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L’IMMOBILISMO DEL MERCATO DEL LAVORO A TUTELE CRESCENTI.

di Michele De Sanctis

In psicologia del lavoro, con l’espressione job hopping ci si riferisce letteralmente alla pratica di saltare da un lavoro all’altro. Non si tratta, invero, di un comportamento negativo, ma, anzi, negli ultimi tempi, fin dai primi anni dell’università, addirittura dagli ultimi anni del liceo, a noi giovani questa pratica è stata inculcata come se fosse l’aspetto più innovativo del futuro professionale a cui stavamo per affacciarci. Il cambiamento è sempre un fattore positivo, in primis per la propria crescita professionale e nel contempo rappresenta un buon modo per mantenere alta la passione verso il proprio lavoro. I cambiamenti, infatti, aiutano ad imparare ad essere pronti a nuove sfide e nuovi scenari. Questo è quello che ci è stato detto. Ci è stato detto che per essere competitivi, dovevamo essere più flessibili dei nostri genitori. E lo siamo stati. In alcun modo un curriculum magro sarebbe stato valutato positivamente durante il processo di recruitment di un’azienda.

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Sui nostri manuali di organizzazione del lavoro abbiamo scoperto che le persone che cambiano spesso lavoro garantiscono ottime performance, fino ad ottenere una posizione lavorativa migliore anche rispetto a coloro che da anni lavorano in uno stesso ambiente. Anzi, con l’avvento della crisi, ci hanno detto che le aziende non fossero affatto restie a questo tipo di lavoratori, dal momento che la prospettiva di una persona che puntava al posto fisso non affascinava per nulla le società che in questi anni hanno selezionato piuttosto personale efficace e competente, ma anche predisposto al cambiamento. Così ci hanno detto. Il rifiuto di adattarsi a quest’elasticità lavorativa era un po’ come dichiarare di essere choosy, o mammoni. O tutt’e due le cose. Ora che Babbo Natale ci ha portato il primi due decreti attuativi del Jobs Act, il Governo italiano ha assicurato che con questa rivoluzione copernicana del mercato del lavoro si avrà più dinamismo, più agilità…ancora più flessibilità. E ciò aiuterà l’innovazione delle aziende italiane, che, quindi, potranno finalmente essere competitive. Per cui d’ora in avanti prepariamoci ad essere dinamici, perché il posto fisso non esiste più. Io, però, ho qualche dubbio. Non sul fatto che il posto fisso non esista più, né sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, quanto piuttosto sul suo dinamismo. Temo, infatti, un effetto di stagnazione riflessa del mercato dovuta proprio all’introduzione del contratto a tutele crescenti, soprattutto in quei settori, terziario in testa, dove la forza lavoro risulta altamente fungibile, quindi sostituibile.

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Se, infatti, con la nuova disciplina la sigla di un nuovo contratto comporterà la perdita delle garanzie acquisite con il vecchio, perché il nuovo è a tutele crescenti, cambiare lavoro d’ora in avanti sarà un po’ come ricominciare davvero da zero, sarà come accettare delle tutele decrescenti. Altro che crescita professionale: a chi converrà correre un rischio così alto, se non davvero costretto? Accettare nuove sfide, cambiare lavoro alla ricerca di nuovi stimoli, insomma tutti quei concetti di psicologia del lavoro finora appresi, comporteranno il rischio serio, attuale e concreto di diventare più licenziabili. Perché mentre chi lascia ricomincia daccapo, chi resterà dov’è adesso conserverà, invece, i suoi diritti. Diritti crescenti.

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Il rovescio della medaglia del contratto di lavoro a tutele crescenti sarà quindi quello di disincentivare gli italiani a cambiare lavoro. E questo non è un fattore positivo, né per il lavoratore né per le aziende. I manuali di organizzazione del lavoro che ci sono stati somministrati, infatti, non raccontavano favole. Ogni qualvolta che un dipendente cambia azienda, si innesca effettivamente quella pratica virtuosa che chiamiamo job hopping: chi cambia apprende nuove informazioni o aggiorna le pregresse e trasmette nel contempo ad altri il suo know how. Si ha, così, una crescita professionale concreta e un investimento innegabile in economia della conoscenza, senza cui non possono esserci innovazione e competitività. Inoltre, chi cambia lascia libero un posto di lavoro che occuperà magari un ex collega, il quale, avanzando nelle sue mansioni, apprenderà nuove informazioni, e che, a sua volta, lascerà disponibile la propria posizione, in cui, verosimilmente, subentrerà una persona, in genere più giovane, che apporterà in azienda ulteriore refresh complessivo e conseguente tramissione reciproca di competenze e nuova conoscenza. Insomma, l’eventuale paralisi del mercato del lavoro in seguito alla riforma appena varata potrebbe comportare la concreta interruzione di questo circolo virtuoso, già peraltro gravemente compromesso dalla crisi economica.

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Ora, siccome non si vive di solo stipendio, ma è lo stipendio a darci da mangiare – comunque sia – il lavoratore sarà costretto ad accantonare le proprie ambizioni e a difendere prioritariamente i propri diritti acquisiti, rinunciando pertanto alla mobilità e rassegnandosi, anzi, aggrappandosi alla sua scrivania, sotto cui converrà piuttosto fare le radici. Sarà, infatti, altamente difficile prendere certe decisioni, anche nel caso in cui il posto migliore venisse addirittura offerto dall’azienda concorrente a quella presso cui si è assunti e dove oggi si è lavoratori di serie A, rispetto ai neoassunti di serie B. Certo, è probabile che l’analisi di questo post sia parziale e forse troppo negativa e che magari non consideri tutti gli aspetti che sicuramente il Legislatore avrà valutato prima di introdurre le nuove regole: l’analisi di fattibilità delle leggi, in fondo, serve anche a questo. Ma quanti di voi oggi sarebbero disposti a fare un salto nel buio a queste condizioni?

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CONTRIBUTO FINO A 600 EURO ALLE LAVORATRICI MADRI. MODALITÀ, TERMINI E SCADENZE.

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Pubblicate in Gazzetta Ufficiale n. 287 dello scorso 11 dicembre 2014 le misure a sostegno delle mamme lavoratrici, di cui al DM 28 ottobre 2014, per l’erogazione del fondo perduto fino a € 3.600 per l’acquisto di servizi di baby sitting.

