La probabile Caporetto della Lista Tsipras

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di Pierpaolo Farina, da Qualcosa di Sinistra, 8 aprile 2014

Forse le aspettative erano troppo grandi, perché già si pensava, un paio di mesi fa, al primo passo per qualcosa di decente da votare a Sinistra. Ma rimane il fatto che l’Altra Europa, la lista che riunisce le varie anime a sinistra del PD per cercare di superare il 4% alle Europee, rischia di trasformarsi nell’ennesimo fallimento.
C’è chi è più ottimista e fa bene ad esserlo, perché a questo mondo un po’ di sano ottimismo ci vuole, ma davvero nutro poche speranze circa la sopravvivenza della lista non solo nell’urna, ma anche dopo, qualora dovesse strappare qualche europarlamentare nella ripartizione dei seggi. Nei primi sondaggi, “la sinistra unita per Tsipras” si aggirava attorno al 7%: un risultato apprezzabile, un mezzo trionfo visti i risultati passati.
Ora invece la lista è data da tutti sotto la soglia di sbarramento. Perché? Anzitutto, per il solito snobismo radical chic di chi ha preso in mano la lista, che ha imposto quattro nomi e un simbolo da far votare a chi aveva aderito all’appello, togliendo la parola “SINISTRA” dal nome: un mezzo suicidio annunciato, visto che non si tratta di un partito con solide radici e ben rappresentato sulla scena mediatica.
Se a questo poi aggiungiamo che non c’è nessun leader carismatico forte da contrapporre ai due che si stanno fronteggiando in questa tornata (Renzi e Grillo), il gioco è fatto: infatti, Tsipras è un leader greco, per giunta comunista, che non parla italiano e che ha una copertura mediatica ridotta. E infatti questo spiega perché sia qui molto spesso: la Sinistra in Italia è il tallone d’Achille della sua candidatura.
Negli altri paesi europei ci sono partiti con una tradizione consolidata (e anche in crescita, come Melenchon in Francia, al 10%), qui siamo al casino, perché i vari azionisti della lista non solo si guardano in cagnesco, ma dopo il 25 maggio torneranno a cantarsele come e più di prima. Senza contare che molte delle candidature forti che potevano esserci (la Spinelli, Ovadia, Curzio Maltese) si son già bruciate da sole, annunciando che, in caso d’elezione, lasceranno il posto a quello dopo in lista. Una genialata che ha alienato migliaia di voti e dimostra anche una profonda ignoranza delle più basilari regole di comunicazione politica.
Deve averlo ben fiutato Sonia Alfano, a cui venne chiesto di candidarsi tramite Ingroia (a volte ritornano), ma rifiutò perché “c’erano persone incompatibili con la mia storia” (e ci credo, andava ai convegni di Forza Nuova, a suo agio con gente di sinistra non ci si poteva trovare).
Mi auguro di avere torto marcio e, per quel che mi riguarda, voterò la lista. Quel che è certo è che così, a Sinistra del PD, non si può continuare.

Fonte: Qualcosa di Sinistra

NAPO, L’EROE DELLA SICUREZZA SUL LAVORO.

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di Michele De Sanctis

Napo è l’eroe di un’omonima serie di cartoni animati, creato nell’ambito di un consorzio formato da INAIL (Italia), HSE (UK), DGUV (Germania), INRS (Francia) SUVA (Svizzera) e AUVA (Austria), introdotto in occasione dell'”Anno europeo della sicurezza, dell’igiene e della salute sul luogo di lavoro” (1992-1993) e del festival del cinema “Thessaloniki International Film Festival” del 1992. Rappresenta la figura del lavoratore, indipendentemente dal ramo industriale o dal settore professionale, perciò non è legato a una professione o a un ambiente di lavoro specifico, la sua personalità e il suo aspetto fisico rimangono costanti in tutti i video.

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Napo è una persona qualunque, né buono né cattivo, né giovane né vecchio. È un personaggio culturalmente neutro, un lavoratore volonteroso, che incorre in situazioni che sfuggono al suo controllo, ma che è anche in grado di identificare i pericoli e i rischi degli ambienti di lavoro e sa dare consigli per migliorare la sicurezza e l’organizzazione del lavoro.
Simpatico, accattivante, capace di forti reazioni ed emozioni. Chiunque, quindi, può identificarsi in lui, dal giovane lavoratore al senior.

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La casa di produzione di Napo è la francese Via Storia che si aggiudicò l’appalto per la realizzazione di un primo video sulla segnaletica di sicurezza, “Best Signs Story”, successivamente presentato all'”Edinburgh International Film Festival” nel 1998 e premiato al Congresso mondiale tenutosi a San Paolo in Brasile nel 1999 nonché nell’ambito di alcuni festival nazionali del cinema in Francia e in Germania.

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Nel 2003 l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro di Bilbao manifestò interesse per un nuovo video, raggiungendo un accordo con il Consorzio Napo in ordine alla distribuzione dello stesso da parte dell’Agenzia a tutti gli Stati membri, ai Paesi candidati all’adesione e ai Paesi dell’EFTA con disposizioni chiare sull’uso non esclusivo, sui diritti e sui costi. La collaborazione continua a tutt’oggi.

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Il motto di Napo per un posto di lavoro più sicuro, più sano e migliore è “la sicurezza con un sorriso”. Il contenuto di ogni video, infatti, mira a sensibilizzare i lavoratori sull’importanza di adottare i comportamenti idonei e le misure di protezione sempre attraverso brevi storie, dal taglio umoristico e in animazione computerizzata.

CLICCA QUI PER VEDERE I VIDEO DI NAPO

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Fecondazione eterologa, cade il divieto. La Consulta: legge 40 incostituzionale

I giudici bocciano la norma che proibiva il ricorso a un donatore esterno
di Flavia Amabile, da La Stampa, 9 aprile 2014

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La Consulta ha deciso: il divieto di eterologa nella legge 40 è incostituzionale. Ora anche le coppie sterili potranno accedere alla fecondazione. Si tratta dell’ennesimo provvedimento che ridisegna la legge 40 modificandola in una sua parte essenziale rispetto alla formulazione originaria del 2004.

CHE COSA CAMBIA
Da questo momento, quindi, sarà possibile ricorrere a donatori di ovociti e spermatozoi quando uno dei due partner è sterile. Come prima del 2004 sarà lecita l’ovodonazione; mentre qualsiasi uomo fertile potrà donare il proprio seme.

