cristina Rocco: «Queste reazioni mi stupiscono: è allucinate che un insegnante venga giudicato dagli abiti che indossa – afferma – La legge tutela i diritti di tutti e siamo noi a dover imparare che la normalità non è rappresentata dalla cosa più frequentate che siamo abituati a vedere». Ai genitori, Romeo direbbe solo poche parole: «Io faccio bene il mio dovere: insegno con la massima dedizione, occupando un posto che mi spetta di diritto. E questo è molto più importante degli aspetti esteriori. Non c’è nulla di più normale per un essere vivente che si esprime liberamente, nel rispetto altrui. Questo vale per me, ma anche per i loro figli».

Fonte: Il Corriere della Sera

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PIAZZA DELLA LOGGIA: QUARANT’ANNI DOPO.

Oggi, 28 maggio 2014, ricorre l’anniversario di una delle più oscure vicende della storia della Repubblica Italiana: la strage di Piazza della Loggia.

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di Michele De Sanctis

È la mattina del 28 maggio 1974, quando, alle 10:02, una bomba esplode sotto i portici di Piazza della Loggia a Brescia, mentre è in corso una manifestazione indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. L’attentato, rivendicato da Ordine Nero, provoca otto morti e il ferimento di altre centodue persone. L’ordigno era stato posto in un cestino portarifiuti e fatto esplodere con un congegno elettronico a distanza.

La prima istruttoria della magistratura portò alla condanna nel 1979 di alcuni esponenti dell’estrema destra bresciana. Uno di essi, Ermanno Buzzi, in carcere in attesa d’appello, fu strangolato il 13 aprile 1981 da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Nel giudizio di secondo grado, nel 1982, la condanne del giudizio di primo grado vennero commutate in assoluzioni, le quali a loro volta vennero confermate nel 1985 dalla Corte di Cassazione. Tuttavia, un secondo filone di indagini, partito nel 1984 in seguito alle rivelazioni fornite da alcuni pentiti, mise sotto accusa altri rappresentanti della destra eversiva; nuovamente gli imputati furono assolti in primo grado nel 1987, per insufficienza di prove, e prosciolti in appello nel 1989 con formula piena.

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Nel corso di tutte le indagini e i procedimenti giudiziari relativi alla strage, si è sempre paventato un coinvolgimento dei servizi segreti e degli apparati dello Stato nella vicenda.

Il fatto più eclatante scaturito dalle indagini fu, in primo luogo, l’ordine proveniente da ambienti istituzionali, ma a tutt’oggi sconosciuti, impartito a meno di due ore dalla la strage affinché una squadra di vigili del fuoco ripulisse con le autopompe il luogo dell’esplosione, spazzando, peraltro, via indizi, reperti e tracce di esplosivo: ciò prima che la magistratura potesse effettuare i rilievi del caso.

In seguito, scomparvero, misteriosamente, anche taluni reperti prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri. Avvenimento che destò un certo sospetto. Sospetto accresciuto dall’ultima e recente perizia antropologica in cui si è individuata in una fotografia di quel giorno la presenza sul luogo di Maurizio Tramonte, militante di Ordine Nuovo e collaboratore del SID.

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Durante la terza ed ultima istruttoria, il 19 maggio 2005 la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la richiesta di arresto per Delfo Zorzi. Oggi cittadino giapponese, non estradabile, con il nome di Hagen Roi, per il coinvolgimento nella strage di Piazza della Loggia.

In data 15 maggio 2008, poi, sono stati rinviati a giudizio sei imputati, tra cui tre esponenti e militanti di spicco di Ordine Nuovo, un capitano del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia, oltreché il latitante collaboratore dell’allora Ministro degli Interni Taviani.

Il 21 ottobre 2010, dopo cinque giorni e mezzo di ricostruzione delle accuse, i PM titolari dell’inchiesta, hanno formulato l’accusa di concorso in strage per tutti gli imputati, ad eccezione di Pino Rauti, per il quale è stata, invece, richiesta l’assoluzione per insufficienza di prove, pur emergendone la responsabilità politica e morale.

Il 16 novembre 2010 la Corte D’Assise ha, peraltro, emesso la sentenza di primo grado della terza istruttoria, assolvendo tutti gli imputati (Maggi, Delfino, Tramonte, Zorzi e Rauti) con la formula dubitativa di cui all’art. 530 comma 2 c.p.p., corrispondente alla vecchia formula dell’insufficienza di prove. Oltre alle assoluzioni di Maggi, Delfino, Zorzi e Rauti, i giudici hanno disposto il non luogo a procedere per Tramonte, per intervenuta prescrizione in relazione al reato di calunnia, e revocato la misura cautelare nei confronti dell’ex militante di Ordine Nuovo Delfo Zorzi.

