340 euro al mese? No, grazie.

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Questa è la storia di Giorgia. Le offrono 340 euro al mese, ma dice no. E in una lettera aperta pubblicata su La nuvola del lavoro esorta tutti a fare lo stesso. Abbiate il coraggio, dice, fatelo anche voi. Basta compromessi con i datori di lavoro furbetti.
Giorgia ha 26 anni, è marchigiana ed è laureata in Lettere. Il suo sogno è quello di fare la giornalista. Una storia come tante, penserete. Invece non è solo una storia di tristezza e difficoltà. È anche una storia di coraggio e di speranza nell’Italia di oggi. Questa ragazza lancia un messaggio importante, chiaro e forte. Di messaggi così ne vorremmo di più. Vorremo che la forti parole di Giorgia potessero raggiungere il più ampio numero di giovani, perché finché ci sarà qualcuno disposto a cedere a certi compromessi l’Italia non cambierà.

MIchele De Sanctis per BlogNomos

5 giorni su 7 a 340 euro
di Giorgia D.

Dobbiamo imparare, a volte, a dire no. Dire no a quel datore di lavoro furbetto che ti offre due spiccioli per un impiego che meriti e per il quale hai studiato.

Io ho detto di no ma, finché ci saranno ragazzi che accetteranno qualsivoglia compromesso, la situazione in Italia non cambierà.

Ho 26 anni e sono una giornalista praticante. Vivo nelle Marche ma sto cercando lavoro dove si dice che ancora qualcosina ci sia: Milano. Ho mandato il curriculum a un’agenzia di comunicazione che, dopo un primo colloquio, ha deciso di assumermi. Bello vero?

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Sì, peccato che mi offrivano 500 euro con partita Iva. Chiamo immediatamente il mio commercialista che mi spiega come funziona. Ecco la sintesi. Per gli under 35 la partita Iva è agevolata al 5 per cento quindi significa che ai 500 euro iniziali avrei dovuto togliere 25 euro. Totale stipendio mensile: 475 euro. Ma non finisce qui. A questa somma va sottratto il 27% della Gestione Separata dell’Inps.

Ho studiato Lettere ma due calcoli riesco a farli. Al mese il guadagno sarebbe stato di 340 euro. Con questa cifra sarebbe stato impossibile prendere una stanza in affitto e sopravvivere, così ho detto subito di no. Arrivederci, senza grazie.

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Un altro ragazzo invece ha accettato l’offerta. Lui è di Milano e ha deciso di svegliarsi cinque giorni su sette per prendere 340 euro. Chi finora ha accettato questi compromessi, si deve ritenere colpevole della crisi economica e della disoccupazione giovanile.

Basta a dire “fa curriculum”, “fa esperienza”. Abbiate il coraggio di dire che vi meritate di più.

Fonte: La nuvola del Lavoro. Corriere della Sera

Riflessioni di un pendolare qualunque

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Il vero metro è la ferrovia che come la CIA te può insegnà che una differenza sostanziale e profonda tra prima e seconda ci deve stà, così cantava il dissacrante Rino Gaetano tanti anni fa. Ed è ancora quello il metro. Per noi viaggiatori dei giorni feriali lo è sempre. Ma al sabato e alla domenica torniamo gente normale che, nel conforto delle proprie dimore, prova a non sentirsi in seconda classe. E per due giorni ci concediamo il lusso di essere cittadini. Punto.

di Michele De Sanctis

È notizia recente: due treni si sono scontrati in un tratto a binario unico tra Gimigliano e Cicala, nei pressi di Catanzaro. È  solo l’ultimo di una serie di incidenti ferroviari, che sebbene in diminuzione negli ultimi tempi, restano comunque un fenomeno preoccupante per chi sul treno sale ogni giorno per andare a lavorare e per tutti quelli che, anche se sporadicamente, scelgono di viaggiare con Trenitalia. Anche il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, in seguito a quest’ultimo fatto di cronaca ha sottolineato l’emergenza del sistema ferroviario italiano, segnalando che gli incidenti ferroviari in Italia sono ancora troppi e che è necessario intervenire per incrementare la sicurezza sulle rotaie del nostro Paese, aggiungendo, inoltre, che è assolutamente necessario migliorare controlli e manutenzione.

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È vero. Serve manutenzione. Soprattutto sui trasporti locali in tutta Italia, sulle Frecce della tratta adriatica, dove la Freccia Bianca “corre” su binari insufficienti, nelle giornate di pioggia quasi lambiti dalle onde del mare in tempesta nel tratto fermano ed ascolano e quasi sommersi tra San Benedetto e Pescara da innocui fiumi secondari che l’imperizia, la negligenza e la connivenza dei nostri amministratori hanno trasformato in bombe ad orologeria. Treni regionali cancellati, Eurostar che viaggiano con 30, a volte anche 60 minuti di ritardo a causa di un guasto ai motori. E il ritardo non è un avvenimento così raro, così come la cancellazione dei treni regionali, quando il ritardo non è più recuperabile. La scorsa settimana l’Intercity per Rimini, con partenza da Ancona Marittima, ha impiegato quasi venti minuti per arrivare ad Ancona Centrale. Io ero su quel treno. Non so come sia proseguita la corsa, perché alla stazione centrale ho effettuato il cambio per salire sulla Freccia per Taranto, che, per fortuna, era in ritardo di dieci minuti, ma vi giuro che venti minuti sono quelli che avrei impiegato dal porto alla stazione se avessi scelto di muovermi sulle mie gambe.

E che dire del tratto ligure dove a gennaio un treno Intercity è deragliato, a causa di una frana, sulla linea Genova-Ventimiglia, in un tratto a binario unico, bloccando tutto il traffico ferroviario, anche quello con la Francia? Lo sapete che quel treno è rimasto lì fino a metà febbraio, quando finalmente è stata portata a termine la demolizione della  terrazza parcheggio franata per lo smottamento? Le foto che circolavano in rete con quel treno in bilico tra terra e mare sembravano quasi simboleggiare l’immobilismo in cui versa attualmente il nostro Paese tra crollo e ripresa e nessuna azione per rimetterlo sui binari. Un’istantanea di questi anni terribili di crisi. La tempistica per ripristinare il tratto ferroviario non sarà breve e nel frattempo la viabilità di questa linea resterà un inferno. E a pagarne il prezzo saranno principalmente i pendolari, cui verrà intanto negato (o quanto meno diminuito) un servizio essenziale. Per non parlare, poi, dei danni sotto il profilo commerciale e turistico. Merci provenienti dalla vicina Francia che non potranno transitare verso il porto di Genova per settimane, la provincia di Imperia isolata, il timore che a inizio stagione la Riviera sarà ancora interrotta con pesanti ripercussioni sul settore alberghiero.

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Ma i disagi che i pendolari italiani devono affrontare non sono solo quelli dovuti alla scarsa manutenzione dei binari. Anche i treni lasciano un po’ a desiderare. Quando c’è un guasto ai motori, non solo il treno non riparte, nemmeno l’aria condizionata funziona. Sapete che vuol dire stare per più di mezz’ora in pieno inverno alle sei di mattina in un treno fermo e al buio? Vi auguro di non scoprirlo mai, non è una bella esperienza. Ma è sicuramente meglio che viaggiare in agosto con l’aria condizionata fuori servizio, quando la temperatura percepita dai viaggiatori si avvicina a quella di termofusione. E vogliamo parlare di ciò che è accaduto lo scorso 21 novembre ai viaggiatori del treno Pisa-Aulla? Fuori pioveva e anche nel treno le condizioni meteo non erano delle migliori: i pendolari sono stati costretti a viaggiare con l’ombrello aperto per ripararsi dall’acqua. La scena è stata immortalata in una foto scattata e pubblicata su Facebook da uno degli utenti del gruppo ‘I problemi della Linea Fs Pisa-Aulla’ che commenta ”i pendolari ormai ci sono abituati… è bello vedere le facce delle persone che usano la nostra linea per la prima volta”. Un altro utente del gruppo aggiunge che ”era già successo! Ed era successo d’estate per giunta quando si era rotto il condizionatore e gocciolava in testa alla gente. Mamma mia… ridiamo per non piangere”. La foto ha fatto il giro della rete fino a diventare virale tra i pendolari di tutto il Paese.