Al termine del periodo di congedo per maternità e, comunque, entro gli 11 mesi successivi, le madri lavoratrici, sia del settore pubblico sia del settore privato, nonché quelle che risultino iscritte alla gestione separata, di cui all’art. 2, L. n.335/95, potranno fare richiesta di accesso al contributo a fondo perduto per l’acquisto di servizi di baby sitting oppure per usufruire di servizi per l’infanzia presso strutture pubbliche e private. L’intervento, introdotto con la legge 28 giugno 2012, n. 92 di riforma del mercato del lavoro, stabilisce che a beneficiare del contributo saranno anche le donne libere professioniste. Il beneficio in parola, tuttavia, non è esteso alle coltivatrici dirette, mezzadre e colone, alle artigiane, alle imprenditrici del settore commerciale, alle imprenditrici agricole a titolo principale e alle pescatrici autonome.

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La misura è dotata di risorse complessive per € 20.000.000. Il contributo per ogni singola lavoratrice viene erogato sottoforma di voucher del valore massimo di 600 euro mensili per 6 mesi (con un importo totale di € 3.600) ed è spendibile nei 6 mesi successivi al termine del congedo per maternità.

La richiesta – che deve essere inoltrata per via telematica all’INPS entro il 31 dicembre di ciascun anno 2014 e 2015 – può essere presentata anche dalla lavoratrice che abbia usufruito in parte del congedo parentale.
La graduatoria è definita tenendo conto dell’ISEE.

I voucher, per l’importo riconosciuto, saranno ritirati dalla lavoratrice presso la Sede INPS territorialmente competente individuata in base alla residenza o al domicilio temporaneo.

DM 28 ottobre 2014

MDS
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A.A.A. APPARTAMENTO DOTATO DI OGNI COMFORT AFFITTASI A PROSTITUTA REFERENZIATA.

Quella che vi propongo oggi è la vicenda giudiziaria di un imprenditore immobiliare abruzzese, alla cui attività di agente aveva affiancato quella di imprenditore del sesso. Secondo voi è pericoloso dare un immobile in locazione ad una squillo? Non è che rischiamo di finire in carcere, come l’imputato di questo processo, solo per aver affittato ad una di loro? Scopriamolo insieme.

di Michele De Sanctis

Colpevole di favoreggiamento della prostituzione: è questo il verdetto definitivo riconosciuto a carico di un agente immobiliare abruzzese, condannato in appello alla pena di 4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici, oltreché a diecimila euro di multa, in base all’art 3 comma 8 della L. n. 75/58 (c.d. Legge Merlin). Con Sent. n. 47387 dello scorso 18 novembre, la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha, infatti, confermato la condanna subita dall’imprenditore in secondo grado, facendo, dunque, scattare l’ordine di carcerazione e, nel contempo, l’esecuzione di precedenti condanne per altri reati, per un totale di 7 anni e 8 mesi di reclusione.

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A ricorrere al Giudizio di Legittimità era stato lo stesso agente immobiliare, indagato nel 2010 nel corso di un’operazione denominata ‘Non solo affitti 3’, dopo che in secondo grado si era visto confermare la condanna inflittagli dal Tribunale di Teramo nel dicembre del 2011 per favoreggiamento. Secondo l’accusa, a provare la sua colpevolezza era stata la stessa attività di agente immobiliare, attraverso cui l’uomo gestiva i contratti di locazione degli appartamenti in cui circa quaranta prostitute esercitavano abitualmente il loro mestiere, unitamente al fatto che questi si era reso disponibile ad assistere tali donne nelle loro varie necessità. L’uomo, peraltro, fin dal primo grado era stato assolto dall’accusa di sfruttamento della prostituzione perché il fatto non sussisteva, al pari dell’altro imputato, il proprietario di alcuni degli immobili, assolto sia dall’accusa di sfruttamento che di favoreggiamento. Ma per l’imprenditore restava in piedi il secondo dei due capi d’imputazione.

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Questi erano i fatti. Ora, però, analizziamo la sentenza della Cassazione e se avete un’inquilina poco raccomandabile di cui non sapete molto, tranquilli: il semplice ‘affitto’ ad una prostituta non è condotta sufficiente a provare la vostra colpevolezza (quanto meno mancherebbe l’elemento soggettivo). Sia che voi siate proprietari sia che svolgiate attività di mediazione immobiliare. Come noto, nel nostro Paese la prostituzione non è un reato, mentre lo è se ci si approfitta dell’altrui attività di meretricio, cioè se la si sfrutta, oppure semplicemente quando la si favorisce. È questa, infatti, la condotta contestata all’agente immobiliare, ma non per aver gestito i contratti di locazione di un gruppo di prostitute. La mera stipula del contratto, del resto, come in passato già precisato dagli Ermellini, di per sé “non integra la fattispecie criminosa, in quanto l’atto negoziale, in assenza di altre prestazioni accessorie, riguarda la persona e le sue esigenze abitative, e non costituisce diretto ausilio all’attività di prostituzione” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338 del 04/02/2014). Anzi, il proprietario di un immobile locato ad una squillo non commette reato di favoreggiamento della prostituzione, neppure se consapevole dell’uso che la donna ne faccia, trattandosi, in questo caso, tutt’al più di tolleranza, punita dal comma 2 dell’art. 3 della L. 75/1958. Ma non è colpevole di favoreggiamento, purché – badate bene- il canone di locazione sia onesto, vale a dire in linea con i prezzi di mercato, dal momento che “la stipulazione del contratto non rappresenta un effettivo ausilio per il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 28754 del 20/03/2013). Pertanto, affinché il locatore (o l’agente immobiliare) possa essere ritenuto colpevole del delitto di favoreggiamento è necessario che questi fornisca qualcosa in più rispetto al semplice godimento del bene immobile, diciamo pure una sorta di extra che la Corte indica in “prestazioni accessorie che esulino dalla stipulazione del contratto ed in concreto agevolino il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 33160 del 19/02/2013). L’extra offerto dal locatore può essere di varia natura: si va da attività decisamente partecipative all’esercizio dell’attività di meretricio (inserzioni pubblicitarie, fornitura di preservativi, ricezione dei clienti: Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338/2014) fino a collaborazioni meno ‘fattive’, ma, non per questo, meno censurabili dal punto di vista penale.
Nel caso di specie, ad esempio, l’agente immobiliare abruzzese, consapevole che le inquiline avrebbero utilizzato quegli appartamenti per prostituirsi, non solo aveva locato tali immobili a un prezzo superiore a quello di mercato, ma si era, peraltro, attivato per favorire il più possibile quella loro particolare attività professionale, predisponendo a tal proposito “un allestimento specifico degli appartamenti diretto a ottimizzare il loro utilizzo per la prostituzione, collocandosi letti matrimoniali anche nelle cucine” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014). L’uomo, poi, si era altresì reso disponibile ad assistere le donne in molte altre necessità quotidiane: accompagnandole, per esempio, a fare la spesa o in banca o scortandole fino a casa di qualche conoscente.