LE ASSOCIAZIONI
«La sentenza di oggi della Corte Costituzionale che ha cancellato il divieto di eterologa previsto dalla legge 40 del 2004 ha valore di legge e non è oppugnabile. Da oggi non potrà mai più essere emanata dal Parlamento una legge che prevede il divieto di fecondazione di tipo eterologa. Tale decisione vale per tutti i cittadini italiani che hanno problemi di sterilità. nessun vuoto normativo, ma con la legge 40 così modificata garanzie per i nati e per le coppie», dichiarano l’ avvocato Filomena Gallo e Gianni Baldini, legali del procedimento di Firenze, i primi a sollevare il dubbio di legittimità costituzionale sull’eterologa, che hanno seguito 17 casi su 29, e rispettivamente segretario dell’Associazione Luca Coscioni e docente dell’università di Firenze. Ma la battaglia contro la legge 40 non è ancora terminata. «Il prossimo obiettivo è quello dell’abolizione del divieto di ricerca sugli embrioni», annuncia Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni.

GOVERNO IN CAMPO
Sembra di diverso avviso il ministro della salute Beatrice Lorenzin: «Una legge svuotata. Richiede un intervento parlamentare», ha detto a margine degli Stati Generali della Salute. «Aspettiamo di poter leggere le motivazioni» della sentenza, che ovviamente recepiamo – ha aggiunto – anche se dobbiamo capire tutte le implicazioni che ne derivano». La ministro ha inoltre osservato che «in Italia non siamo ancora a attrezzati dal punto di vista normativo». Ad esempio per quello che riguarda «l’anonimato di coloro che cedono i gameti», «il diritto dei bimbi che nasceranno ad essere informati di chi sono i loro genitori», «il tipo di le analisi da fare per chi cede i gameti». Queste, per il ministro, «sono materie complesse che non possiamo risolvere con una cosa amministrativa». Pertanto, «è giusto che il parlamento faccia la sua parte e dia delle scelte di fondo su questi temi». Come ministero della Salute, «quello che possiamo fare sul piano parlamentare lo facciamo, quello che richiede una riflessione più profonda, perché la legge 40 è stata del tutto svuotata, necessita di un intervento parlamentare».

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LE REAZIONI DELLA POLITICA
Le resistenze sono ancora tante. E le reazioni alla notizia lo dimostrano. Il mondo cattolico è salito immediatamente sulle barricate. Famiglia Cristiana parla di «fecondazione selvaggia per tutti», di «ultima follia italiana». L’Accademia Pontificia per la Vita manifesta «sconcerto e dispiacere» e teme riflessi sia sulla coppia sia sul nascituro. Anche gli esponenti politici di area cattolica recalcitrano. Per Eugenia Roccella, di Ncd, «si apre una deriva molto pericolosa: cade il diritto di ogni nato a crescere con i genitori naturali», mentre secondo Paola Binetti, dell’Udc, si consuma una «grave attacco alla famiglia». Sel si colloca ovviamente sul fronte opposto. Positivi anche i commenti che arrivano dal Pd, dove però emerge anche la richiesta, avanzata da Maria Spilabotte e Donata Lenzi, di un intervento per aggiornare la normativa nel suo complesso. Un punto, questo, toccato con accenti ben più netti dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: «La legge è stata svuotata, serve un intervento del Parlamento. In Italia non siamo ancora a attrezzati dal punto di vista normativo», aggiunge. Ed enumera una serie di nodi: «l’anonimato di coloro che cedono i gameti», «il diritto dei bimbi che nasceranno ad essere informati di chi sono i loro genitori», «il tipo di analisi da fare per chi cede i gameti».

LA CORTE DIVISA
Anche all’interno del collegio di 15 giudici costituzionali, comunque, la decisione non è stata unanime, né facile, a riprova del fatto che il tema è complesso. I rumors dicono che al momento di andare ai voti, il sì all’eterologa ha trovato una maggioranza risicata. Alla conta il risultato sarebbe stato 8 a 7, e questo segnala una spaccatura. Ma la Corte è un organo collegiale e conta la decisione conclusiva, una «decisione coraggiosa», secondo molti osservatori, che «fa cadere una discriminazione», sottolineano i legali delle coppie e le organizzazioni che le rappresentano, come le associazioni Luca Coscioni e Sos Infertilità, perché mette fine alla distinzione tra coppie di serie A e coppie di serie B. Le motivazioni della sentenza spiegheranno nel dettaglio perché la Corte ha deciso in questa direzione. Ma certamente il cardine della decisione è la difesa del diritto di uguaglianza.

Fonte: La Stampa

Nel nome del plagio, colpevole di essere diverso. Il caso Braibanti.

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Si è spento lo scorso 6 aprile, a 91 anni, Aldo Braibanti, artista, poeta e scrittore piacentino. Negli anni ’60 divenne famoso per l’accusa di plagio rivoltagli dai familiari di Giovanni Sanfratello, compagno di Braibanti che da Piacenza lo aveva seguito, quando questi si era trasferito a Roma.
Secondo il padre del ragazzo, Braibanti aveva “sottomesso” alla sua volontà il giovane figlio, plagiandolo e imponendogli il suo stile di vita. Braibanti fu quindi condannato per plagio, reato previsto dal codice Rocco, rimasto in vigore fino al 1981 quando il Giudice delle Leggi ne dichiarò l’incostituzionalità. “Il giovane Sanfratello – dichiarò il P.M. durante il processo – era un malato, e la sua malattia aveva un nome. “Aldo Braibanti! Quando appare lui tutto è buio”. Il “caso Braibanti” è stato il primo e unico di condanna per plagio. Ma il reato che si voleva, in realtà, ascrivere a carico di Braibanti era la sua omosessualità. Il caso Braibanti costituisce, ancora oggi, una delle vicende giudiziarie più oscure ed infamanti della nostra storia.

