IN MEMORIA DI MASSIMO D’ANTONA.

Era il 20 maggio. Era il 1999. Un commando terrorista denominato Nuove Brigate Rosse uccideva a Roma il professor Massimo D’Antona.

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Da poco erano passate le 8.00 di mattina e il professore, all’epoca consulente del Ministero del Lavoro, si apprestava ad uscire dalla sua abitazione di via Salaria, angolo via Po, per recarsi al lavoro nel suo studio, poco lontano da lì. Superato l’incrocio con via Adda, all’altezza di un cartellone pubblicitario che lo nascondeva dalla vista dalla strada, intorno alle ore 8.13, il professore veniva fermato dal commando di brigatisti formato da Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, che già dalle 5.30 si nascondevano all’interno di un furgone parcheggiato al lato della via.

Fu un assassinio brutale, quello di D’Antona, che colpì una persona nota, uno studioso stimato, un uomo del sindacato. Ma fu anche un omicidio che colpì in maniera diretta un progetto di modernizzazione dello Stato e del welfare e, nel contempo, la sigla maggiormente rappresentativa del Paese, la CGIL.

I due terroristi lo bloccarono e Galesi svuotò 9 colpi del caricatore di una pistola semiautomatica senza silenziatore, una calibro 9×19, sul professore, infliggendogli il colpo di grazia al cuore. Subito dopo si davano alla fuga. I soccorsi non tardarono, D’Antona venne immediatamente portato al Policlinico Umberto I ma fu inutile: nel certificato di morte il medico dichiarò il decesso alle 9.30 di mattina.

20 maggio: non è un giorno come gli altri. Il 20 maggio è anche l’anniversario dello Statuto dei lavoratori, che nel 1970 segnò una conquista di civiltà, cambiando nel profondo gli assetti dei rapporti sindacali e politici. Massimo D’Antona si era formato proprio in quella stagione, all’università dove aveva ricevuto gli insegnamenti dal suo Maestro, Renato Scognamiglio, e poi alla “Rivista giuridica del lavoro”, in quel tempo impegnata in una rilettura costituzionalmente orientata di tutto l’impianto giuslavorista.

Nel 1980 aveva vinto la cattedra di diritto del lavoro, con un’opera di altissimo livello, “La reintegrazione nel posto di lavoro”, tuttora modello di ricerca per tutti quei giuristi che nelle loro analisi pongono in primo piano l’effettività degli interventi legislativi in materia di lavoro.

La sua opera scientifica non è nota solo a studiosi, lettori e operatori del diritto del lavoro, ma anche a quelli del diritto amministrativo e pubblico, dal momento che nei primi anni ’90 D’Antona aveva contribuito al processo di “privatizzazione” del pubblico impiego. Già da qualche anno, la riflessione del professor D’Antona si era incentrata sull’importanza della P.A. come fattore essenziale di equilibrio dinamico tra forze e soggetti che responsabilmente assolvono al loro ruolo di “produttori”, precisamente la sua indagine era partita da un suo saggio degli anni ’80 sull’amministrazione pubblica del diritto del lavoro.

Giunse nell’area di governo come un tecnico e subito si mise alla prova con temi complessi: dalla riforma del Ministero dei trasporti e della navigazione, alla regolamentazione dei conflitti sindacali nei servizi pubblici, fino all’unificazione delle disciplina del lavoro fra pubblico e privato, alla creazione di una nuova dirigenza pubblica, alla regolazione della rappresentanza sindacale nel settore pubblico.

Uomo della CGIL, s’è detto. Fu nella Consulta giuridica e nell’Ufficio legale della Confederazione. Il suo maggiore impegno è consistito nella ricerca di percorsi e di soluzioni che connotassero il sindacato quale soggetto della trasformazione e dell’innovazione, spesso mettendo in guardia da posizioni di mera conservazione dell’esistente.

D’Antona si è sempre battuto per il patto sociale, sostenitore convinto della concertazione, del rafforzamento di un sindacato che potesse sintetizzare un’investitura forte e concreta della base con un’adeguata centralizzazione del potere, in ordine ad una più effettiva tutela dei diritti costituzionalmente protetti e all’abolizione di un welfare risarcitorio e della sua sostituzione con il miglioramento delle possibilità offerte dal mercato del lavoro.
E non furono scelte di mediazione, nemmeno dal punto di vista politico. Con quelle scelte, infatti, sebbene necessitassero del metodo della mediazione, non fu proposta alcuna mediazione, nel senso di compromesso, tra gli interessi delle imprese, gli interessi dei lavoratori e quelli dei disoccupati e degli inoccupati. Quelle scelte, piuttosto, furono propedeutiche a soddisfare l’interesse pubblico all’ordinato svolgimento del processo produttivo e, insieme, anche l’esigenza fondamentale di un ordinato svolgimento della vita civile. Di tali scelte Massimo D’Antona ha saputo individuare le coerenti motivazioni culturali e, soprattutto, i riferimenti di tecnica giuridica che li sorreggevano.

Ed è forse questo il patrimonio più cospicuo che il professor D’Antona ha lasciato in eredità alle future generazioni di giuslavoristi italiani. Un patrimonio che non possiamo dimenticare. Che vogliamo custodire, soprattutto oggi dinanzi a movimenti che attaccano continuamente l’operato dei sindacati e dopo oltre dieci anni di dialogo con l’esecutivo inesistente, che altro non ha fatto che indebolire le forze sociali e privare di tutela i lavoratori.

M. De Sanctis
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