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Intanto si spera che a Roma vengano prese delle iniziative immediate per trovare soluzioni. Invece no. È il solito scaricabarile all’italiana, con Trenitalia che punta il dito contro Governo e Regioni, Regioni che accusano Trenitalia e chiedono iniziative al Governo, il Governo che promette e i cittadini, intanto, trattati come merci, le bestie forse viaggiano con confort maggiori sui treni italiani. Lupi prometteva un tavolo di incontro (o scontro?), ma non ne sono riuscito a reperire notizia alcuna in rete. C’è mai stato?

E poi e poi…e poi ci sono tutti quei treni soppressi per carenza di fondi nel corso del 2013. A ottobre varie Regioni hanno deciso di usare le forbici. In Piemonte tagli per 5 milioni con la soppressione di 18 treni che collegano la regione con la Liguria e disagi per oltre duemila pendolari. Gli interregionali Milano-Venezia sono diventati una barzelletta: a luglio la Regione Veneto ne aveva soppressi 8, sostituendoli con i più lenti regionali, causando disagio per circa diecimila utenti. A dicembre la Lombardia ha ripristinato la tratta, ma solo fino a Verona senza, peraltro, garantire le coincidenze. Così per andare a Venezia ed evitare il trasbordo a Verona, i quattromila pendolari giornalieri tra le due regioni sono ora costretti a servirsi dei Frecciabianca, che costano dal doppio al triplo di un interregionale. Un favore all’Alta Velocità. A settembre in Calabria 14 sono stati i treni locali soppressi, decisione che aveva spinto il Pd a presentare un’interrogazione alla Camera. La scure si è poi abbattuta anche sugli Intercity: a fine ottobre Trenitalia ha deciso di tagliarne 12 tra la Toscana e altre 8 Regioni, dal Friuli alla Campania. I pendolari sono scesi sul piede di guerra e la politica si è mossa: il 24 ottobre i governatori interessati hanno scritto al presidente del Consiglio Enrico Letta e il Pd ha presentato un’interpellanza alla Camera.

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Intanto, il 20 novembre 2013 l’Italia è finita nel mirino della Commissione UE per lo scarso interesse mostrato verso le condizioni di vita dei suoi 3 milioni di pendolari. Bruxelles ha inviato a Roma un parere motivato (secondo stadio della procedura di infrazione) perché lo Stato, a 4 anni dal regolamento che avrebbe dovuto essere attuato entro il 3 dicembre 2009, non ha ancora istituito un’agenzia nazionale permanente per vigilare sulla corretta applicazione dei diritti dei passeggeri nelle ferrovie, né stabilito norme volte a sanzionare le violazioni della legislazione comunitaria. Se l’Italia non avesse provveduto entro 2 mesi, la Commissione avrebbe avuto facoltà di deferire lo Stato alla Corte di Giustizia del Lussemburgo. Cosa aspetta la Commissione a deferirci. Che sia la volta buona per i pendolari d’Italia.

Da Trenitalia, poi, Mauro Moretti, amministratore delegato della società, che da tempo sostiene che il trasporto locale è un problema, perché non si ripaga con i biglietti, ha prima minacciato, a fine 2012, di interrompere il servizio, mentre nel 2013 ha proposto di tassare i pendolari per fare cassa e svuotare i treni locali, istituendo fasce tariffarie differenziate, con sistemi di incentivazione e disincentivazione di certi orari. Per l’a.d. di Trenitalia i biglietti dei treni più affollati dovrebbero costare più degli altri. A novembre ha inoltre dichiarato: “Stiamo investendo 3 miliardi per comprare treni locali, peccato che dalla politica non abbiamo visto un centesimo”.

Per gennaio il gruppo aveva annunciato l’arrivo di 70 nuovi treni per il trasporto locale in Piemonte, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo e Calabria, per un investimento di 450 milioni di euro. Utili, peccato per le quotidiane inefficienze. Sapevate che per andare da Ancona a Fabriano, provincia di Ancona, con un regionale, ci vuole circa mezz’ora in più che per arrivare a Pescara sulla Frecciabianca? Treno nuovo, ma stessi binari.

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Vero è che ai nostri politici il trasporto ferroviario sta particolarmente a cuore. Ma negli ultimi anni, il trasporto che più attira il loro interesse è quello sulle Frecce e Italo. A fine anno, il Ministro Lupi aveva persino annunciato sconti sull’alta velocità, per incentivarne lo sviluppo. Sembra quasi che sul fronte trasporti il nostro Paese abbia sposato il concetto europeista delle due velocità. C’è chi viaggia lento e male sui treni locali e gli utenti dell’Alta Velocità, che, come recita lo slogan, viaggiano sulla metropolitana d’Italia. Sulla tratta tirrenica e al Nord. Provate a farvi Taranto Milano sulla Frecciabianca: tranquilli, non va così veloce, anche se siete deboli di cuore, sarà come un viaggio in calesse.

La verità è che i treni ad alta velocità stanno uccidendo la rete ferroviaria italiana. Se la storia ci insegna che ogni volta che la società è avanzata economicamente, la velocità dei trasporti è aumentata, per facilitare gli scambi commerciali è, altresì, vero che questa volta è arrivata l’onda lunga di una rete ferroviaria che prima di essere completata era già stata investita da una crisi economico-finanziaria senza precedenti. Il risultato è che per incentivare l’uso dei treni ad alta velocità vengono meno i servizi ferroviari essenziali, il tempo di percorrenza finisce per essere più o meno lo stesso ma con costi tre volte superiori. E s’inverte la parabola per cui il trasporto ferroviario giocherebbe un ruolo chiave nel contenimento delle emissioni dannose all’ambiente, poiché il suo diretto concorrente, il trasporto aereo, paradossalmente prolifica. L’aumento di linee ferroviarie ad alta velocità produce un aumento di compagnie aeree low-cost, così che invece di sottrarre viaggiatori al trasporto aereo lo favoriscono, cambiando di fatto la tipologia stessa dei viaggiatori: mentre prima a utilizzare l’aereo era il benestante mentre il treno risultava accessibile a tutti, oggi il treno ad alta velocità diventa prerogativa di pochi e i molti approfittano di tariffe aeree competitive.

Restano, infine, quei pendolari qualunque che ogni giorno affrontano la sfida dei trasporti locali, sperando ogni mattina di riuscire a smarcare il cartellino a un orario decente. E magari di riuscire anche a tornare a casa.

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Lavoro, la beffa delle 30enni laureate: più preparate e meno pagate

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A cinque anni dalla laurea le ragazze che hanno trovato un impiego hanno in media uno stipendio di 1.333 euro. Ai loro coetanei vanno invece 300 euro in più. Un divario, anche nella precarietà, più elevato anche rispetto alle più giovani. E la nascita di un figlio diventa sempre di più un elemento condizionante. Indagine Almalaurea sul profilo di 210mila laureate.

di FEDERICO PACE La Repubblica 8/3/2014

Alcune di loro le trovi nei posti di comando delle imprese, altre stanno sedute di fronte ai luminosi monitor dove si decidono le sorti dei capitali mondiali e qualcuna anche sta sullo scranno di ministro di governo. Eppure, la gran parte delle 30enni italiane sono altrove. Le trovi negli uffici e negli spazi di piccole e grandi imprese, impegnate al loro meglio e costrette a dover accettare condizioni di lavoro svantaggiate rispetto a quelle dei loro colleghi maschi. Dall’editoria alla grande distribuzione. Quasi ovunque, un divario persistente, sia in termini di paga mensile sia di precarietà, a un’età così cruciale per lo sviluppo del proprio destino e per la crescita di un nuovo nucleo familiare.

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A cinque anni dalla laurea, le ragazze che sono riuscite a trovare un impiego, ricevono dalle imprese, in busta paga, solo 1.333 euro. I loro colleghi riescono invece a portare a casa una cifra che le supera del 22 per cento (1.626 euro). Quel che accade alle 30enni italiane ha l’aspetto di una beffa ancor maggiore, perché a un anno dalla laurea, la scarto che separa i due generi è di gran lunga inferiore e pari al 14 per cento (1.098 euro per le donne e 1.254 per gli uomini). Con il passare del tempo, di fatto, invece di smussarsi, le ineguaglianze e le disparità si inaspriscono e si acuiscono. Con il passare del tempo, alle ragazze, troppo spesso, non viene data la possibilità di accrescere il proprio valore e impiegare al meglio le risorse di cui sono in possesso.