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La Cassazione non ha, dunque, ravvisato vizi di legittimità nella pronuncia del Giudice d’Appello, secondo cui l’imputato, lungi dall’essersi limitato alla mera locazione delle abitazioni in gestione a un gruppo di squillo, era, piuttosto, “colui che tirava i fili di tutta una organizzazione che favoriva l’attività delle prostitute sue inquiline” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014), così commettendo il reato contestatogli che testualmente punisce “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui” (art. 3 comma 8 della L. 75/1958). In qualsiasi modo, anche con una locazione particolare. L’uomo, originario di un comune della costa abruzzese tra le province di Teramo e Pescara, è attualmente detenuto presso la Casa Circondariale teramana di Castrogno, dopo l’ordine di carcerazione portato ad esecuzione lo scorso 26 novembre.

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IDENTITÀ DI GENERE E RISPETTO DELLA PERSONA: ECCO I GIOCATTOLI UNISEX.

Questa notizia è una di quelle che normalmente passano in sordina sulle nostre bacheche Facebook. Noi italiani spesso guardiamo all’estero per rilevare ciò che non va a casa nostra. Ma quando lo facciamo stiamo ben attenti a selezionare ciò che vogliamo vedere. Così, critichiamo il nostro servizio postale, gli sportelli pubblici davanti a cui ci mettiamo in coda, fino all’incuria delle città in cui abitiamo e alla cattiva manutenzione delle strade su cui camminiamo o viaggiamo in macchina. Ma quasi mai ci rendiamo conto di quali e quanti passi avanti nel campo dei diritti civili si sono fatti altrove. Da noi, per esempio, si discute ancora su civil partnership alla tedesca, sì o no. Si pensa ancora che per avere un diritto non ci sia bisogno di riconoscerlo. Si nega il concetto di identità di genere, ritenendo che la percezione del sé non possa discostarsi da ciò che si è fuori: come dire che la terra sia piatta perché non se ne percepisce la rotondità. E via con le battute da bar dello sport, bullismo, sorrisetti e sfottò. Come se il bersaglio non fosse un essere umano e non avesse una sensibilità.

di Andrea Serpieri

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Nel nord Europa, quindi non a Sodoma e Gomorra, da qualche anno accade qualcosa di straordinario. Quando ero piccolo, all’asilo e a casa venivo richiamato se anziché giocare a pallone con gli altri maschietti, passavo troppo tempo con le femminucce, se anziché giocare alla guerra con i soldatini, guardavo la Dolcissima Creamy su Italia 1 o se giocavo con He-Man insieme alla mia vicina di casa che portava la sua Barbie Rockstar. E non vi dico che storie se lasciavo He-Man da solo con Skeletor per giocare con le cuginette e le loro bambole, sia pure per fare la parte di Ken. In realtà, io volevo solo giocare, non avevo alcun secondo fine e nella maggior parte dei casi non capivo il motivo del richiamo o della punizione. Ebbene, in Svezia e Danimarca, ormai da tempo, i bambini vengono lasciati liberi di giocare con quello che vogliono. Badate bene che nessuno istiga i maschi a giocare con Barbie e le femmine col Meccano. Per questa ragione, esistono perfino alcune catene di negozi di giocattoli che propongono cataloghi di giochi unisex, in cui i pregiudizi di genere vengono decostruiti, mostrando bambini e bambine giocare indiscriminatamente anche con giocattoli pensati per il sesso opposto.

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In Italia cataloghi di questo tipo non solo solleverebbero un mare di polemiche, ma farebbero indignare molti genitori, indecisi e probabilmente contrari all’idea di regalare una mitragliatrice giocattolo alla loro bambina, o un Cicciobello al figlio maschio. Tuttavia, visti i recenti fatti di cronaca con figli picchiati a sangue e costretti a fughe rocambolesche, in quanto vergogna della famiglia, forse sarebbe appena il caso di cominciare a mostrare alle future generazioni che non c’è niente di male ad allontanarsi da certi stereotipi. Gli uomini non sono solo quelli che non devono chiedere mai, quei rozzi scimpanzé machissimi e pieni di peli, dalla scorza dura e dal volto rude che il più delle volte hanno pure da puzzà, che guardano la partita di calcio in mutande e canottiera bevendo birra e ruttando liberamente come Fantozzi. E le donne non sono solo angeli del focolare, mini casalinghe destinate comunque ai fornelli. I giochi tradizionali che vediamo sugli scaffali dei nostri negozi sono ancora molto legati agli schemi sociali del passato: per quanto la Mattel con Barbie I can be faccia credere alle bambine che da grandi si possa diventare quel che si vuole, continua ancora a proporre il classico modello Fiori d’Arancio. E comunque esiste anche una I can be casalinga.

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Nei cataloghi di giocattoli svedesi e danesi, invece, è possibile vedere bambine che si divertono con una grande pistola giocattolo e bambini che giocano con una bambola. Se non mi credete, provate a cercare on line il catalogo dell’azienda svedese Toy Top, che distribuisce sia in Svezia che Danimarca per Toys R Us e BR: basta andare su Google, scrivere Toy Top catalogs e fare la ricerca per immagini, alcune delle quali sono anche qui in questo mio post. Ovviamente, neppure nella modernissima Svezia sono mancati accenni di polemica. Un paio d’anni fa circa, per esempio, l’azienda svedese Leklust propose un catalogo unisex dove un bambino travestito da Spiderman spingeva una carrozzina. Alle critiche ricevute il direttore della compagnia, Kaj Wiberg, replicò spiegando che arrivato alla veneranda età di 71 anni, era ormai perfettamente consapevole che, non solo le bimbe, ma anche i bambini giocassero con le bambole: allora, perché non aiutarli a non sentirsi diversi?

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Voi, che siete italiani, vi starete forse domandando come uno Stato possa permettere una simile corruzione di minori. Ebbene, lo Stato ne è addirittura promotore. In Svezia, per esempio, la questione della parità dei sessi si è evoluta contemporaneamente alla progressiva rivoluzione del concetto stesso di identità di genere. Nel 2008 il Governo svedese è arrivato a stanziare ben 110 milioni di corone per promuovere la parità di genere nelle scuole e per invitare gli insegnanti ad attivarsi fattivamente per combattere gli stereotipi di genere. Da noi, invece, nel 2014 gli insegnanti picchiano i loro allievi più gay. Sempre nello stesso anno fu anche proposto di eliminare il “lei” e il “lui” e di introdurre un nuovo pronome neutro. Adesso, l’italiota medio mi dirà, beh non è che dobbiamo copiare per forza gli orrori degli stranieri! Vero! Però sul fronte dei diritti civili c’è chi si ispira alla Russia di Putin, che, per quanto compagno di bunga bunga dell’ex premier, è pur sempre straniero. Ma allora avevo ragione quando dicevo che noi italiani guardiamo solo ciò che vogliamo guardare? Quand’è così, che aspettate? Chiudete questo ridicolo post e voltatevi pure dall’altra parte. Ma sì, avete ragione: continuiamo a far finta di niente. Ripetiamo insieme la storia dell’ape che impollina il fiore, che ai maschietti da grandi viene il vocione e cresce la barba, mentre alle bambine, dopo essersi sposate, succede di rimanere impollinate e ricordiamoci sempre che se non è così si è affetti da una malattia del cervello che, per fortuna, si può curare. Magari col Prozac e la preghiera di una sentinella in piedi.