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Braibanti era diverso. Intellettuale avanguardista, così diverso dagli artisti dell’epoca. Diverso politicamente, né a sinistra, né a centro né con la destra reazionaria. Dalla rubrica “Il Caos” di una copia del 1968 del quotidiano “Il Tempo”, Pasolini rilevava come quello di Braibanti fosse un caso di intellettuale che aveva rifiutato precocemente l’autorità che gli sarebbe provenuta dall’essere uno scrittore dell’egemonia culturale comunista, ma che poi aveva altresì rifiutato l’autorità di uno scrittore creato dall’industria culturale. Nel medesimo articolo, si legge che il suo delitto fu quello di assecondare la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’era scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe venuta naturalmente, a patto che egli avesse accettato, anche in misura minima, una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria. E questa debolezza era conseguenza della sua solitudine. Una debolezza scontata che egli pagò con l’accusa, pretestuale, di plagio e la successiva condanna. Vero è che dalla sua debolezza gli derivava un’altra autorità: la sua. Autorità, dunque, più pericolosa di tutte, perché indipendente, autonoma, fuori dagli schemi e da qualunque categoria.

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Sì, Braibanti era diverso. Da tutti, anche come uomo. E quella che Pasolini chiamava “debolezza” al tempo in cui scriveva, era, invece, la sua forza. La stessa forza che apparteneva a Pasolini, in fondo. Quella diversità che ti spinge oltre il comune sentire, che ti consente di percepire la realtà e raccontarla con modulazioni tanto peculiari quanto estranee alla società di massa. Che ti rende inevitabilmente solo. Sempre. Comunque. E inevitabilmente diverso, per quanti sforzi tu possa fare.
La principale condanna di Braibanti, perciò, non è stata il carcere. Ma la solitudine cui è stato relegato dopo, l’isolamento intellettuale che l’ha accompagnato fino alla morte. L’emarginazione: la condanna che gli italiani piccolo-borghesi impongono alla diversità per sentirsi tranquilli, davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere. Così avvertiva lo stesso Pasolini, perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano. Del resto, quante volte sentiamo gente dichiarare la propria tolleranza verso i gay, purché non si facciano vedere?
E allora processo sia. E processo fu. All’omosessuale, nel nome del plagio. L’obiettivo era distruggere Braibanti per dimostrare al Paese quanto sbagliato fosse accettare la propria diversa identità sessuale.

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Anche il capo d’accusa rientrava nel tipico schema attraverso cui la cattolicissima società italiana condanna da anni una parte cospicua dei suoi cittadini. Veniva, infatti, invocato l’art. 603 c.p., il plagio, per censurare, invece, la condotta tenuta dalla coppia Braibanti-Sanfratello. Tant’è che mai, in nessun’occasione, l’Italia bigotta dell’epoca riuscì a rilevare che il processo fosse un’istruttoria contro l’omosessualità. I gay vanno condannati prima di tutto col silenzio. Ancora oggi. Nel nostro Paese, dove l’omosessualità non costituisce reato, il Legislatore continua a far finta che i gay non esistano, condannandoli all’isolamento, alla solitudine e a un silenzio rumoroso che, necessariamente, conduce alla negazione dei loro diritti positivi e naturali. In primis, quello di esistere come soggetti giuridici titolari degli stessi diritti civili degli altri cittadini. A Braibanti, infatti, non venne contestata la relazione con Sanfratello, non era giuridicamente possibile né socialmente accettabile. Gli venne, invece, contestato d’essere frustrato in quanto basso e ‘stortignaccolo’, d’essere un buono a nulla perché artista e, in quanto artista, corruttore d’anime. Tra i testimoni chiamati in aula ci furono i piacentini Piergiorgio e Marco Bellocchio, e il musicista Sylvano Bussotti. A quest’ultimo che la Corte ebbe a chiedere: “Lei è omosessuale?”. La domanda fece scalpore, poiché fu uno dei rari passaggi processuali in cui si accennò all’omosessualità. In un saggio intitolato “Il Processo Braibanti”, edito nel 2003 per i tipi dell’editore Silvio Zamorani, lo studioso Gabriele Ferluga rileva, appunto, come questo tema, all’epoca, fosse cassato con imbarazzo anche dall’intellettualità di sinistra che, pure, difendeva Braibanti. Uniche eccezioni, Pasolini, Moravia, Umberto Eco e Dacia Maraini, che del caso Braibanti fece un racconto, e i radicali.

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Cattolici nel DNA, noi italiani cresciamo tutti con lo spettro del peccato e della sua espiazione, perché ci insegnano da piccoli che è sbagliato assecondare le nostre pulsioni. Ma la realtà è che peccato sarebbe sprecare un’esistenza, non amare, vivere un inferno terreno per la promessa di un paradiso oltre la vita. Peccato è l’imposizione all’altro delle proprie ragioni e del proprio credo. Peccato è condannare un amore, bollandolo come diverso, innaturale, sporco. Criminale, perciò, non fu la relazione che Braibanti ebbe con Sanfratello, ma il processo che lo condannò. Ad essere sporche erano le anime di quelli che giudicarono la storia di Aldo e Giovanni.

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Allora mi chiedo: se la società moderna ha chiesto che la Chiesa dopo secoli di storia rivedesse le posizioni assunte ai tempi della Santa Inquisizione, non sarebbe etico pretendere dalla Repubblica Italiana un’ammissione di colpa, sia pur postuma, per questo processo farsa? Con Sent. n. 96/1981, la Corte Costituzionale ha ‘cancellato’ il plagio dall’ordinamento giuridico italiano. Braibanti non ottenne neppure la revisione del processo. A 33 anni da quella sentenza di incostituzionalità, malgrado il tentativo nel 2005 di alcuni esponenti di AN di reintrodurre questo delitto, unico nel quadro giuridico europeo, è necessaria una presa di coscienza collettiva. L’Italia non è diversa dalla Russia, solo più discreta. Ieri come oggi.
Bisogna, invece, restituire dignità alla memoria di Braibanti, per l’inferno subito a causa dell’imputazione di un reato che, nell’Italia democratica, è esistito solo per lui, che per quell’ingiustizia ha ottenuto solo un parziale riconoscimento, quando, nel 2006, il governo Prodi, viste le sue condizioni economiche, gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli. Una revisione almeno morale di quel giudizio è un’azione necessaria per interrompere l’iniqua e vergognosa damnatio memoriae subita da lui e dalle sue opere. Nulla ripagherà ormai Aldo del carcere scontato e dell’onta subita, durante il dibattimento, dalla magistratura e dalla stampa. Ma il suo riscatto (dopo il suo sacrificio) servirebbe oggi alla società civile che lo ha condannato, a quella parte che ancora si ostina a non vedere, a non capire. L’educazione alla legalità di un popolo è innanzitutto una lezione di rispetto. Una lezione per orientare tutti gli italiani verso quella tolleranza che ispirò i Costituenti dello stesso Stato che distrusse la vita di Aldo Braibanti.