Il dato italiano è quello elaborato dall’ultima indagine di AlmaLaurea che ha studiato il profilo di quasi 210 mila laureate. Il consorzio interuniversitario ha “fotografato” le immagini delle ragazze nei successivi passi della loro crescita e maturazione: a un anno dal conseguimento del titolo di studio, a tre anni e a cinque anni. I dati, come visto, non sono confortevoli. Il professore Andrea Cammelli, direttore, fondatore del consorzio e da sempre attento studioso dei fenomeni legati ai giovani in rapporto all’istruzione e all’occupazione, ha voluto precisare come questi dati siano il “segnale di un forte arretramento culturale e civile del Paese rispetto all’obiettivo di realizzare una partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro” e ha sottolineato come di fatto “tale arretramento contribuisca a svalutare gli investimenti nell’istruzione universitaria femminile”.

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E’ vero che i differenziali retributivi possono essere influenzati da molti fattori. Dal tipo di studi intrapresi, dall’età media alla laurea, dal voto di laurea, dalla formazione post-laurea, così come dalla tipologia dell’attività lavorativa, dall’area di lavoro e dal diverso peso del tempo pieno e del part-time tra i due diversi generi. Gli esperti di AlmaLaurea però, in una ricerca ad hoc, hanno anche neutralizzato tali effetti e hanno mostrato come a parità di condizioni, i trentenni continuino a guadagnare in media 172 euro mensili in più delle loro coetanee.

In questo scenario si innesta poi l’elemento della precarietà che aggredisce il segmento femminile in misura maggiore di quanto non faccia con quello maschile. A un anno dalla laurea riescono a trovare un posto stabile solo il 31 per cento delle ragazze, mentre i ragazzi arrivano al 39 per cento. Con l’andare del tempo, se è vero che pare attenuarsi la precarietà dei ragazzi, che arrivano a un contratto stabile nel 79 per cento dei casi, lo stesso non accade in ugual misura alle ragazze. Nel loro caso, a cinque anni dalla laurea, solo due terzi riescono a conquistarsi il tanto ambito rapporto di lavoro stabile.

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Queste le ineguali condizioni di chi è riuscita a trovare un impiego, più o meno stabile, più o meno remunerato. Ma a queste vanno aggiunte, le molte che purtroppo non ci riescono neppure. Trovare lavoro è difficile per tutti, è una battaglia dove nessuno dei due generi risulta davvero vincente, entrambi strozzati in un mercato asfittico e sempre più striminzito. Eppure le donne fanno ancor più difficoltà, anche lì dove è già difficile per tutti. Già a un anno dalla laurea le differenze sono significative: trovano un impiego 52 donne su 100, mentre tra gli uomini ce ne riescono 59 su cento. C’è anche un altro dato che svela come le ragazze subiscano in misura maggiore la beffa: sono loro infatti quelle che in maggiore percentuale si dichiarano alla ricerca di un impiego (35 per cento rispetto al 27 degli uomini).

C’è poi la delicata questione della maternità. Se una giovane donna ha il coraggio, l’ardire, lo slancio, la naturalezza di divenire madre, allora la disparità occupazionale cresce quasi a dismisura. Le trentenni, a cinque anni dalla laurea, che hanno almeno un figlio hanno un tasso di occupazione pari al 63,5 per cento mentre i loro coetanei con figli sono occupati per l’89 per cento.

Avere un figlio, in termini occupazionali, di fatto risulta essere un condizionamento che forse non ha pari in Europa. Lo si capisce ancora di più se si mettono a confronto i destini occupazionali delle trentenni che hanno avuto almeno un figlio, con quello delle giovani che i figli, volenti o nolenti, non li hanno fatti. Ebbene, il 76 per cento delle laureate senza figli lavora a cinque anni dalla laurea, mentre succede lo stesso solo al 63 per cento di quelle con almeno un figlio. Questi numeri chiamano in causa i decisori e non si può non dare ragione a Cammelli quando dice che sono “forti sono le responsabilità in termini di politiche a sostegno della famiglia e della madre-lavoratrice”.

Fonte: La Repubblica

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Womenomics. Un ruolo per l’occupazione e la valorizzazione del talento femminile nell’attuale crisi finanziaria ed economica.

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Le donne oggi costituiscono un immenso serbatoio di talento nel mondo del lavoro e rappresentano più della metà del mercato dei beni di consumo. Raggiungere le consumatrici e sviluppare il talento femminile è essenziale per far fronte alle sfide del ventunesimo secolo. È dimostrato infatti che un miglior equilibrio di genere nelle imprese – a tutti i livelli, ma soprattutto ai piani alti – porta a risultati migliori. Perché allora sono ancora così poche le donne in ruoli di leadership nelle aziende? Perché le imprese hanno difficoltà a rispondere adeguatamente alle esigenze delle consumatrici di oggi? Perché in tutto il mondo continua a persistere un divario salariale tra uomini e donne? Gli attuali sistemi aziendali e le relative culture non sono più adeguati né all’articolazione dell’odierna forza lavoro, né alla complessità della società, né alle sfide future. Bisogna uscire dai vecchi schemi e compiere una vera e propria rivoluzione culturale per rendersi conto che le donne nel mondo del lavoro non costituiscono un problema etico, ma una necessità economica. Portatrici di attitudini e capacità diverse, esse costituiscono una gigantesca opportunità e favorirne l’ascesa alle posizioni di vertice è urgente per assicurare una crescita sostenibile dell’economia.

Ad oggi, il mondo paga ancora (e a caro prezzo) i costi di una situazione in cui le donne probabilmente hanno le chiavi, ma gli uomini continuano a controllare l’accesso alla serratura.

Il nostro Paese, poi, non si è mai distinto per politiche di genere particolarmente efficienti. Maurizio Ferrera, professore presso l’Università degli Studi di Milano nel saggio “Il fattore D” (edito da Mondadori) analizza le implicazioni che sul piano economico avrebbe la valorizzazione delle risorse femminili. Da anni l’Italia cresce poco o nulla. Cresce poco dal punto di vista economico. E cresce ancora meno sul piano demografico. Negli ultimi tempi sono state scritte molte pagine e sono state spese fin troppe parole per elencare tutto quello che andrebbe fatto per rimettere in moto il Paese: liberalizzazioni, mercati più efficienti, fisco più leggero, investimenti in ricerca e innovazione. Eppure esiste una risorsa più importante di ogni altra, di cui si parla poco: il lavoro femminile. Fare largo alle donne e promuoverne l’occupazione femminile è diventato urgente non solo per ragioni di pari opportunità e di giustizia sociale, ma soprattutto perché senza di loro l’Italia non cresce. Si pensi ai crescenti tassi di disoccupazione femminile, che si attestano intorno al 13% circa, con un tasso di aumento pari allo 0,9% su base annua. Percentuali che su base geografica lasciano basiti: nel secondo trimestre 2012 l’Istat evidenziava che nel solo Mezzogiorno il tasso di disoccupazione tra le 15-24enni era salito del 48% rispetto al primo trimestre. L’Italia, senza rendersene conto, sta quindi rinunciando a quello che recentemente si è rivelato essere il vero motore dell’economia mondiale: nell’ultimo decennio l’incremento dell’occupazione femminile negli altri Paesi sviluppati ha contribuito alla crescita globale più dell’intera economia cinese. Il fattore D, il lavoro delle donne, è un fattore decisivo di crescita, perché garantisce più ricchezza alle famiglie.

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Ma cos’è il fattore D? Bene, pensiamo che in Italia per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. L’ingresso nel mercato di 100 mila donne oggi inattive, infatti, farebbe crescere il nostro PIL di 0,3 punti l’anno. La Banca d’Italia stima, peraltro, che se la percentuale di lavoratrici donne (oggi il 47%) raggiungesse gli obiettivi dei Lisbona (il 60%), ci sarebbe un impatto sul PIL di 7 punti. Questo fattore di crescita è, appunto, il fattore D. Ed è un dato sorprendente. Ma com’è possibile? Se più donne lavorassero otterremmo un nuovo moltiplicatore di benessere perché ogni donna che inizia a lavorare avrebbe necessità di delegare il lavoro di casa ad altri: dalla spesa alla cura dei figli, degli anziani e della casa. In questo modo ogni donna occupata potrebbe generare nuova domanda di lavoro in altri settori. E, ai fini dell’economia domestica, l’apporto di uno stipendio in più non può che accrescere il benessere della famiglia.