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RC AUTO: STANGATA IN ARRIVO E RIFORME SUL TAVOLO DEL GOVERNO. COME CORRERE AI RIPARI!

Stando alle curve dei grafici, negli ultimi tre anni il premio per l’assicurazione RC Auto è sceso. Noi, forse, non ce ne siamo accorti, ma, mentre tra il 2004 e il 2010, questa tipologia di polizze, anno dopo anno, ha fatto registrare costanti e continui aumenti, dal 2011 non ci sono stati ulteriori rincari. È stato, infatti, il 2010 l’anno in cui i prezzi hanno raggiunto il loro picco massimo. Tuttavia, con il 2015 potrebbe arrivare una nuova stangata: a dichiararlo sono state le principali associazioni nazionali dei consumatori, che, proprio in previsione di questa probabile inversione di tendenza, hanno dato l’allarme.

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di Michele De Sanctis

La fonte che anticipa questa novità è Segugio.it, su cui troviamo i dati rilevati da Adusbef e Federconsumatori con riferimento al periodo 2004-2013. I dati mostrano, appunto, come in quest’arco temporale i costi medi delle RC Auto siano più che raddoppiati, da 391 euro nel 2004 a quasi 1250 nel 2013 (un aumento di circa 859 euro, pari al 235%). Il trend ascendente ha, tuttavia, subìto un’inversione dopo il picco del 2010. Inversione dovuta anche al ridotto utilizzo che gli italiani, a causa della crisi, hanno iniziato a fare di auto e moto per spostarsi, con conseguente calo degli incidenti e relativa discesa dei premi. E se nel 2010 abbiamo raggiunto il punto massimo finora registrato dalla curva dei costi, nel 2014 questa discesa ha toccato il punto più basso mai rilevato negli ultimi dieci anni. Ma, proprio per questo, nel 2015 tale curva è destinata a riprendere la sua salita.

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Per noi automobilisti può, allora, risultare utile verificare se è il caso o meno cambiare assicurazione. L’obiettivo non è solo il risparmio, ma anche quello di assicurarsi un livello più basso di polizza. Comunicare di voler cambiare assicurazione, in effetti, non vuol dire solo pagare meno con una nuova compagnia, ma anche riuscire a negoziare condizioni migliori col vecchio assicuratore. Per esempio, concordando delle modifiche contrattuali, si può raggiungere un massimale RC più elevato: cioè, in caso di incidenti gravi si è più tutelati. La rinegoziazione dei termini contrattuali non è ipotesi peregrina: in questo momento, infatti, le compagnie potrebbero essere disposte a concedere qualcosa in più per non perdere il vecchio cliente o per conquistarne uno nuovo. Certo, dipende sempre dal cliente…per intenderci, quel tipo di persona, che non scambia la RCA per una sorta di ammortizzatore sociale, simulando incidenti e cambiando assicuratore subito dopo essersi fatto conoscere. Un altro esempio di condizioni vantaggiose a costo zero è quella di una rivalsa più permissiva. Da qualche tempo, i tanti comparatori sul mercato (segugio.it; facile.it; cercassicurazioni.it; mybestoption.it, ad esempio) danno molta enfasi a questo tipo di aspetti. Oppure potreste ottenere qualche vantaggio con la cosiddetta formula di guida. Le formule di guida sono tre: esperta, guida a conducenti indentificati e libera. Di norma, più selettiva è la formula di guida adottata e meno si paga. Facciamo un esempio pratico per capire meglio: se sono solo io a guidare la mia macchina, ho una riduzione del premio assicurativo, ma non posso farla guidare a nessun altro.

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Un’ulteriore opportunità di risparmio arriva dal settore bancario. Gli istituti di credito si stanno spostando sempre di più sul ramo danni e dunque anche sui prodotti relativi alla RC Auto. Alcuni istituti, ad esempio, offrono polizze scontate sulla base dei chilometri percorsi. Va detto, però, che questo tipo di condizioni ormai sono praticate anche dalle altre compagnie assicurative e che, nel caso delle banche, la contropartita spesso consiste nella sottoscrizione di prodotti della banca stessa o di titoli azionari. Valutate, quindi, caso per caso se questo tipo di scelta vi convenga davvero o no.

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Sul versante normativo, nei prossimi mesi per tutti gli automobilisti e motociclisti sarà utile seguire l’attività del Governo, visto che sul tavolo del Consiglio dei Ministri è tornata la riforma del settore RC Auto, cui aveva già messo mano l’esecutivo di Enrico Letta. Ricorderete senz’altro le numerose polemiche che sul punto c’erano state tra dicembre 2013 e l’inizio dell’anno. Ebbene, seppur inizialmente stralciata dal decreto Destinazione Italia, con rinvio senza data a separata disciplina, la riforma del mercato assicurativo ora potrebbe tornare nelle vesti di decreto o all’interno del disegno di legge sulla concorrenza. Stando ai primi rumors diffusi dalla stampa, la riforma dovrebbe eliminare i tanti obblighi vigenti, a partire da quello dell’ispezione preventiva, anche se il cliente potrà comunque sottoporvi il proprio veicolo, in cambio, però, di riduzioni e sconti predeterminati sul premio. Quanto all’installazione delle cosiddette black box, le imprese potranno offrirla a carico proprio, stante, anche in questo caso, l’obbligo di ridurre il premio in misura minima prefissata e di accettare i risultati delle registrazioni come prova in giudizio. Le scatole nere potranno essere proposte anche per le moto.

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In caso di sinistro, le assicurazioni potranno avvalersi del risarcimento in forma specifica per i danni ai veicoli entro 60 giorni. In altre parole, il veicolo incidentato sarà obbligatoriamente riparato entro tale periodo, per essere poi revisionato, pena il rischio di una segnalazione al Dipartimento del Ministero dei Trasporti che si occupa di omologazioni e sicurezza stradale. Ad ogni buon conto, le compagnie assicurative non potranno in alcun caso limitare la libertà di scelta dell’assicurato per quanto concerne l’officina a cui rivolgersi per le necessarie riparazioni. A liquidare il danno sarà, però, l’assicurazione del responsabile civile: verrà, quindi, meno il meccanismo di indennizzo diretto, introdotto dal D.Lgs 209/2005. Inoltre, i nuovi contratti assicurativi dovranno specificare in maniera palese le variazioni di premio in base al meccanismo del bonus/malus.