Andrea Serpieri per

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Le riforme pericolose

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di Stefano Rodotà, da Repubblica, 8 aprile 2014


Ho scoperto in questi giorni di detenere da anni un potere immenso. Faccio parte di un “manipolo di professoroni” (così veniamo graziosamente apostrofati) che è riuscito nell’impresa di sconfiggere le velleità riformatrici di Craxi e Cossiga, di D’Alema e Berlusconi, e oggi intralcia di nuovo ogni innovazione. Usiamo un’arma impropria – “la Costituzione più bella del mondo” – per terrorizzare politici pavidi e cittadini timorati.

So bene che al grottesco, alla mancanza di senso delle proporzioni, all’assenza di informazioni accurate è difficile porre ragionevoli limiti. Ma qualche chiarimento può essere utile, per evitare che venga inquinata una discussione che si vorrebbe seria. Comincio proprio da quel riferimento alla Costituzione più bella del mondo, che viene usato con toni di dileggio e per accusare di testardaggine conservatrice chi critica questa o quella proposta di riforma, o meglio i tentativi di stravolgimento del testo costituzionale. Ora, quelle parole vengono da una fantasiosa uscita di Roberto Benigni, ma non sono mai state la bandiera di chi ha riflettuto sulla Costituzione con la guida di Costantino Mortati e Carlo Esposito, di Massimo Severo Giannini e Leopoldo Elia. Ed è falso che vi sia stato un irragionevole arroccamento intorno all’intoccabilità della Costituzione. È notissimo, invece, che si è insistito sull’obbligo di rispettarne principi e diritti, mentre si avanzavano proposte per una “buona manutenzione” della sua seconda parte. Mi limito a ricordare solo quello che io stesso e molti altri suggerimmo quando il governo Letta si imbarcò nella rischiosa, e fallita, impresa di modificare l’articolo sulla revisione costituzionale. Si disse che sarebbe stato opportuno cominciare subito, senza forzare quell’articolo, dai punti sui quali già si era formato un largo consenso – dunque dalla riduzione del numero dei parlamentari e dal superamento del bicameralismo perfetto, per il quale esistevano proposte ragionevoli, ben lontane da quelle sgrammaticate che circolano in questi giorni. Se quel suggerimento fosse stato seguito, oggi molto probabilmente già avremmo portato a compimento questa significativa riforma.

Facendo una veloce ricerca in rete, non sarebbe stato difficile trovare le molte riforme proposte anche dal mondo di chi critica le riforme costituzionali della fase cominciata con il governo Letta. Invece, tutta l’acribia filologica è stata impiegata per cogliere in flagrante peccato di contraddizione il noto Rodotà, reo di aver firmato nel 1985 una proposta di riforma in senso monocamerale. Purtroppo il ricorso a questo argomento è, all’opposto, la prova evidente di quanto profonda sia ormai la regressione culturale nella quale sono caduti molti che intervengono nella discussione pubblica. Quella proposta veniva fatta in un tempo in cui il sistema elettorale era quello proporzionale, i deputati erano scelti con il voto di preferenza, i regolamenti parlamentari rispettavano i diritti delle minoranze, non prevedevano “ghigliottine”, costrittivi contingentamenti dei tempi, limiti alla presentazione degli emendamenti. Erano i tempi in cui l’ostruzionismo della sinistra fece cadere in prima battuta il decreto con il quale Craxi tagliava i punti di contingenza e il Parlamento svolgeva grandi inchieste come quella sulla loggia P2.

Quella proposta (n. 2452 della IX legislatura) era stata scritta da un costituzionalista di valore come Gianni Ferrara e andava nella direzione assolutamente opposta rispetto alla linea attuale. Voleva riaffermare nella sua pienezza la funzione rappresentativa del sistema parlamentare, assicurata da una forte Camera dei deputati che garantiva gli equilibri costituzionali e si opponeva alle emergenti derive autoritarie, alla concentrazione del potere nel governo. Nasceva dall’idea della centralità del Parlamento, rispondeva all’ineludibile diritto dei cittadini di essere rappresentati, che è alla base della sentenza con la quale quest’anno la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del Porcellum. Oggi, invece, l’Italicum deprime la rappresentanza, le proposte relative al Senato sono un pasticcio, e tutto confluisce in un sostanziale antiparlamentarismo, alimentato da artifici ipermaggioritari che fanno correre il rischio di una nuova dichiarazione di incostituzionalità.

Chi cerca proposte sulla riforma del Senato, com’è giusto che sia, può attingerne alla bella intervista su questo giornale di Gustavo Zagrebelsky o al disegno di legge presentato dai senatori Walter Tocci e Vannino Chiti, entrambi del Pd. La verità è che non sono le proposte ad essere mancate. Non si vuol riconoscere che da anni si fronteggiano due linee di riforma costituzionale, una neoautoritaria e una volta a mantenere ferma la logica democratica della Costituzione, senza ignorare i punti dove le modifiche sono necessarie. Ora il confronto è giunto ad un punto critico, ed è bene che tutti ne siano consapevoli.

Chi sinceramente vuole una Costituzione all’altezza dei tempi, e delle nuove domande dei cittadini, non deve cercare consensi con appelli populisti. Deve essere consapevole della necessità di ricostruire le garanzie e gli equilibri costituzionali alterati dal passaggio ad un sistema già sostanzialmente maggioritario. Deve riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, abbandonando la logica che riduce le elezioni a investitura di un governo che risponderà ai cittadini solo cinque anni dopo, alle successive elezioni. Ricordate la critica estrema di Rousseau? “Il popolo inglese ritiene di essere libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena quelli sono eletti, esso è schiavo, non è nulla”. Rousseau è lontano, è impossibile ridurre i cittadini al silenzio tra una elezione e l’altra, perché troppi sono ormai gli strumenti per prendere la parola. Se si vuole sfuggire alla suggestione che la Rete sia tutto, alle ingannevoli contrapposizioni tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, bisogna lavorare per creare le condizioni costituzionali perché queste due dimensioni possano essere integrate, come già cerca di fare il Trattato europeo di Lisbona. Le proposte non mancano, a partire da quelle sulle leggi d’iniziativa popolare (ne parlo dal 1997, e ora sono arrivate in Parlamento).