Anche The Economist stima che in Paesi come il Giappone, la Germania e l’Italia, che sono tutti in difficoltà demografica, lavorano molte meno donne che in America, per non parlare della Svezia. Il problema non è solo italiano, per una volta. Ma se la forza lavoro femminile arrivasse ai livelli americani, ciò darebbe una potente spinta alla crescita economica.

Il fattore D, la rivoluzione economica che aiuterebbe il vecchio continente a riprendersi dalla peggior crisi di sempre è una nuova formula della crescita: donne, lavoro, economia, fecondità. In altre parole, womenomics! Fu proprio l’Economist a coniare per primo questo neologismo nel 2007 (Womenomics revisited, The Economist 19/04/2007), riprendendo una tesi lanciata da Goldman Sachs già nel 1999. Come si accennava poco fa, la prima interessante scoperta è la stretta connessione tra lavoro femminile e crescita economica, per cui si stima che verrà dal lavoro femminile l’impulso più importante alla crescita nel prossimo futuro. La formula della womenomics in base alla quale la crescita economica dipende dall’impiego di donne, lavoro, economia e fecondità è la prima a legare le tematiche delle cosiddette pari opportunità agli indicatori di crescita economici di un Paese: senza un maggior apporto alla produzione da parte delle donne l’economia mondiale non cresce sufficientemente. Nei Paesi dove questa partecipazione è alta anche i problemi demografici sono minori. Il corollario della womenomics è quindi che se più donne lavorano, aumenta anche la fertilità di un’intera Nazione. E questo dato, peraltro, aumenta ancora di più se sul territorio ci sono buoni servizi di conciliazione come gli asili. L’assunto alla base è che le donne non devono più trovarsi nella condizione di scegliere se fare un figlio o lavorare.

Le basi culturali per la rivoluzione in rosa ci sono già, anche nel nostro Paese, dove purtroppo la mentalità del maschio dominante è ancora abbastanza diffusa. Il professor Ferrera, però, spiega che negli ultimi anni è senza dubbio cambiata la qualità del dibattito. Le tesi della womenomics sono diventate patrimonio comune, sono uscite ricerche e libri importanti, si sono creati siti, blog, movimenti. Anche a livello parlamentare, qui in Italia, sono nate alleanze trasversali su alcuni temi e quindi la qualità del dibattito è ora simile a quella degli altri Paesi europei. A questa evoluzione sul piano culturale non è però corrisposta un’azione di governo capace di mettere in pratica le ricette proposte. Il tasso di occupazione femminile è ancora fermo al palo, sul tema della conciliazione non si è andato molto avanti, stesso discorso per i congedi parentali. Il progetto asili nidi lanciato dal governo Prodi è stato frenato a livello regionale e non è stato più ripreso dai Governi successivi e le politiche per la famiglia e la conciliazione non sono state finanziate. Eppure, nonostante la politica e le istituzioni siano lente nel percepire e nell’attivarsi, rimane questa la formula dello sviluppo: le donne che lavorano saranno il motore dell’economia di domani, anche come via di fuga dalla crisi. L’attenzione è da porre sui soggetti che ne beneficeranno. Womenomics significa benessere e crescita per tutti, non solo per le donne.

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Le azioni più urgenti da intraprendere (e che il Governo Renzi, così sensibile al tema delle quote rosa, dovrebbe perseguire) sono diverse. In particolare la possibilità, per le donne che già lavorano, di poter usufruire di un orario flessibile, che permetta loro di conciliare i tempi della famiglia (le esigenze dei bambini come anche degli anziani) con quelli del lavoro. Flessibilità degli orari, non dei contratti. Anzi, sul punto andrebbero prese azioni urgenti contro la prassi delle cd. dimissioni in bianco e rivista la disciplina del congedo parentale per incentivare il ruolo del padre nella cura dei figli e anche per evitare che le carriere delle donne siano influenzate negativamente da una concentrazione del congedo solo sulla madre. Nonostante i papà ne abbiano la facoltà, sono rari i casi in cui siano loro ad usufruirne, soprattutto nel lavoro privato. Per quanto riguarda le agevolazioni per incentivare la womenomics, quello che più convince l’autore di Il Fattore D è il modello francese: l’introduzione, cioè, di maggiori agevolazioni fiscali ai nuclei familiari, così da consentire lo sviluppo di nuovi servizi alle famiglie e creare nuovi posti di lavoro.

Da ultimo, si evidenzia l’importanza della womenomics non solo a livello macro, ma anche nella gestione dell’impresa privata. Molteplici esperienze e casi aziendali hanno già provato, non solo negli States, che l’equilibrio tra i generi porta più innovazione e migliori risultati nel business e nel governo aziendale; dopotutto le donne costituiscono la maggioranza del mercato e gran parte del talento attivo nel mondo del lavoro. A rivelarlo è Avivah Wittenberg-Cox – autorità mondiale su temi di leadership, genere e impresa – che nel saggio ‘Womenomics in azienda. Come valorizzare i telenti femminili e trarre profitto da un buon equilibrio di genere’ mostra come sia necessario raggiungere nel mondo del lavoro e del business un proficuo e salutare equilibrio dei due generi, maschile e femminile, e come mettere in pratica questo postulato in quattro semplici fasi: Audit, Consapevolezza, Allineamento e Sostegno. Alcune tra le più grandi aziende di punta nel mondo hanno già tratto beneficio e profitto dal riequilibrio delle loro attività.

È un’occasione che non possiamo perdere. E’ una sfida alla mentalità ottusa e machista, è il punto da cui ripartire, uomini e donne, per avviare la ripresa della nostra più grande ‘azienda’: l’Italia.

Michele De Sanctis

“Affitto gratis la mia Mivar a chi assume 1200 italiani”

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Da La Repubblica del 7 marzo 2014

La storica azienda di televisori, fondata nel 1945, è stata stritolata dalla concorrenza dei colossi asiatici. La Rai filma l’ultimo giorno di vita della fabbrica.

ROMA – Le operaie sfilano una ad una. Con il pennarello scrivono sul retro di un televisore. È l’ultimo giorno della Mivar e vogliono fare una sorpresa al loro padrone. “Questo è per lei, ci sono le firme di tutti”, gli dicono porgendo quell’ultimo esemplare prodotto dalla storica e unica fabbrica italiana di apparecchi televisivi (e anche radiofonici), fondata nel 1945. Carlo Vichi, 90 anni, si commuove. “Ma ci sono anche i nomi degli uomini. Voglio solo i vostri!”, esclama scherzando. Perché qui, in via Dante 45, Abbiategrasso, erano loro, le donne, a costruire – non assemblare – pezzo per pezzo i televisori. Quelli col tubo catodico in bianco e nero e la scheda. Gli schermi piatti, negli anni recenti. Poi la concorrenza spietata di coreani e giapponesi, i debiti, la chiusura due mesi fa. “Ho un sogno. Poter dire ricominciamo a quanti ho detto: è finita”, ripete ora Carlo Vichi. “E per farlo, un’idea c’è. Se una società di provata serietà accetta di fare televisori in Italia, io gli offro la mia nuova fabbrica, pronta e mai usata, gratis. Non voglio un centesimo. Ma chiedo che assuma mille e duecento italiani, abbiatensi, milanesi. Questo chiedo. Veder sorridere di nuovo la mia gente”.

Vichi cammina piano nella sua fabbrica, la seconda. Non lontana dalla “casa madre” di via Dante, è stata pensata, progettata, disegnata da lui stesso. Due piani, 120 mila metri quadri totali, parcheggi, grande mensa, presidio medico. “Insuperabile, qui ci possono lavorare in 1.200, tutto in vista senza ufficetti. Vede com’è luminosa?” dice a Domenico Iannacone, giornalista e autore dei “Dieci comandamenti”, la fortunata serie di inchieste e storie italiane che riparte questa sera su Raitre proprio dalla Mivar (ore 23,15). La fabbrica è finita ormai da dieci anni. Costruita senza mutuo, costata milioni di euro, mai inaugurata. “Molti pensavano che con i risparmi mi facessi una casa. Ma io ho fatto questo, immaginando tanta gente muoversi e che mi sorridesse”. Da allora, Vichi ha tenuto questi immensi locali sempre curati, accende e spegne le luci, verifica ogni angolo. E paga l’Imu. Ma la produzione quella no, non è mai partita. Anzi, anche l’altra sede a Natale ha chiuso. Per tenerla aperta, dal 2000 in poi Vichi ha speso 100 milioni.