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Da ultimo, si evidenzia che stavolta non sono stati riproposti quei punti della prima stesura del governo Letta su cui l’opinione pubblica si era maggiormente scontrata. Nulla, infatti, è stato detto circa l’obbligo di inserire nel contratto clausole che prevedano prestazioni di servizi medico-sanitari a fronte di una riduzione del premio, mentre sembra che sia definitivamente saltato il termine decadenziale di 90 giorni dalla data del sinistro per presentare richiesta di risarcimento.

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DANNI DA INSIDIE STRADALI: ECCO UN CASO IN CUI SPETTA IL RISARCIMENTO.

Per i danni da omessa manutenzione della strada a risponderne è il Comune, a meno che non venga dimostrato il caso fortuito – Corte di Cassazione Civile, sentenza 23 ottobre 2014, n. 22528.

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di Michele De Sanctis

Se il pedone scivola su un ‘cubetto instabile’ non visibile né segnalato, il Comune deve risarcire il danno. È quanto ha stabilito la IV Sezione della Suprema Corte di Cassazione con sentenza del 23 ottobre 2014, n. 22528. I giudici di Piazza Cavour nel cassare la precedente decisione d’appello, che aveva risparmiato il Comune dalla condanna, ha richiamato un ragionamento giuridico su cui si fonda un orientamento ormai pacifico sia in giurisprudenza che in dottrina. Tale ragionamento poggia sulla figura pretoria della cd. insidia stradale e del trabocchetto, per cui la Pubblica Amministrazione è tenuta a mantenere il patrimonio stradale in uno stato tale da impedire che l’utente possa subire conseguenze pregiudizievoli a causa dell’esistenza di situazioni di pericolo occulte e imprevedibili.

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Questi i fatti. In primo grado il Tribunale accoglieva la richiesta di risarcimento danni avanzata da un pedone per un sinistro occorsogli nel comune di Guardia Sanframondi. Tuttavia, tale decisione veniva rigettata in secondo grado dalla Corte di Appello di Napoli, che dava ragione al Comune.

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Per la Cassazione, al contrario, il caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui all’art. 2051 c.c. (Danno cagionato da cosa in custodia). La Corte, infatti, ha dapprima richiamato una consolidata sequenza di decisioni in materia (per tutte cfr. Cass. n. 9546/2010), basata, peraltro, su una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, rispetto alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni). Successivamente il giudice ha affermato che “la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato”. Questa presunzione può essere superata solo con la prova del caso fortuito che – ha rilevato la Cassazione – non sussiste nel caso in esame, dal momento che il danneggiato è caduto “in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo”.

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Per questi motivi, la Corte ha accolto il ricorso del pedone e rinviato il giudizio alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione.

Di seguito in testo della sentenza Cass. n. 22528 del 23 ottobre 2014.

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Fatto e diritto

R.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli del 28.5.2010 che ha accolto l’appello proposto dal Comune di Guardia Sanframondi in un giudizio di risarcimento danni da sinistro stradale, causato dallo scivolamento dell’attuale ricorrente, all’epoca dei fatti minore, su un cubetto instabile della pavimentazione stradale “non visibile, né segnalato”, che gli aveva causato lesioni personali alla caviglia sinistra.
Resiste con controricorso il Comune di Guardia Sanframondi.
I motivi esaminati congiuntamente sono fondati ed il ricorso va , quindi, accolto.
L’errore del ragionamento giuridico, compiuto dalla Corte di merito sta nell’avere applicato al caso in esame una giurisprudenza ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e trabocchetto.
Questa Corte, viceversa, con una sequenza consolidata di decisioni, da Cass. 6 luglio 2006 n. 15383 a Cass. 22 aprile 2010 n. 9546 sino a recentissime pronunciate – con una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della pubblica amministrazione in relazione alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni – ha stabilito che la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato. La presunzione in tali circostanze resta superata dalla prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo.
Le censure, unitariamente considerate, pongono in evidenza gli errori di applicazione delle norme giuridiche rispetto alla fattispecie come circostanziata, per fatto illecito e responsabilità da custodia, dovendo, viceversa, il caso essere esaminato alla luce dei principii di cui all’art. 2051 c.c..
La cassazione avviene con rinvio alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione, con vincolo di attenersi ai principi di diritto come sopra enunciati, e ribaditi nel precedente di questa Corte del 22.4.2010 n. 9546; Cass. 15.10. 2010 n. 21329). Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa e rinvia anche per le spese di questo giudizio di cassazione alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.

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DAVIDE, PICCHIATO DALLA FAMIGLIA PERCHÉ GAY.

Proprio stamattina una pagina Facebook dedicata alle scienze naturali pubblicava un album fotografico, in cui si mostravano cuccioli di orso, giraffa e koala teneramente avvolti dall’abbraccio della mamma e del papà. Titolo, la famiglia: è lì che ti senti sempre al sicuro. Si trattava semplicemente di uno di quei post ‘acchiappa-like’ che ’fanno al bene al cuore’ di chi ha la pancia piena e la testa vuota, dall’animo tendenzialmente incline alla facile commozione, ma spesso irriducibile dinanzi alle devianze della società – è così che oggi (???) va di moda bollare ciò che non è conforme a mamma orsa che col marito scalda i suoi dolcissimi orsacchiotti. In effetti, la famiglia è il posto in cui dovremmo essere accettati per quello che siamo: per una legge del sangue, per l’appartenenza al nucleo, per la storia comune, per un amore che va oltre ogni comprensione. In teoria. A volte, tuttavia, i legami familiari sono deviati, malati. Talora la condanna di quella che vuole essere vista come una scelta è più forte di ogni altro sentimento. Deviato non è, però, il soggetto che a mamma orsa preferisce un daddy bear (perché, se permettete, cosa facciamo sotto le coperte sono affari nostri). Il legame familiare, in questi casi, risulta infettato dal pregiudizio, dall’odio. Soprattutto, dalla paura del diverso. Quella che leggerete tra poco è una vicenda triste, una brutta storia, una di quelle che, francamente, vorrei non accadessero più. Una vicenda, che non dovrebbe verificarsi in un Paese laico, civile e democratico. E se non ‘scalda il cuore’ di chi ha ‘voglia di tenerezze’, pazienza. Il mio intento è disturbare le coscienze altrui. Facebook, in fondo, è pieno di ‘micini coccolosi’, che non troverete mai su questa pagina, perché preferiamo perdere un like, ma conservare la dignità.