Le semplificazioni autoritarie sono ingannevoli, la concentrazioni del potere nelle mani del solo governo, o di una sola persona, produce l’illusione dell’efficienza e il rischio della riduzione della democrazia. Si sta creando una pericolosa congiunzione tra disincanto democratico e pulsioni populiste. Vogliamo parlarne, prima che sia troppo tardi, e agire di conseguenza?

Fonte: MicroMega

IL BIBLIOMOTOCARRO. UNA FAVOLA CONTEMPORANEA.

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di Michele De Sanctis

Sono anni che Antonio, maestro lucano, è andato in pensione. Ma non ha perso l’entusiasmo e l’energia di insegnare. Di trasmettere ai più giovani l’amore per la lettura. Questa è la storia del maestro La Cava che da oltre dieci anni gira la Basilicata e le regioni limitrofe con un’Ape azzurra carica di libri per ragazzi, il bibliomotocarro. Si tratta di una biblioteca mobile che Antonio porta quotidianamente nei vari paesi lucani, affrontando tantissimi chilometri al giorno. Il bibliomotocarro è attrezzato con scaffali pieni di libri e materiale per scrivere. I ragazzi che prendono in prestito i libri di Antonio, spesso raccolgono le proprie impressioni su questo materiale che restituiscono insieme al libro e che il maestro poi conserva con cura.
Dopo 42 anni di onorato servizio, Antonio La Cava, originario di Ferrandina, vicino Matera, girando la sua regione ha distribuito oltre 20.000 volumi, così contribuendo a diffondere la cultura del libro e della lettura anche nelle zone più isolate dell’aspro territorio lucano, fino ad arrivare nelle scuole, dov’è stata allestita una cassetta azzurra (come l’Ape 50 di Antonio) per la riconsegna dei libri.

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È una bella storia questa. Una favola moderna che sembra uscire dalle pagine di uno dei libri di Antonio, che, a sua volta, sembra il protagonista di un romanzo per ragazzi: uno di quei maestri illuminati narrati da Mario Lodi e coraggiosi come il maestro di Pietralata di Albino Bernardini. È una storia dal fascino dei racconti Gianni Rodari e la magia di Bianca Pitzorno. E che profuma di carta stampata e di speranza.
In un’epoca in cui il mondo viene osservato da un display, in cui l’immaginario è soltanto descrittivo, poiché la visione lascia ben poco spazio alla fantasia, il bibliomotocarro riaccende i sogni dei più giovani. E anche dei più grandi come me…

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E se Calvino insegnava che un classico è un libro che non smette mai di dire quel che ha da dire, mentre scrivo in questo treno grigio e freddo su cui adesso viaggio, provo anch’io a riaccendere la fantasia: chiudo gli occhi per un istante e mi immagino a bordo della freccia azzurra di Rodari, che, come il bibliomotocarro avanza verso i giovani lettori, così transitava sui binari della solidarietà, per correre verso un futuro migliore.

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METTI LO SCRITTORE IN VETRINA.

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di Michele De Sanctis

Salvo qualche eccezione, la crisi colpisce tutti i settori. In particolare, quelli che già soffrivano prima dell’anno fatale per l’economia, il 2008. L’editoria, ad esempio, tenta nuove strade per non sparire del tutto, in un Paese, come l’Italia, dove, peraltro s’è sempre speso poco in libreria. E se, da un lato, grazie alla diffusione degli ebook, l’autopubblicazione consente ad eccellenti (ma sconosciuti) scrittori di pubblicare le proprie opere, è, altresì, vero che i ricavi sono abbastanza miseri. In Italia, ovviamente. All’estero le cose vanno diversamente e fanno fortuna anche quelli che propongono un genere ‘commerciale’, ma di scarso interesse culturale. Le famose ’50 sfumature di grigio’, ad esempio, sono inizialmente state autopubblicate. A mio avviso, se ne poteva anche fare a meno. Ma, si sa, ciò che vende in libreria, non è esattamente ciò che vale.
Tuttavia, ci sono anche strade alternative alla rete. L’operazione di marketing di cui vi parlo è quella messa in atto da una libreria di Piacenza. Si tratta della Libreria Fahrenheit 451, che, col cambio di sede, ha avuto la disponibilità di un’ampia vetrina, sfruttata in maniera non convenzionale.
Infatti, lo scorso 29 marzo, Sonia Galli, titolare del negozio, ha invitato lo scrittore Gabriele Dadati per presentare il suo nuovo libro, intitolato ‘Per rivedere te’, Barney edizioni, ma la novità è stata che Dadati ha parlato della sua opera, passando il pomeriggio in “esposizione”. Dalle 16 alle 19.
È stato, così, ricostruito un vecchio studio da scrittore in vetrina, da cui l’autore ha coinvolto i passanti, che, incuriositi, entravano nel negozio. All’interno dello studio, è stato, poi, offerto a ognuno un bicchiere di vino bianco delle valli piacentine oppure una tisana con biscotti provenienti da un vicino negozio di commercio equosolidale e, spontaneamente, sono state poste domande sul libro.

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Per chi vuol fare lo scrittore, oggi è davvero difficile: concorsi, internet, autopromozione spesso non bastano. L’iniziativa di questa libreria piacentina è, quindi, davvero utile per i giovani scrittori e per tutti gli aspiranti romanzieri e saggisti, che, diversamente, non potrebbero così facilmente trovare una platea di estranei, con cui confrontarsi in maniera oggettiva e soprattutto faccia a faccia.

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Ogni anno l’Italia spende 8 miliardi (lo 0,52% del Pil) per la gestione di banconote e monete

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di Enrico Marro, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 2 aprile 2014

L’Italia continua a essere uno dei Paesi occidentali più morbosamente legati al contante, come confermano diverse indagini dell’Abi. Ma quanto ci costa quest’atavico attaccamento al denaro “fisico” (senza toccare il tema evasione fiscale, che merita una trattazione a parte) rispetto all’uso della moneta elettronica o di plastica? Ci costa un sacco di soldi. A metterlo nero su bianco è uno studio della Banca d’Italia dedicato al costo sociale dei diversi strumenti di pagamento. Il risultato: nel nostro Paese all’utilizzo del denaro fisico sono riconducibili costi per circa 8 miliardi di euro, pari allo 0,52 per cento del Pil.