“Eravamo in novecento e facevamo 5.460 televisori al giorno, un milione all’anno. Ora è tutto vuoto, solo qualche scrivania. I grossi colossi c’hanno calpestato”, riflette amaro Rocco. “Ho disegnato televisori per venticinque anni. Anche se il vero designer è il signor Vichi, io la mano. È rimasto sempre in trincea, al suo tavolo con le rotelle in mezzo a noi, la sua morsa, le sue idee, il suo compasso. Lavorando anche di sabato e domenica”. “E in tutte le feste comandate, Natale e Pasqua, la sua casa è la fabbrica, da sempre”, aggiunge Anna Vichi, la moglie. “Abbiamo iniziato da sposini, in una cameretta. Avevamo 18 anni e Carlo, geniale meccanico, progettava notte e giorno sopra un banco, in un angolo che ci stava appena appena. Poi ha cominciato ad assumere. Si è preso tutti quelli delle case popolari”.
Lei è fiero di questa fabbrica?, chiede Iannacone a Vichi. “Beh insomma, questo sono io”.

Storie italiane di tenacia, ma anche di un modo di fare impresa d’altri tempi. Che stride con l’ultima parte del racconto di Iannacone. Quella dedicata all’Ilva di Taranto, la fabbrica cattiva. Vista con gli occhi, anzi con la voce di Mario, ex campione mondiale di karate contact, medaglia d’oro nel 2007, operaio Ilva e ora malato di cancro all’esofago e alla lingua. Cinque operazioni, ma il male si espande, anche alla laringe e alla tiroide. “Posso parlare solo con la macchinetta”, spiega tenendo per mano Felicetta, la moglie. “Ma non odio la fabbrica, perché c’ha dato il pane”. “Io invece la odio con tutta me stessa”, lo corregge Felicetta. “La fabbrica ti abbandona, ti fa firmare il licenziamento e via. Diventi scarto. Ma la vita che c’hanno tolto, chi ce la ridà?”.

Fonte: La Repubblica

Lavoro somministrato nella Pubblica Amministrazione. Quer pasticciaccio brutto della spending review.

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Il decreto 276 del 2003 e successive modifiche, con particolare riguardo a quelle introdotte dal decreto legislativo del 2 marzo 2012, n. 24, sostituendo il lavoro interinale con quello somministrato, ha disciplinato, tra l’altro, la materia del contratto di somministrazione di lavoro applicabile, entro determinati limiti e vincoli, anche alle Pubbliche Amministrazioni. Sebbene, infatti, l’art. 1, comma 2 del decreto in parola escluda espressamente le Pubbliche Amministrazioni e il relativo personale dalla sua applicazione, il successivo articolo 86, comma 9 prevede espressamente che la somministrazione di lavoro trovi applicazione anche alla P.A. limitatamente ai contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Si tratta di una norma di raccordo che consente quindi l’applicazione dell’istituto previsto dalla cd. Legge Biagi anche alla Pubblica Amministrazione.

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Più di recente l’Unione Europea è poi intervenuta sul tema con la direttiva 2008/104/CE, pubblicata in G.U.R.I. n. 69 del 22/03/2012, dedicata, per l’appunto, al lavoro tramite agenzia interinale e finalizzata all’armonizzazione dei diversi ordinamenti degli Stati membri così da promuovere il completamento del mercato interno attraverso un miglioramento della vita e delle condizioni dei lavoratori nella Comunità europea. Nel considerando 2 della direttiva si legge che ciò avverrà mediante il ravvicinamento dei diversi ordinamenti soprattutto per quanto riguarda forme di lavoro come quello a tempo determinato, a tempo parziale, il contratto mediante agenzia di lavoro interinale e il lavoro stagionale. Secondo l’Unione, il lavoro tramite agenzia interinale risponde non solo ad esigenze di flessibilità delle imprese, ma anche al bisogno dei dipendenti di conciliare vita professionale e vita privata e può validamente contribuire alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione e integrazione nel mercato del lavoro (v. considerando 11 della direttiva). Difficile in tempi di crisi capire come per l’Unione un lavoro precario e privo di aspettative di carriera (ma anche di stabilità) possa conciliarsi con la vita privata del lavoratore: vita che è naturalmente fatta di progetti, che dinanzi all’instabilità del rapporto lavorativo difficilmente possono essere realizzati. Dal mutuo per la casa ai risparmi per gli studi dei figli. Ai figli stessi: difficile metterne in cantiere uno, a queste condizioni, diciamo anche rischioso.

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Il rapporto somministrato, poi, si complica ulteriormente (ai danni del solo lavoratore, ovviamente) se il lavoro lo si presta in favore di una P.A.: l’art. 97 Cost. regola l’accesso nella stessa e stabilisce la via del concorso pubblico come modalità principale, salvo poi riservare ad alcune categorie protette l’accesso tramite liste di collocamento. Tuttavia, le politiche di contenimento della spesa per il personale nella P.A. previste dalle ultime leggi finanziarie ma anche dai recenti interventi in tema di spending review e anche dalla legge di stabilità, hanno determinato la riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato e in alcuni casi introdotto il cd. blocco del turn over, determinando il ricorso all’utilizzo sempre più frequente dei contratti di somministrazione di lavoro temporaneo o di altre forme flessibili di reclutamento, anche in considerazione del favore dimostrato dal legislatore verso tali tipologie contrattuali, soprattutto in seguito alle diverse modifiche apportate all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e nonostante i vari interventi legislativi sui limiti di spesa.
In termini di opportunità amministrativa, quando non anche politica, è necessaria un’analisi dei costi per valutare la convenienza dello strumento flessibile (ed atipico, lato sensu) che il nuovo mercato del lavoro propone.

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S’è detto che la P.A., soggetto utilizzatore, stipula un contratto di tipo commerciale col somministratore, questo perché la somministrazione prevede tre tipi di rapporti derivanti da due distinti accordi: un rapporto commerciale discendente dal contratto stipulato tra utilizzatore e somministratore, un rapporto lavorativo tra questi e il dipendente che firma un contratto di lavoro con l’agenzia e, infine, un rapporto funzionale tra il lavoratore e l’utilizzatore che si avvale delle sue prestazioni. Per una Pubblica Amministrazione, sottoposta a spending review, ricorrere alla somministrazione significa spendere per un singolo lavoratore più di quanto non farebbe se quell’unità fosse stata selezionata tramite concorso ed assunta a tempo indeterminato, ovvero determinato.
Se in origine il presupposto per ricorrere a tale contratto, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003, era individuato “nelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”, evoluzione/involuzione rispetto alle sole esigenze di carattere temporaneo previste per il lavoro interinale dalla l. 196/97, ora l’articolo 4, comma 1 lettera c), del d.lgs. n. 24/2012, nell’aggiungere all’articolo 20 il comma 5-quater, ha previsto una deroga alle suindicate ragioni di utilizzo del contratto di somministrazione a tempo determinato nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. I CCNL, nei diversi comparti del pubblico impiego, possono, infatti, disciplinare tutti i casi in cui la somministrazione può essere utilizzata per fronteggiare specifici fabbisogni temporanei riguardanti determinate professionalità. L’articolo 2 del CCNL del 14/9/2000, ad esempio, relativo al personale appartenente al Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali prevede che i contratti di fornitura di lavoro temporaneo possano essere stipulati dalle Regioni e dagli enti locali per consentire la temporanea utilizzazione di professionalità non previste nell’ordinamento dell’amministrazione ovvero in presenza di eventi eccezionali e motivati non considerati in sede di programmazione dei fabbisogni o per la temporanea copertura di posti vacanti, per un periodo massimo di 60 giorni e a condizione che siano state avviate le procedure per la loro copertura; ovvero per l’acquisizione di profili professionali non facilmente reperibili o comunque necessari a garantire standard definiti di prestazioni, in particolare nell’ambito dei servizi assistenziali.