Nonostante il disgusto che ho provato nel leggerlo, quest’articolo di cronaca va, comunque, condiviso e diffuso, perché dobbiamo riflettere sugli effetti drammatici di un odio inarrestabile, che sembra diffondersi nella società italiana come un virus. E miete vittime, non solo tra gay, lesbiche e trans, ma tra tutti coloro che sono considerati diversi: tra stranieri, clochard e tossicodipendenti. En passant, voglio rivolgermi al gentile signore che sulla mia bacheca personale (parzialmente pubblica) ha commentato un link di BlogNomos con una fotina di Hitler e la scritta in maiuscolo “ALLE DOCCE”: mi sono appena lavato, se la risparmi pure, oggi; o, alla prossima, non mi limiterò a cancellare il suo ridicolo commento, ma la denuncerò per apologia e minacce, continuando a non darLe la soddisfazione di una risposta. Perché non ne è degno. Alle docce di Hitler, non ci si lavava, come io ho fatto poco fa. Si moriva. E lei è forse Dio per decidere della vita e della morte di un altro essere umano?

Tornando al tema di questo post, la storia su cui vi invito ad una profonda riflessione è quella di Davide, un ragazzo siciliano di vent’anni, picchiato e segregato in casa dalla famiglia, dopo aver confessato la sua omosessualità, affinché espiasse la vergogna arrecata a tutti quanti. La vergogna, quel sentimento nobile, che fiorisce accanto alla dignità, nella coscienza di ognuno. Ma vergognarsi dei sentimenti di un figlio fino ad infliggergli violenza fisica e psichica, non ha nulla di nobile: è ignoranza, cattiveria, cinismo e incapacità d’amare. E chi è incapace d’amare prova fastidio anche per i sentimenti altrui e non sa far altro che esprimersi con la violenza, prima arma della persona ignorante. Per il padre/carceriere di Davide sarebbe stato meglio un figlio drogato o in galera. Così il ragazzo, visto che, di fatto, in galera già c’era, lo scorso agosto, si è lanciato di notte dalla finestra, rischiando la morte, pur di fuggire via, verso la libertà. La storia, seppur triste, ha un lieto fine (lieto perché nessuno ha perso la vita). Ora, infatti, Davide vive in un’altra città, ha un lavoro e condivide un appartamento con altri ragazzi. Ogni tanto riceve un messaggio su Facebook da un’amorevole zia che gli scrive: ‘impiccati’. Secondo loro non devo esistere, racconta Davide. Tu, invece, esisti, Davide. E ne hai ogni diritto. Ricordalo sempre.

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Queste sono storie d’ordinaria follia italiana, di un piccolo mondo antico, ancora vivissimo, dove l’ipocrisia è una malattia letale e dove abbandonare le proprie radici è l’unica via di scampo. Capirete, quindi, perché, dopo che ho visto mamma orsa stamattina, ho smesso di seguire quella pagina Facebook dedicata alle scienze naturali. Davvero molto poco scientifica, direi. La fuga dalla famiglia, come quella di Davide, ancora oggi, è il solo mezzo per evitare che la tua vita diventi erba da marciapiede, calpestata da tutti. Per evitare il labirinto della loro follia, o quel tunnel a senso unico, oltre cui c’è solo il suicidio.

Vi lascio all’articolo di cronaca pubblicato da Meridionews – ed. Catania.

Andrea Serpieri

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LEGGI ANCHE ‘SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE’

CRONACA – Una notte di agosto un ragazzo fugge da casa. Per tre settimane padre, fratello e zii lo hanno tenuto segregato, picchiandolo più volte. La sua colpa? Essere omosessuale. «Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni»

«Avevo davanti due scelte: farmi uccidere o provare a scappare». Davide ha poco più di vent’anni e un viso pulito nel quale sembra facile leggere ogni emozione. Una notte di agosto ha scelto di fuggire dalla casa nel quale è nato e cresciuto. Una casa nella quale è rimasto rinchiuso per tre settimane senza poter avere contatti con l’esterno. Si è lasciato cadere da un balcone del secondo piano, ha dormito nei campi, ha preso un treno per lasciarsi alle spalle la sua famiglia. Padre, fratello, zii per i quali ha commesso una gravissima colpa: essere omosessuale.

Davide non vuole che il suo nome venga cambiato per raccontare la sua storia. «Io sono questo», afferma scuotendo leggermente la testa, come se l’idea di usare uno pseudonimo fosse quasi inconcepibile. La sua vita, prima di questa estate, scorre tranquilla in un paesino del Palermitano. La scuola, i lavoretti, gli amici con cui uscire il sabato in città. Qualche malalingua ogni tanto racconta alla famiglia qualche storia, insinuazioni che lui puntualmente respinge. «Era l’unica cosa che dovevo tenere nascosta».

Poi una sera, al culmine dell’ennesima lite, decide di parlare chiaramente al padre. «Mi ha chiesto: “Ti droghi? Parla con me. Qualsiasi cosa sia, io ci sono”». Ma quando finalmente le labbra articolano quel pensiero celato per anni, «lui mi ha detto che era meglio che fossi drogato. Meglio la galera, una rapina in banca». Chiama così il fratello e gli zii di Davide che lo picchiano selvaggiamente, per fare espiare quella che ai loro occhi è una colpa.

“Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni”

«Per tre settimane ho vissuto rinchiuso», ricorda. Difficile per il circolo palermitano di Arcigay intervenire. Il tentativo di servirsi di un cellulare per chiedere aiuto scatena nuove violenze. Lunghe giornate passate chiuso in camera, la famiglia costretta a mentire su dove si trovasse il ragazzo e perché non rispondesse al telefono. È anche il pensiero di mettere al riparo da quelle violenze gli amici che tormenta Davide. «Dovevo proteggerli – spiega – avevo paura che facessero loro qualcosa di male».

«L’unica mia idea, una fissazione, era andare via». Una sera di agosto, raccoglie qualche vestito e i pochi risparmi messi al sicuro. Lancia il borsone dal secondo piano, poi si lascia scivolare anche lui dal balcone rischiando di farsi del male. «Non mi importava, dovevo scappare». La prima notte la passa in mezzo alle campagne. «Avevo paura che mi venissero a cercare». Una volta giunto alla stazione, gli vengono in mente alcune persone conosciute durante una festa a Catania. «Ho comprato il biglietto e sono venuto qui», afferma con semplicità.

A chi chiede aiuto non racconta quanto ha appena vissuto, anche se qualche livido spicca sulla carnagione chiara. «La prima notte che ho passato a Catania ho pensato: “Come faccio a restare?”». In tasca 80 euro e una casa che non può più chiamare tale. Quando confida quanto ha appena vissuto, trova accoglienza, calore, affetto. «Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Se ne sentono tante in giro… Avrei potuto non essere vivo».