«Questo significa che spendiamo circa 200 euro a testa l’anno per pagare il personale, le perdite, i furti, le apparecchiature, il trasporto, la sicurezza, i magazzini, la vigilanza, le assicurazioni legate ai contanti», commenta Alessandro Onano, responsabile marketing di MoneyFarm. E si tratta di una percentuale superiore a quella della media europea, continua Bankitalia, dove per il contante si “brucia” lo 0,4% del Pil (contro lo 0,52% del Pil italiano).

Confrontando i tipi di operazione, il costo sociale del contante (0,33 euro) secondo lo studio di via Nazionale è ancora minore di quello delle carte di debito (0,74 euro) e di credito (1,91 euro). Ma attenzione: questo è principalmente dovuto al minore importo medio dei pagamenti in contati rispetto agli altri metodi. Se rapportato al valore medio dell’operazione, il contante risulta al contrario lo strumento più costoso (2%). «A ciò si aggiunge che la Banca d’Italia riconosce ogni anno 72mila banconote false (moltissime, considerando che in tutta Europa sono 387mila) e che il 40% delle rapine che si registrano in Europa sono messe a segno in Italia», spiega ancora Onano.

C’è poi il tema del costo industriale di fabbricazione delle micromonete, quelle da 1 e 2 centesimi di euro che spesso e volentieri si perdono, se va bene in portafogli e borsellini, se va male per strada. Ebbene: coniare una monetina da 1 centesimo ne costa 4,5, mentre per fabbricarne una da 2 centesimi si spendono 5,2 cent. Lo scorso autunno Sel ha addirittura presentato una mozione alla Camera sulla questione, calcolando che questo scherzetto dei costi di fabbricazione è costato all’Italia 188 milioni di euro in dieci anni.

Ma un campanello d’allarme è suonato anche a Bruxelles: la Commissione europea a suo tempo ha commissionato un sondaggio scoprendo che il 60% dei cittadini dell’eurozona trova difficoltà a usare le monete da 1 cent (per il conio da 2 centesimi è anche peggio: gli scontenti salgono al 69% del totale, forse perché perdere una moneta da 2 cent “costa” il doppio che perderne una da 1 cent). Tanto che la Commissione ha prodotto un lungo paper, destinato al Consiglio d’Europa e al Parlamento Ue, in cui si ipotizza nei minimi dettagli anche l’opzione del ritiro delle micromonete. Ma per ora non se ne è fatto niente. E l’odissea delle micromonete continua.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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Lavoro, il nuovo tempo determinato: Ichino, Tiraboschi, Cazzola, consulenti e agenzie danno i voti alla riforma del contratto

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di Cristiana Gamba, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 2 aprile 2014

Pietro Ichino, giuslavorista: voto 6
«Va salutato positivamente il fatto che con il decreto Poletti (n. 34/14) si superano alcuni limiti e vincoli in materia di contatto a termine, posti poco opportunamente dalla legge Fornero due fa», spiega il giuslavorista Pietro Ichino.
«Su questa nuova disciplina – continua – potrebbe sollevarsi un dubbio di compatibilità con le regole poste dalla direttiva europea n. 1999/70 per evitare che il contratto a termine diventi la forma normale di assunzione (la questione è dubbia)». Tuttavia, secondo l’esperto, «il vero difetto della nuova norma sta nel fatto che essa accentua l’apartheid normativo tra il mondo degli assunti a termine e quello degli assunti a tempo indeterminato. Questo difetto può essere superato con l’inserire nel decreto-legge la norma sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezioni crescenti; e coll’inserire una disposizione che stabilisca una modesta indennità di cessazione proporzionata all’anzianità, sostitutiva del filtro giudiziale, identica per tempo indeterminato e determinato acausale». E conclude: «Solo in questo modo si otterrà di sdrammatizzare l’alternativa fra le due forme di contratto».

Michele Tiraboschi, giuslavorista: voto 5,5
Per il giuslavorista Michele Tiraboschi l’efficacia del nuovo contratto così come è stato scritto è più nell’immediato che non a lungo termine. «La liberalizzazione del contratto a tempo determinato – spiega – può avere effetti positivi nel breve periodo in termini di maggiore occupazione; nel lungo periodo, la deregolamentazione del lavoro a termine è sintomatica di una mancanza di visione d’insieme sulle politiche del lavoro e sull’impianto sistematico del diritto del lavoro che, anche a guardare le sorti del contratto di apprendistato, sembra ora scardinato».
Anche Tiraboschi non nega poi il rischio di un potenziale aumento del contenzioso. «Sul piano tecnico – continua – l’intervento presenta diversi profili problematici che daranno luogo a un possibile contenzioso tanto è vero che la liberalizzazione del termine non intacca il principio legislativo della centralità del lavoro subordinato a tempo indeterminato con ciò aprendo la strada a interpretazioni restrittive dei giudici specie sulle proroghe che non solo adeguatamente regolate». Resta infine sullo sfondo il rischio di incompatibilità con la direttiva 99/70/CE derivante dalla rimozione di limiti alla reiterazione di contratti a termine.

Giuliano Cazzola, docente di diritto del lavoro Università ECampus: voto 7+
Sul contenzioso torna Giuliano Cazzola. E spiega: «La riforma del contratto a termine – ammesso che l’impianto innovativo non venga depotenziato – ridurrà certamente il contenzioso. Prima, nella sua genericità, il cosiddetto “causalone” sottoponeva le imprese alla roulette russa dei tribunali».
Cazzola aggiunge altri motivi, che qualificano il provvedimento. «Se ne rafforza la centralità al momento dell’assunzione sia rispetto al classico contratto standard a tempo indeterminato, sia nei confronti delle forme atipiche, il cui utilizzo, adesso, è parecchio a rischio di sanzione dopo le modifiche a ‘’giro di vite” introdotte dalla legge n. 92 del 2012».
Secondo Cazzola «si rende marginale e meno interessante anche il ricorso ad un eventuale contratto unico a tempo indeterminato e a tutela crescente perché ben pochi datori di lavoro ne faranno uso potendo avvalersi per un triennio di un contratto a termine ‘’liberalizzato” e molto meno complicato, all’atto della risoluzione».

Luigi Brugnaro, presidente di Assolavoro: voto 7
Piena promozione arriva anche da Luigi Brugnaro, presidente di Assololavoro, l’associazione che raccoglie le agenzie di somministrazione. «L’impianto complessivo della riforma è positivo – dice – perché mira a valorizzare la flessibilità buona di cui la somministrazione rappresenta la forma più avanzata.Spesso si sottovaluta la funzione che la flessibilità svolge a favore della competitività delle imprese». E aggiunge: «Ciò detto è utile sempre ribadire che i posti di lavoro non si creano per decreto, ma attraverso un rilancio complessivo dell’economia».