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Nel comparto degli EPNE, invece, l’articolo 35 del CCNL stipulato in data 14/2/2001 ammette il ricorso alla somministrazione per particolari fabbisogni professionali connessi all’attivazione ed all’aggiornamento di sistemi di controllo di gestione e di elaborazione di manuali di qualità e carte dei servizi nonché per soddisfare specifiche esigenze di supporto tecnico nel campo della prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, purché l’autonomia professionale e le relative competenze siano acquisite dal personale in servizio entro e non oltre quattro mesi.
tro mesi.
Nel comparto degli enti di ricerca, poi, troviamo l’articolo 22 del CCNL stipulato in dato 21/2/2001 (normativo 1998 – 2001 economico 1998 – 1999) il quale stabilisce che il ricorso al lavoro temporaneo deve essere fatto nel rispetto dei divieti posti dalla vigente disciplina legislativa, per soddisfare esigenze a carattere non continuativo e/o a cadenza periodica, o collegate a situazioni di urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o attraverso le modalità di reclutamento ordinario, previste dal D. Lgs. 165/2001 e deve essere improntato all’esigenza di contemperare l’efficienza operativa e l’economicità di gestione.
L’attuale fase di congiuntura economica, la spending review, il piano di rientro relativo all’amministrazione sanitaria di diverse regioni italiane, giustificano sicuramente il ricorso a tale forma di lavoro, stante il blocco delle assunzioni per lo meno relativamente al personale amministrativo. Il Legislatore, da Brunetta in poi, ha preteso dal pubblico impiego standard quali-quantitativi sempre più elevati. La richiesta di efficienza rivolta a lavoratori stipendiati con denaro pubblico è certamente una scelta giusta, giuridicamente ineccepibile, in linea di principio. Tuttavia tale richiesta sembra travalicare i limiti dell’umanamente possibile, se d’altro canto le Amministrazioni non possono procedere al cd. ricambio generazionale se non in percentuali minime nei prossimi anni, quando addirittura le assunzioni di nuovo personale non risultino del tutto bloccate dai criteri introdotti nell’ordinamento italiano dal Decreto Milleproroghe in poi. E se le Amministrazioni Pubbliche sono deputate all’erogazione di servizi, sarà anche necessario che ci sia qualcuno che ‘materialmente’ quei servizi li dispensi. Come far fronte alla carenza di personale se non con la somministrazione? Ed ecco che si profila un circolo vizioso, difficile da spezzare a legislazione invariata (o per lo meno – e per ora – fino al 2017, quando il turnover dovrebbe essere ripristinato). Circolo vizioso perché un Ente costretto al risparmio, di fatto spende per il personale somministrato cifre improponibili in un momento storico come questo.

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Per essere più chiaro userò, a titolo esemplificativo, dei termini impropri, ma di sicuro più efficaci. Io, Amministrazione costretta a limitare le spese anche per il personale, mi ritrovo con quattro impiegati, ma per raggiungere gli obiettivi che la Direzione mi ha imposto, in ragione delle stesse leggi che mi sottopongono a tale regime di austerità, avrei bisogno di almeno dieci dipendenti, così ne affitto altri quattro pagandoli quasi il doppio di quanto pagherei per quattro impiegati neoassunti con una posizione economica di primo livello. Quindi mi ritrovo con otto persone, quando me ne servirebbero invece dieci, e spendo di più di quanto non farei con dieci unità direttamente assunte da me, ma non posso fare diversamente. Non posso perché da un lato c’è il blocco delle assunzioni e dall’altro il mancato raggiungimento degli obiettivi per quest’anno comporterà, per esempio, una minor afflusso di fondi dall’Amministrazione Centrale o dal Ministero nel corso dell’anno venturo.
La domanda è allora quali sono i costi che un’Amministrazione affronta per un lavoratore somministrato? Il costo del lavoro per un lavoratore somministrato deve essere calcolato considerando le seguenti voci derivanti dall’applicazione del CCNL, dal CCNL integrativo e dalla normativa che disciplina il medesimo contratto di somministrazione:
1. retribuzione oraria, tredicesima mensilità, ratei tredicesima, ex festività, permessi retribuiti, ferie, ratei trattamento fine rapporto, oneri assicurativi contributivi. Gli oneri contributivi sono calcolati sulla base del CCNL applicato all’agenzia per il lavoro;
2. trattamento economico accessorio, la produttività, il servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto e altre voci derivanti dall’applicazione di contratti decentrati integrativi;
3. oneri di costo aggiuntivi previsti dalla normativa che disciplina il contratto di somministrazione. Ad esempio, quelli previsti dall’articolo 12, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 276,
sono i cd. fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare in misura pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l’esercizio di attività di somministrazione e destinati ad interventi a favore dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato intesi, in particolare, a promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione anche in funzione di continuità di occasioni di impiego e a prevedere specifiche misure di carattere previdenziale (comma 1), e destinati, inoltre, (comma 2) a:
a) iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori;
b) iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto agli appalti illeciti;
c) iniziative per l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori svantaggiati anche in regime di accreditamento con le regioni;
d) per la promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale;
4. da ultimo, ma più rilevante di tutti, il ‘prezzo’ di un lavoratore somministrato è dato da possibili scostamenti del costo dovuti a rinnovi contrattuali.

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Limitatamente al punto 4), il valore dell’offerta alla medesima Agenzia dovrà essere aggiornato prevedendo nel contratto una clausola di revisione dei prezzi in ragione dell’aumento del costo del lavoro legato ad aumenti contrattuali. Al riguardo, l’articolo 115, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 prevede che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi”.
Alla luce di queste voci di costo, rivolgo a voi la domanda: è opportuno il ricorso alla somministrazione da parte di una P.A. sottoposta a spending review? Anzi, poiché è di soldi pubblici che parliamo, è opportuno il ricorso alla somministrazione, a prescindere dalla fase economica che stiamo attraversando?
È opportuno che la politica consenta questo? E non solo…

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Negli ultimi anni, infatti, la nostra classe dirigente ha introdotto nel mercato del lavoro (evidentemente anche in quello pubblico) la nozione di flessibilità. A parte i maggiori oneri sostenuti dalle Amministrazioni, è possibile ravvisare una convenienza nell’immissione di queste atipiche tipologie di lavoratori anche nel settore pubblico. E in caso affermativo, a chi conviene? La stessa domanda può essere posta da un altro punto di vista: chi seleziona il personale somministrato? Nel Paese del clientelismo è naturale che sorga il dubbio e, come recita un vecchio adagio, a pensar male si fa peccato, ma si sbaglia raramente. Già, perché oltre ai maggiori oneri a carico dell’Amministrazione utilizzatrice, il lavoro somministrato si caratterizza per un’altra preoccupante peculiarità: la totale elusione dell’art. 97 della Costituzione. La ratio della norma costituzionale, benché svuotata del suo contenuto dopo anni di clientelismo, è quella di dotare gli Uffici Pubblici del miglior personale possibile, appunto mediante selezione concorsuale. Di fatto, nei sessant’anni di vita della Costituzione, il clientelismo italiota ha reso il disposto dell’art. 97 operativo solo in alcuni casi in cui è poco probabile che tutti i vincitori siano parenti e amici di chi conta: sono quei maxi concorsi da 300, 400, 500 anche fino a 1000 posti, che ora come ora la Corte dei Conti non potrebbe più autorizzare, salve le eccezioni del personale militare,di polizia e di quello ispettivo in Ministeri ed Agenzie. Chi sceglie, quindi, il lavoratore somministrato? O meglio chi lo segnala? Potremmo argomentare analogicamente partendo dallo svolgimento dei concorsi in certi Enti Locali, in cui si concorre in 700 per un posto solo. Ma lascio a voi le debite conclusioni. Vero è che eccezioni ve ne sono, nei concorsi per un posto solo come anche nel lavoro somministrato. Non tutti hanno la fortuna di conoscere la gente giusta. E mi rifiuto di pensare che il malcostume sia divenuto la sola regola imperante. Capita, infatti, di essere somministrati inizialmente per la sostituzione di una lunga malattia o di una maternità e poi di rimanere a fare quel lavoro anche dopo, magari per una serie di circostanze fortuite, ad esempio perché, nel frattempo, chi sostituivi ha trovato di meglio. C’è poi anche chi è arrivato dall’agenzia senza alcun appoggio per svolgere mansioni talmente infime che nessun ‘amico degli amici’ avrebbe mai accettato. Oggi forse sarebbe diverso, ma fino a sei, sette anni fa, assolutamente no.