Da quei giorni sono passati pochi mesi. Davide ha un lavoro stabile, condivide un appartamento con altri fuori sede. Ogni tanto una zia lo contatta su Facebook. «Mi scrive “impiccati” – racconta – Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni». Gli insulti, quelli più coloriti, non riesce quasi a ripeterli. Una sorta di pudore, un’educazione d’altri tempi, gli impedisce di riportare quelle frasi. Dopo la sua partenza, la famiglia ha solo segnalato l’allontanamento di Davide ai carabinieri, non la scomparsa. E, dal canto suo, il giovane ha deciso di non denunciare quanto subito.

“Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Avrei potuto non essere vivo”

«Con la mia famiglia non ho più contatti, ma ci siamo visti con mio padre». L’uomo non ha mai preso parte ai pestaggi, «ma ha chiamato lui mio fratello e i miei zii per farmi picchiare», precisa indurendo lo sguardo. Anche se i chilometri li dividono, le raccomandazioni sono sempre le solite: «Non frequentare persone sbagliate». Intendendo amici omosessuali. «A me non interessa». Alza gli occhi, si blocca per qualche istante. Sembra ripercorrere tutte le sofferenze che è stato costretto ad affrontare. Poi si rilassa. «Adesso ho la mia vita da vivere».

11 novembre 2014

di Carmen Validano

MERIDIONEWS Ed. Catania

REVISIONE AUTO: TUTTO QUELLO CHE C’È DA SAPERE.

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In occasione dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni sulla carta di circolazione, facciamo un po’ di chiarezza anche sugli obblighi in materia di revisione auto, già operativi dalla scorsa estate.

di Michele De Sanctis

Come previsto dalla Circ. MIT prot. n. 2083 del 20 giugno 2014 dedicata alle nuove modalità operative revisioni e collaudi, entrata in vigore il 14 luglio, per chi non sottopone il proprio veicolo a revisione non ci sono più giustificazioni che tengano. Il controllo, infatti, è direttamente gestito dal sistema informatizzato degli Uffici Motorizzazione Civile (UMC) che memorizza le date di controllo e, di conseguenza, quelle di scadenza. Anche la prenotazione viene ora registrata online e se ci si dimentica (o se si fa finta di essersene scordati) la sanzione scatta in automatico: la mancata revisione viene adesso immediatamente evidenziata nei terminali del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che, quindi, provvede a comminare al trasgressore una contravvenzione a partire da 155 euro, oltreché a sospendere la carta di circolazione sino all’avvenuta revisione. In questa eventualità ci si potrà potrà servire del proprio mezzo solo per raggiungere l’officina presso cui effettuare la revisione. In caso contrario si viene nuovamente sanzionati. All’obbligo in questione corrispondono diverse ipotesi di trasgressione, per le quali sono previste altrettante sanzioni: se, per esempio, venite sorpresi in autostrada con un veicolo non revisionato, rischiate una contravvenzione che può variare dai 159 ai 639 euro, oltre il fermo amministrativo della vettura. Ma esaminiamo meglio quali sono i nostri doveri quando arriva il momento di portare la macchina a fare la revisione.

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Innanzitutto, è bene capire quando si debba fare la revisione. A tal proposito, chiariamo subito che non esiste un solo tipo di revisione. La revisione, infatti, può essere periodica, annuale (come nel caso delle vetture a noleggio con conducente – NCC, dei taxi e degli autobus), ovvero straordinaria (che può anche essere parziale e disposta d’ufficio, come succede in occasione di alcuni incidenti stradali). Quella che interessa tutti noi, comuni automobilisti è sicuramente la revisione periodica, riservata alle autovetture con massa massima complessiva inferiore o pari a 3,5 tonnellate. Questa revisione, in particolare, è obbligatoria dopo 4 anni dalla prima immatricolazione entro il mese di rilascio della carta di circolazione e, successivamente, ogni 2 anni entro il mese corrispondente a quello in cui è stata effettuata l’ultima.

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Ma passiamo alla nota dolente. Quanto costa revisionare l’auto?
Fondamentalmente i costi possono variare dai 45 a 65 euro a seconda se vi rivolgiate alla MCTC o a un’officina autorizzata. Tuttavia, come sappiamo tutti e come, soprattutto, sa chi possiede un’auto un po’ datata, è molto probabile che la revisione comporti delle spese extra, per l’eventuale sostituzione di alcuni componenti: ad esempio le luci (il cui costo è pari a circa 10 euro a lampadina), gli pneumatici (con costi variabili in base alla mescola, alla tipologia, alla marca, ecc.) o le pasticche dei freni, che hanno un costo medio che si aggira tra i 100 e i 150 euro.

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Per effettuare la revisione auto ora obbligatoriamente bisogna prenotarla presso un’officina autorizzata del comune di residenza ovvero presso la locale sede della Motorizzazione Civile. Ma, in questo caso, per essere ammessi alla visita di revisione del veicolo è necessario fare prima domanda presso lo sportello informazioni, compilando il modello TT2100 (meglio noto come foglio giallo) con i dati del proprietario del veicolo da revisionare. A quel punto bisogna andare allo sportello revisioni portando anche la carta di circolazione originale (tranne nel caso in cui questa sia stata ritirata da un organo di polizia) e l’attestazione dell’avvenuto versamento di 45 euro sul conto corrente n. 9001.

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Si diceva in apertura che ormai viene tutto registrato on line. Anche se la revisione viene effettuata presso un’officina privata. Il meccanico, infatti, ha l’obbligo di inserire quotidianamente sul portale della Motorizzazione Civile tutte le prenotazioni di revisione auto che riceve durante la giornata e, nel farlo, deve, altresì, associarvi il pagamento sul conto corrente in base alla tariffa precedentemente stabilita. Al termine della revisione – e comunque entro un’ora dall’avvenuto controllo – il meccanico dovrà necessariamente inviarne conferma alla MCTC, sempre tramite portale. Solo quando questi dati saranno trasmessi, il proprietario del veicolo potrà ricevere il tagliando di aggiornamento. Addio, dunque, al timbro del meccanico, che, in passato serviva a certificare la correttezza del processo di manutenzione e di revisione dell’automezzo, ma che, nel contempo, favoriva il moltiplicarsi di condotte ai limiti dell’illegalità, quando non anche illecite. Con questo nuovo sistema, quindi, una volta inseriti i dati nel portale della Motorizzazione, in modo del tutto automatico, i terminali del Ministero memorizzano la data della prossima scadenza: presupposto per la sanzione di cui si parlava poc’anzi, in caso di inottemperanza. Tali regole sono valide in tutto il territorio nazionale tranne che per le regioni a statuto speciale Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta e per le province autonome di Trento e Bolzano.