Marina Calderone, presidente Consiglio nazionale Ordine dei consulenti del lavoro: voto 7
« Il Contratto a termine con queste novità normative è più libero e va maggiormente incontro alle esigenze delle aziende – dice Marina Calderone -. Si tratta di disposizioni che vanno nella direzione della buona flessibilità, anche se per rilanciare l’occupazione è necessario far ripartire l’economia. Per decreto non si creano nuovi posti di lavoro. Anche l’apprendistato sembra avere meno vincoli; ma qualche dubbio sorge sulle disposizioni relative alla formazione pubblica, resa facoltativa ma di competenza delle Regioni. Per evitare potenziali conflitti di profilo costituzionale è necessario intervenire».

Fonte: Il Sole 24 Ore

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L’EREDITÀ CULTURALE DI JACQUES LE GOFF

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di Germano De Sanctis

Lo scorso 1° aprile, è morto a Parigi lo storico francese Jacques Le Goff, all’età di novant’anni. Si tratta di una perdita incommensurabile per gli studi storici. Se oggi, i cosiddetti secoli bui, ci appaiono ben illuminati e sappiamo che furono ricchi di personaggi ed avvenimenti significativi, lo dobbiamo sostanzialmente all’opera di Jacques Le Goff, che, con il suo lavoro scientifico, cui ha sempre affiancato quello divulgativo, ha reso il Medioevo, un periodo storico vivo e popolare, appassionando tanti lettori comuni.

Infatti, Jacques Le Goff è stato il promotore di una moltitudine di studi sui secoli XII e XIII, poiché egli, come nessun altro storico prima di lui, è stato capace di modificare la percezione collettiva del Medioevo, fino a qual momento percepito come un periodo storico connotato soltanto dalla arretratezza culturale ed economica. Invece, Jacques Le Goff aveva una visione dinamica della storia, in virtù della quale non esistono epoche buie nella storia dell’umanità. Ogni periodo storico si connota per le sue luci e per le sue ombre. Anche il Medioevo rientra in questa visione. Durante l’età “di mezzo”, vi sono state innovazioni, i cui effetti si sono positivamente riverberarti sulla vivacità culturale che universalmente viene riconosciuta al Rinascimento ed all’Illuminismo. Analogamente, i secoli successivi al Medioevo si sono caratterizzati per aspetti negativi e/o involutivi che vengono sovente minimizzati dalla storiografia più tradizionale.
Forte di queste convinzioni, Jacques Le Goff è riuscito ad affermare nella storiografia contemporanea la sua visione del Medioevo, attraverso opere di grande sintesi ed originalità, a partire dalla pubblicazione de “La civiltà dell’Occidente medievale” (1964), che è probabilmente il suo libro più rappresentativo. Il Medioevo descritto da Jacques Le Goff è un periodo affascinante, perché, in esso, la realtà e l’immaginario si fondono, seppur nelle loro contraddizioni. Il Medioevo dello storico francese è un’epoca costantemente connotata da legami profondi con il tempo lungo e da una forte attentanzione all’uomo, così come egli ha ben chiarito ne “L’uomo medievale” (2006). Appare evidente, quindi, l’esistenza, di una vicinanza culturale antropocentrica tra il Medioevo e l’età contemporanea, ben più forte di quanto si possa immaginare.

Fedele al metodo della scuola creata dalla rivista “Annales”, Jacques Le Goff è stato capace d’innovare la storiografia contemporanea, unitamente ad altri storici di grande rilievo come Marc Bloch, Fernand Braudel, Lucien Febvre, e Georges Duby, inserendosi come protagonista nella corrente culturale fiorita e sviluppatasi in Francia nel corso del XX Secolo, che ritiene necessario operare l’esame di un periodo storico, non soltanto ponendo l’attenzione sulla vita dei grandi personaggi, o sugli eventi più famosi, bensì concentrando l’attenzione anche sulla vita quotidiana e sociale, cioè sugli usi e costumi, delle persone comuni. Infatti, le opere di Jacques Le Goff si soffermano su aspetti che connotano più la società medievale intesa nel suo complesso, che sui singoli accadimenti. In estrema sintesi, si può dire che Jacques Le Goff ha reso l’analisi storica più attenta al contesto sociale, studiando il Medioevo nei suoi aspetti più trascurati.
A fronte di tale considerazione, appare chiara la motivazione sottesa alla sua attenzione nei confronti dello studio delle strutture fondamentali della società medievale, come, ad esempio, il monastero, la città, o la foresta. Così, come appare chiaro il suo interesse ad affrontare l’esame dei vari contesti sociali, attraverso l’analisi dei singoli gruppi sociali, descritti come figure tipologiche della società medievale. Pertanto, egli non scrisse la storia dei monaci, ma descrisse il monaco. Egli non raccontò la vita degli intellettuali, ma dell’intellettuale, inteso come rappresentante di quel gruppo sociale che ha svolto il compito di pensare e d’insegnare in un contesto culturale connotato da continue condanne e di censure.

Jacques Le Goff è stato un profondo innovatore nella metodologia con la quale affrontava il suo lavoro, analizzando temi storici non convenzionali e ponendosi sempre nuove domande. Tale opera innovativa era anche accompagnata da una straordinaria capacità divulgativa (sia scritta che parlata), anche nei confronti dei lettori meno preparati in materia di storia medievale. In altri termini, egli era un medievista che, seppur fortemente connotato dalla sua specializzazione, era capace di spaziare in epoche storiche e campi culturali molto diversi e variegati. In tale contesto, bisogna ricordare il suo “Seminario parigino” (1962-1992), durante il quale propose l’analisi di temi, come, ad esempio, la storia del riso, che raccolsero un enorme successo, in quanto erano capaci di recepire nell’analisi storiografica l’antropologia culturale, l’etnografia e la storia delle immagini.
Tali capacità di analisi dei temi storici e di divulgazione dei contenuti, lo hanno reso autore di libri fondamentali e innovativi, come “Mercanti e banchieri nel Medioevo” (1956), “L’intellettuale nel Medioevo” (1957).