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Per esempio, nella mia vita lavorativa ho conosciuto un imbustatore inizialmente assunto a chiamata e poi somministrato: un ragazzo che per poche centinaia di euro imbustava lettere per sei ore ogni due o tre giorni, in un primo periodo, e poi anche tutti i giorni: piegato su una scrivania fantozziana da cui, tra altissime pile di buste, sbucava fuori la sua testa. Io, nel frattempo, ho cambiato lavoro, città e regione, ma so che lui è riuscito a mostrare di saper fare ‘qualcosa’ di più che incollare buste e la dirigenza del suo Ufficio lo ha ‘promosso’ a impiegato. Nel frattempo è stata acquistata un’imbustatrice meccanica e questo giovane senza sponsor si è via via reso indispensabile e prezioso per il suo Ufficio. Di eccezioni ce ne sono, quindi. Ma queste rappresentano la terza ‘croce’ del lavoro somministrato nella P.A.: le competenze che nel tempo vengono acquisite dai lavoratori che fine fanno? Un lavoratore non può essere somministrato a vita in un’Amministrazione Pubblica, pur cambiando agenzia, vi sono dei limiti che impone la Legge, in primis quelli previsti dal D.Lgs 165/2001 per il t.d., e se, nonostante le riserve previste dal decreto D’Alia, la P.A. non indice alcun concorso, l’Ufficio si dovrà privare di un valido elemento per cedere il posto a un altro inesperto somministrato?

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Quanto agli stessi lavoratori vi è, infine, da considerare un quarto ed ultimo problema. Queste persone lavorano con l’ansia perenne del contratto in scadenza, prorogato anche di soli tre mesi in tre mesi, senza alcuna prospettiva futura, senza la possibilità di acquistare neppure un monolocale, anzi nemmeno un TV a rate, perché nessuna finanziaria ne accetterà mai la richiesta. Queste persone, che da contratto osservano l’orario di 36 ore settimanali, di fatto ne fanno molte di più. Per conservare il proprio precarissimo posto farebbero di tutto, di questi tempi. E quel di più non è certo retribuito. Talora è svolto in remoto da casa: fogli Excel, lettere, documenti elaborati la sera tardi affinché siano fruibili e pronti per la firma del Capo Struttura domattina alle otto. Il tutto con la sudditanza psicologica del precario dinanzi al classico impiegato pubblico in attesa della pensione: magari quello entrato con la 285 e che si aggira nei corridoi col bicchierino da caffè in mano e si lamenta ogni giorno della Riforma Fornero che lo obbliga a stare ancora lì, che rivendica pretese sindacali ad ogni ordine superiore e che a sua volta ‘scarica’ le proprie responsabilità sul precario non incardinato.

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A questo punto rinnovo la domanda. Ma a chi conviene tenere ancora certi carichi sul libro paga? Che vantaggio c’è nell’impedire l’accesso nella P.A. a giovani ben più svegli preparati e bisognosi di lavorare. Non c’è spending che giustifichi i costi della somministrazione. Come ho dimostrato, il blocco del turnover è un paradosso contabile. Lasciamo quindi che chi pesa sul bilancio della P.A. senza apportare alcun contributo vada in pensione e lasciamo una volta per tutte la flessibilità fuori dagli Uffici Pubblici, che necessitano di continuità nell’erogazione dei servizi. E infine miglioriamo qualità ed efficienza. Come? Per esempio applicando l’art. 97 della Costituzione.

Michele De Sanctis

Un nuovo vento di riforma soffia sulla dirigenza pubblica

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Iniziano a trapelare la prime indiscrezioni sulla nuova riforma della dirigenza pubblica promossa dal Governo Renzi.

La riforma della dirigenza pubblica è un argomento che sovente trova ampio spazio nel dibattito nazionale, senza, però, essere affrontato in maniera decisa ed esaustiva. Si tratta di un problema specifico della ben più ampia e preoccupante scarsa efficienza della Pubblica Amministrazione, la cui gravità è continuamente stigmatizzata dall’Unione Europea. Infatti, sono continue le raccomandazioni di riformare il settore espresse da parte delle istituzioni comunitarie. È notizia di questi ultimi giorni il fatto che il Commissario UE Olli Rehn abbia evidenziato come l’inefficienza della Pubblica Amministrazione italiana concorra (insieme a molti altri fattori) a rendere il nostro Paese un “sorvegliato speciale”.

 La riforma in questione prevederebbe diverse novità in materia, tra le quali spiccano la mobilità (anche interamministrativa) dei dirigenti pubblici, l’istituzione di un albo unico per la dirigenza, la retribuzione di produttività vincolata all’effettiva capacità di ottimizzare la gestione finanziaria delle strutture dirette, nonché l’introduzione di pagelle dettagliate e capaci di premiare l’efficienza.

 Le disposizioni non dovrebbero essere contenute nel Jobs Act, in quanto dovrebbero avere una loro autonomia, per, poi, intersecarsi con quelle contenute nell’azione di Spending Review, già avviata dal Governo Monti, proseguita dal Governo Letta, e, tuttora, in corso con la redazione del “Dossier Cottarelli”. L’insieme di questi interventi ridefinirà la figura del dirigente pubblico italiano. In altri termini, siamo di fronte ad una mini-riforma che interesserebbe soltanto questo specifico aspetto della Pubblico Impiego. In estrema sintesi, è ipotizzabile la redazione di uno specifico disegno di legge di iniziativa governativa da emanarsi entro il prossimo mese di aprile 2014.

A livello di strategia, si sta pensando all’avvio contestuale, sia di un piano di riordino dei vertici dell’alta burocrazia statale, sia di di una generale riorganizzazione della Pubblica Amministrazione. Tali tempistica e modalità appaiono credibili, in quanto il citato “Dossier Cottarelli” sulla revisione della spesa pubblica dovrebbe essere pronto per metà del mese di marzo 2014.

 Le prime avvisaglie di questa importante rotazione degli incarichi sono già state avvistate con le nuove nomine successive all’insediamento del Governo Renzi. Dopo la nomina dei Responsabili dei Gabinetti e degli Uffici Legislativi, ora si sta avviando all’individuazione dei Capi Dipartimento dei vari Ministeri.

Questo processo trova una forte spinta propulsiva nella Spending Review, la quale qualifica la riforma, seppure parziale, del Pubblico Impiego, come uno dei suoi pilastri fondanti. A tal proposito, il commissario straordinario alla Spending Review, Carlo Cottarelli, ha già inviato il suo citato “Dossier” al Governo e che sarà esaminato dettagliatamente da un apposito Comitato Interministeriale.

Il nuovo assetto della dirigenza pubblica si connoterà per una forte mobilità negli incarichi. Quest’ultimo aspetto dovrebbe essere garantito da un nuovo Albo unico, il quale dovrebbe racchiudere le due attuali fasce dirigenziali. La mobilità, anche interamministrativa opererebbe dopo cinque anni di permanenza presso la medesima Amministrazione Pubblica. Non è esclusa neanche la creazione di un Albo unico per i dirigenti esterni a chiamata.

Merita una particolare attenzione, la volontà del Governo di revisionare e di rendere più fluidi gli attuali strumenti di valutazione dell’attività svolta dai dirigenti pubblici. Si tratta di strumenti finora scarsamente utilizzati. Invece, l’intento riformatore vorrebbe incentivarne l’utilizzo, attraverso l’introduzione di  una “pagella” del dirigente pubblico, basata su analitici indicatori, il cui contenuto dovrebbe essere reso pubblico con il massimo della trasparenza possibile.

Inoltre, si segnala la precisa indicazione di collegare direttamente la retribuzione di risultato dei dirigenti pubblici alla loro capacità di ridurre la spesa. Anzi, sarà proprio la valutazione dei risultati raggiunti, intesi soprattutto in termini di capacità di gestione finanziaria così come delineato dalla nuova Spending Review, a determinare l’assegnazione della quota di retribuzione dirigenziale collegata al raggiungimento del risultato.