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Dopo quest’ultima sentenza, Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari caduti della strage di Piazza della Loggia ha dichiarato: “I processi per strage non possono più entrare in un’aula di giustizia. Capisco che la verità giudiziaria, diversa da quella storica, sia difficile da trovare, ma a questo punto non è facile avere fiducia nelle istituzioni”.

In occasione della Giornata della Memoria del 9 maggio 2012, il Presidente Napolitano ha commentato la vicenda dicendo che il corso della giustizia dovesse, pur nei limiti in cui era rimasto possibile, continuare con ogni scrupolo e che, nel contempo andasse messo in luce quanto era già emerso, dalle carte processuali e dalle inchieste parlamentari, sulla matrice di estrema destra neofascista di quell’azione criminale e sugli ostacoli che una parte degli apparati dello Stato frappose alla ricerca della verità.

Il 21 febbraio 2014 la Corte di Cassazione ha, infine, annullato le assoluzioni di due degli imputati, Maggi e Tramonte, e confermato quelle di altri due, Zorzi e Delfino.

Quarant’anni e tre inchieste, per arrivare a quest’ultima sentenza. Di quella strage, atto della strategia della tensione che insanguinò l’Italia e fu preludio degli Anni di Piombo, pur essendo stato ricostruito il contesto e identificati ambienti e collusioni in cui l’attentato venne ideato ed organizzato, nonostante la revoca dell’assoluzione per due degli imputati, resta, comunque, il dubbio che manchi ancora la parola fine a una vicenda, che, sul piano giudiziario, ha lasciato i principali autori e complici sostanzialmente impuniti.

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ROMA PRIDE 2014: CI VEDIAMO FUORI!

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“Guardateci bene. Guardateci il viso. Non è quello di chi chiede qualcosa, ma di chi sa cosa ci spetta di diritto. Non il viso di chi è stanco di lottare, ma quello di chi non si fermerà finché la storia non ci avrà dato ragione. Perché lo farà, di questo siamo certi. Perché la storia noi la facciamo tutti i giorni: in famiglia, a scuola, sul lavoro, in piazza. La facciamo sfidando i pregiudizi con l’intelligenza, la gioia, il coraggio. L’amore. Così sappiamo che arriverà un giorno in cui ogni diversità non sarà tollerata, ma celebrata. Ogni genere rispettato, ogni famiglia protetta, ogni individuo tutelato. E quel giorno no, non sarà solo bello poter dire “noi c’eravamo, ci siamo sempre stati”. Sarà molto di più. Sarà giusto. E sarà un vero orgoglio: il nostro”.

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È questo l’appello che si legge sulla pagina Facebook del Roma Pride.

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Siamo alla vigilia della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, che si celebrerà come tutti gli anni domani 17 maggio 2014 in tutto il mondo, nel giorno in cui cade la ricorrenza della rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, avvenuta nel 1990. Soltanto 24 anni fa.

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Intanto a Roma, proprio in queste ore, è partita la campagna per la giornata dell’orgoglio LGBT, in programma il prossimo 7 giugno.
‘Ditelo con un fiore…’ recitava un vecchio slogan. Adesso, basta! Te lo dico urlando, a muso duro e senza paura. So quali sono i miei diritti e so che tu sei solo un razzista.

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CI VEDIAMO FUORI! È così che urla lo slogan ideato dai ragazzi di CondividiLove, con 100 volti appartenenti alla comunità LGBT, tutti segnati dal ‘war painting’ arcobaleno. Cento volti volti arrabbiati, fieri e coraggiosi che guardano diretti gli occhi dei loro interlocutori e li chiamano a raccolta, per un impegno concreto e un’azione comune.

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Era il giugno del 1994 quando a Roma sfilò il primo corteo italiano del Gay Pride. Il 7 giugno 2014 la comunità LGBT si ritroverà ancora una volta FUORI, per le strade di Roma, per celebrare i suoi 20 anni di storia appena trascorsi e iniziare a scrivere il prossimo futuro. Perché dopo 20 anni di Pride, la battaglia contro i pregiudizi è ancora più che attuale e stavolta la battaglia non riguarderà solo i ‘diversi’, ma tutta la società italiana. Perché non c’è il diverso, ci sono soltanto esseri umani.

Andrea Serpieri

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Il futuro del pianeta…

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Il futuro del pianeta dipende dalla possibilità di dare a tutte le donne l’accesso all’istruzione e alla leadership. È alle donne, infatti, che spetta il compito più arduo, ma più costruttivo, di inventare e gestire la pace.

Rita Levi Montalcini

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