Una particolare attenzione merita la sua attenzione alla religiosità del Medioevo. Infatti, Jacques Le Goff è stato un pioniere dello studio delle mentalità religiosa, scrivendo libri fondamentali come la biografia di “Francesco d’Assisi”, o “La nascita del Purgatorio” (1981). Proprio relativamente al Purgatorio, lo storico francese ha visto in esso una struttura positiva che accompagna l’uscita del Medioevo dal dualismo esistente tra l’Inferno ed il Paradiso e che permette all’uomo di impadronirsi del tempo dell’aldilà.
Sebbene il cristianesimo medievale condanni come errori le novità, Jacques Le Goff, scrivendo “L’Europa medievale e il mondo moderno” (1994), ha evidenziato come, verso la fine del Medioevo, una società europea creatrice che sia stata capace d’innovare e preparare quella modernità che si è successivamente sviluppata durante l’Umanesimo.
È interessante notare come egli abbia affrontato i temi religiosi, esprimendo costantemente la sua visione laica della vita e della ricerca scientifica, in totale contrapposizione alle interpretazioni storiografiche connotate ideologicamente, se non, addirittura, negazioniste.
Infatti, Jacques Le Goff, si definiva, né credente, né praticante, ma, al contempo, si dichiarava uno storico medievista consapevole del ruolo svolto dal Cristianesimo come forza spirituale e creatrice di valori nel determinare l’originalità dell’Europa.

Proprio rispetto all’Europa, bisogna sottolineare il convinto europeismo di Jacques Le Goff. Si tratta di un altro aspetto peculiare del suo pensiero e che lo portò a dirigere, nel 1993, la collana, “Fare l’Europa”. Jacques Le Goff era solito riscontrare l’origine dei caratteri distintivi dell’Europa già nel periodo neolitico, ma, al contempo, sottolineava come le fondamenta dell’attuale cultura europea furono poste durante l’alto Medioevo, a seguito della fertile contaminazione della cultura greco-latina con quella dei popoli barbari. Ad esempio, questa fusione di molteplici culture generò uno dei elementi più caratteristici dell’Europa, rappresentato dalla nascita delle diverse Nazioni europee e delle molteplici lingue. Egli ha sempre visto in questa molteplicità di lingue e Nazioni un’autentica ricchezza culturale da coltivare e preservare. Tuttavia, questa attenzione alle identità nazionali non sfociava mai in atteggiamenti sciovinisti, bensì, produceva la convinzione che soltanto la sintesi tra tante identità nazionali poteva generare una coesistenza armoniosa e pacifica tra i popoli europei, i quali, secondo Le Goff, sono tanti popoli simili, malgrado i conflitti incorsi tra loro.
Anzi, in uno dei suoi ultimi scritti, egli ha evidenziato come tale ricchezza culturale dell’Europa sia da insegnare nelle scuole. Infatti, secondo Jacques Le Goff la globalizzazione ha creato due grandi centri di potere, gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare Cinese, che si confrontano ormai da tempo. A fronte di questi due grandi “blocchi” contrapposti, egli ha sempre ravvisato la necessità di salvaguardare l’esistenza dell’Europa, intesa come un terzo spazio forte per i suoi valori, per la sua energia e per la sua ricchezza. Nel pensiero di Jacques Le Goff un elemento essenziale della potenza europea è rappresentato dalla sua cultura. Basti pensare, ad esempio alle Università, le quali sono una creazione della cultura europea e che sono state, per secoli, centri di produzione della conoscenza senza paragone.
Dal punto di vista politico, egli ha sovente evidenziato la necessità di perseguire l’unica Europa possibile che, da un punto di vista storico, è l’Europa delle Nazioni. Infatti, egli riteneva che l’Europa delle Nazioni sia l’unica dimensione capace di difendere la cultura, la politica e l’economia europee, mentre era scettico sull’idea di creare un’Europa federale. Anzi, egli era convinto della possibilità di conservare la sovranità degli Stati, attribuendo, al contempo, al Parlamento Europeo un ruolo più importante, attraverso il voto dei cittadini europei.
Nell’ambito di tale visione, risulta fondamentale lo sviluppo di una educazione europea comune, capace di far dialogare le diverse culture nazionali. Secondo Jacques Le Goff, tale risultato è perseguibile dando molto spazio alla storia europea in tutte le scuole europee. Una storia comune è capace di evidenziare ciò che rende simili i cittadini europei di diverse nazionalità, ma, contestualmente, permette di conoscere i mali dei conflitti europei del passato.
La storia d’Europa è stata segnata non soltanto da molte diversità, ma anche da fratture profonde. Ciò che oggigiorno consente di pensare ad una Europa unita è il dato obiettivo ed innegabile dell’impossibilità che gli europei possano nuovamente guerreggiare tra loro. Di conseguenza, vi è la possibilità di valorizzare ciò che accomuna gli europei, anche tornando molto indietro nel tempo e sottolineando, ad esempio, le comuni radici nella cultura latina. L’Europa è sempre stata uno straordinario centro d’attrazione di diversi popoli e culture. Tale coacervo di culture ha prodotto nell’Europa antica la nascita della democrazia, prima ancora della letteratura e della filosofia. Nell’Europa antica, la presenza costante della democrazia ha generato l’invenzione della piazza pubblica — l’Agorà dei Greci, il Foro dei Romani – intesa come luogo, ove i cittadini si incontrano per discutere e prendere decisioni. Perfino nei monasteri medievali è esistita una forma di democrazia, dato che gli abati erano eletti da tutti i monaci. In altri termini, secondo Jacques Le Goff, la storia d’Europa insegna che le ragioni della democrazia sono le uniche vere fondamenta per costruire un’Europa unita.

Adesso che Jacques Le Goff se ne è andato via, ci s’interroga sulla reale importanza del suo lascito culturale. In più occasioni, egli ha ribadito che la “storia è memoria” e spiegava che si tratta di “una memoria che gli storici si sforzano, attraverso lo studio dei documenti, di rendere oggettiva, la più veritiera possibile: ma è pur sempre memoria. Non proporre ai giovani una conoscenza della storia che risalga ai periodi essenziali e lontani del passato, significa fare di questi giovani degli orfani del passato, e privarli dei mezzi per pensare correttamente il nostro mondo e per potervi agire bene”.
Probabilmente, in queste parole di Jacques Le Goff, risiede l’essenza della eredità culturale dello storico francese che, grande intellettuale, ha voluto ed riuscito ad essere anche un grande divulgatore dei principi fondanti della cultura e della storia europee.