Germano De Sanctis

Germania, proporzionale per elezioni Ue: l’estrema destra può entrare a Strasburgo

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Di Tonino Bucci – Redazione Il Fatto Quotidiano

La Germania andrà a votare alle elezioni per il parlamento europeo con il proporzionale puro. I giudici della Corte costituzionale tedesca hanno stabilito con una sentenza di mercoledì scorso che la soglia di sbarramento del tre per cento è incostituzionale. Con la stessa motivazione, nel 2011, gli alti togati di Karlsruhe avevano abbassato dal cinque al tre per cento l’asticella per entrare nel Parlamento dell’Ue. Il meccanismo – recita in sintesi la sentenza – viola il principio “una testa, un voto” e introduce un discrimine tra gli elettori dei partiti grandi e quelli delle formazioni minori escluse dalla rappresentanza. I partiti maggioritari godrebbero di una facile rendita di posizione, in virtù del classico argomento del “voto utile”. Semplice, ma fino a un certo punto, perché gli stessi giudici di Karlsruhe finora hanno sempre difeso la soglia del cinque per cento, prevista invece dal sistema elettorale tedesco per il Bundestag e per i Landtag regionali. Due pesi, due misure, a seconda che si tratti dell’Europa o del parlamento tedesco.

Non sarebbe più logico e giusto che una democrazia matura funzioni senza imporre limiti all’esercizio del voto? In passato la Corte costituzionale di Karlsruhe si è pronunciata a favore del mantenimento della soglia del cinque per cento. L’opinione pubblica ha sempre avuto paura del proporzionale puro, ritenuto una delle cause storiche della frammentazione della Repubblica di Weimar e dell’ascesa al potere del nazismo. Il sistema elettorale attuale prevede infatti dei correttivi: una soglia di sbarramento al cinque per cento e una combinazione tra i due criteri, il proporzionale e il maggioritario. Gli elettori tedeschi ricevono due schede. Con la prima scelgono uno dei candidati in lizza nel proprio collegio e concorrono all’assegnazione di una metà dei seggi nel Bundestag. L’altra metà è ripartita in proporzione ai voti che i partiti prendono sulla seconda scheda.

Fino a oggi, sostengono i fautori dello sbarramento, questo sistema ha tenuto lontano gli incubi del passato e impedito l’ingresso di partiti estremisti nel Bundestag. La pensano così i due partiti principali, la Cdu di Angela Merkel e la Spd, alleati nel governo di grande coalizione. La Cancelliera e i socialdemocratici hanno accettato a malincuore l’abolizione della norma del tre per cento che fu votata da quasi tutti i partiti presenti nel Bundestag nella scorsa legislatura. Con la sola eccezione della Linke, la formazione della sinistra radicale tedesca, unica a gioire per la sentenza. “Ognuno ­- ha commentato il capogruppo parlamentare Gregor Gysi -­ potrà mettere una croce sulla scheda senza paura che il suo voto vada perso”.

Al ricorso hanno partecipato molte formazioni minori che sono fuori dal Bundestag. Alcune sono però rilevanti a livello regionale, come i Freie Wähler (Liberi Elettori), un partito populista che alle ultime elezioni in Baviera ha raccolto il 9% e che senza sbarramento potrebbe entrare nel parlamento europeo. Potrebbero rientrare in gioco anche i Pirati, che dopo una serie di affermazioni clamorose in alcuni Länder negli anni passati, a settembre dello scorso anno hanno fallito miseramente l’ingresso nel Bundestag. A scendere verso percentuali che si aggirano intorno all’uno per cento, sondaggi alla mano, ­ci sono gli animalisti, il Partito dei pensionati, il Partito della famiglia e le femministe del Partito della Donna. Qualcuno, con un po’ di fortuna, potrebbe guadagnarsi un seggio. Come metterla, però, con i partiti dell’estrema destra? La Npd, la principale forza della galassia neonazista, fino a oggi mai entrata nel Bundestag, potrebbe sedere nel futuro parlamento europeo in compagnia di altre formazioni sorelle come Alba Dorata.

Un argomento, anzi uno scenario, che inquieta non poco. Se si prendono i risultati delle europee del 2009, a Strasburgo oggi ­ senza la soglia del tre per cento ­ siederebbe anche Uschi Winkelsett, la candidata dei Republikaner, un’altra formazione populista di destra che vorrebbe diminuire la quota versata dalla Germania nelle casse dell’Unione Europea. Roba da Trattato di Versailles. Per chi evoca lo spettro di Weimar la soglia di sbarramento al Bundestag non si può toccare. Ma i costi per la democrazia tedesca cominciano a essere troppo alti. Alle elezioni per il Bundestag dello scorso settembre 6,9 milioni di voti sono stati cancellati, ben il 15,7 per cento degli elettori. Sono rimasti fuori i liberali della Fdp e l’Alternativa per la Germania (AfD), la formazione anti­euro nata di recente, entrambe poco al di sotto del cinque per cento. Senza di loro Angela Merkel è stata costretta a fare la grande coalizione con i socialdemocratici. I tempi, insomma, sono maturi per rivedere il sistema elettorale. Da noi, invece, Renzi ha imboccato la strada contraria. Oggi l’Italicum torna in discussione in aula. Compresa la norma sullo sbarramento dell’8 per cento per i partiti che corrono da soli. Al confronto, il sistema tedesco è uno scherzo.

Fonte: il Fatto Quotidiano

Presentate oggi le candidature per la Lista Tsipras

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Presentata oggi la Lista Tsipras per le Europee. Non senza polemiche dell’ultima ora, la sinistra alternativa ha reso pubblici poche ore fa i nomi dei candidati, collegio per collegio, alle prossime consultazioni del 25 maggio. A poche ore dall’annuncio delle candidature la Lista si è però spaccata sul nome di Luca Casarini, leader dei Disobbedienti e volto che potrebbe raccogliere i voti dei movimenti sociali e della sinistra cosiddetta radicale – sebbene nei social network una parte di questo mondo abbia già ripudiato la candidatura dell’ex no-global per Tsipras. La candidatura di Casarini era stata messa in discussione per via delle diverse inchieste giudiziarie che lo vedono protagonista, ma tutte per reati sociali, cioè relativi all’attività politica. Il suo nome è stato confermato nel collegio centro, ma apprendiamo da Il Fatto Quotidiano che ‘Il caso ha tenuto occupati i sei garanti della Lista per tutta la sera dello scorso 2 marzo fino a produrre una spaccatura: Camilleri, Flores D’Arcias e Gallino contrari alla candidatura mentre Spinelli, Revelli e Viale si sono dichiarati favorevoli’.

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Come rivela Gad Lerner, la polemica su Casarini precede quelle create dal conseguente ritiro dello scrittore Camilleri, inizialmente dato come uno dei capilista. Tuttavia, dalle pagine web di MicroMega arriva netta la smentita: la candidatura di Camilleri non c’è mai stata. Evidentemente. Ma forse, trattandosi di uno dei garanti, qualcuno se l’era aspettata e l’avrebbe gradita. Forse. A ciò si aggiunga la questione Sonia Alfano. Secondo la ricostruzione de Il Fatto Quotidiano, il nome di Sonia Alfano, europarlamentare eletta con l’Italia dei Valori nel 2009 e molto apprezzata a sinistra, ha creato problemi non indifferenti tra i garanti della Lista in ragione dei suoi incarichi di parlamentare, consigliere regionale e parlamentare europeo a partire dal 2004. A differenza di Casarini, Sonia Alfano è perciò rimasta fuori.

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Nella liste, spiccano i nomi dell’editorialista Barbara Spinelli, della capolista al centro Lorella Zanardo, autrice del documentario ‘Il corpo delle donne’, lo scrittore e giornalista Ermanno Rea, il giornalista di Repubblica Curzio Maltese, Adriano Prosperi, Ermanno Rea, la scrittrice Valeria Parrella, Maria Elena Ledda, Giuliana Sgrena, la No Tav Nicoletta Dosio e dirigenti di partito come Fabio Amato ed Eleonora Forenza (Prc), Teresa Masciopinto, responsabile Culturale Area Sud di Banca Popolare Etica, Enzo Di Salvatore, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Teramo e l’economista Antonio Maria Perna.

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Da ultimo, si osserva quanto riportato da Repubblica nelle ultime ore, che rivela una notizia che con buona dose di probabilità porterà su queste candidature altre polemiche, poiché una parte dei candidati sarebbero stati inseriti nelle liste solo per trainare voti, ma qualora dovessero essere eletti si dimetteranno per lasciare il passo a quelli che sono i ‘veri’ candidati della lista L’Altra Europa con Tsipras.

Michele De Sanctis