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Prestate, infine, attenzione alle verifiche su strada da parte delle forze dell’ordine. Le pattuglie stradali sono, infatti, sempre più connesse: anche loro, peraltro, hanno accesso ad uno speciale database in cui reperire l’elenco delle auto che circolano senza revisione. Inoltre, gli strumenti di controllo della velocità su strada possono. altresì, servire per verificare l’avvenuta revisione (e anche il pagamento del bollo auto). Nessuna scappatoia, dunque, per i trasgressori e gli smemorati. Ai controlli non si sfugge. E voi? Avete controllato quando vi tocca la prossima revisione?

Leggi il testo integrale della Circ. MIT prot. n. 2083 del 20 giugno 2014 e della Circ. n. 15684 dell’11 luglio 2014 – Integrazioni Circ. 2083/2014.

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CARTA DI CIRCOLAZIONE: TUTTE LE NOVITÀ DAL 3 NOVEMBRE.

di Michele De Sanctis

Il prossimo 3 novembre sembra essersi trasformato in una sorta di D-Day per milioni di italiani, che ogni giorno affollano le strade del Paese a bordo dei propri mezzi di circolazione e che, negli ultimi giorni, si mostrano quanto meno preoccupati dinanzi all’incombere di un nuovo obbligo. L’ansia, in effetti, regna un po’ dappertutto – e solitamente va di pari passo con i dubbi sul contenuto delle nuove disposizioni – soprattutto in quelle famiglie che lasciano al figlio l’uso della macchina del padre o della madre. Da lunedì, infatti, chi utilizza per più di 30 giorni un veicolo intestato a un’altra persona dovrà essere in grado di mostrarlo sulla carta di circolazione, vale a dire che da lunedì sarà necessario modificare l’intestazione di un veicolo in dotazione da più di 30 giorni a un individuo diverso dal suo reale proprietario. L’obbligo in questione discende dall’art.11 della legge 29 luglio 2010 n. 120 che, aggiungendo all’art. 94 del Codice della Strada il comma 4-bis, ha introdotto il divieto di intestazione fittizia dei veicoli, sia sulla carta di circolazione sia sul certificato di proprietà, ovvero sul certificato di circolazione dei ciclomotori. Ma quest’obbligo a chi si rivolge davvero? È giustificato il timore delle famiglie italiane? Scopriamolo insieme.

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L’intento della norma in esame è quello di eliminare le distorsioni e, in generale, i pregiudizi derivanti da intestazioni fittizie o simulate, arrecati al generale interesse, alla credibilità ed effettività delle trascrizioni nei pubblici registri, all’individuazione degli effettivi responsabili della circolazione dei veicoli e alla lotta contro i fenomeni di evasione fiscale e le frodi assicurative. Per coloro che non si uniformeranno alle nuove disposizioni sono previste sanzioni piuttosto severe: da euro 705 a euro 3.526. La carta di circolazione è ritirata immediatamente da chi accerta le violazioni previste ed è inviata all’ufficio della Direzione centrale della MCTC, che provvede al rinnovo dopo l’adempimento delle prescrizioni omesse.

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L’ambito di applicazione della norma, sia soggettivo che oggettivo, è stabilito dalla Circolare n.15513 del 10 luglio 2014, con cui il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha fornito un regolamento esecutivo della disposizione introdotta ben quattro anni fa e che sarà in vigore, per l’appunto, dal 3 novembre. Saranno in primo luogo colpite tutte quelle auto temporaneamente intestate in comodato d’uso, in particolar modo nei vari casi di locazione in assenza di conducente e di locazione senza conducente da affidare ai corpi di polizia locale. Saranno, inoltre, coinvolte quelle situazioni di intestazioni di veicoli a soggetti incapaci di agire oltreché i casi trust finanziario. E sarà il diretto interessato a dover chiedere la documentazione per provvedere all’aggiornamento. Ma non saranno coinvolte le famiglie e questo per due ragioni. La prima è che la circolare in questione stabilisce che l’obbligo in parola non sarà valido per i conviventi, purché risiedano al medesimo indirizzo. La seconda – di ordine logico – è che figli e nipoti potranno continuare a guidare tranquillamente le auto di genitori, fratelli e nonni, in quanto sarebbe praticamente impossibile determinare il momento in cui il guidatore ha ottenuto in dotazione il veicolo. Non esistono, infatti, documenti che attestino l’avvenuto passaggio di utilizzo tra un familiare e l’altro. Per cui, tranquilli: se avete un figlio che guida la vostra auto, non incorrerete in alcuna sanzione, dal momento che non si può risalire ai 30 giorni indicati dalla norma. Sarà, in ogni caso, nelle facoltà del nucleo familiare far registrare il comodato, in caso di automezzi concessi al libero utilizzo di un familiare convivente, ove lo si volesse. Inoltre, l’obbligo non sarà retroattivo: anche questo aspetto gioca a favore di chi usufruisce dell’automobile di proprietà di un congiunto, che potrà continuare a farlo senza rischiare sanzioni. Per quanto riguarda le altre situazioni, stante la non retroattività della norma, solo i veicoli intestati a partire dalla data di entrata in vigore dell’obbligo saranno soggetti alla nuova normativa: nessun effetto retroattivo, quindi, è previsto per gli accordi stipulati anteriormente, fermo restando, anche in questo caso, che la carta di circolazione potrà comunque essere aggiornata facoltativamente.

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In verità, a rischiare davvero sono: le società di autonoleggio, le Pubbliche Amministrazioni e le flotte aziendali in genere. Tuttavia ci sono ipotesi, in cui non si escludono dall’ambito soggettivo le persone fisiche, cioè i privati cittadini. È, ad esempio, il caso di veicolo intestato ad un persona che viene a mancare e i cui parenti ne facciano uso per più di 30 giorni, che, anche per queste situazioni, resta quale termine massimo fissato per l’utilizzo di un mezzo non proprio, senza che peraltro subentri l’obbligo di aggiornamento della carta di circolazione. I soggetti ai cui sarà imposto l’obbligo di far coincidere il nome dell’intestatario della carta di circolazione con quello della patente potranno mettersi in regola recandosi alla Motorizzazione o agli sportelli del Dipartimento per i Trasporti Terrestri. Il costo complessivo della pratica sarà di 25 euro a veicolo, di cui 16 di imposta di bollo e 9 di diritti di motorizzazione. Saranno, altresì, esclusi dall’obbligo di comunicazione quei veicoli nella disponibilità di soggetti che effettuano attività di autotrasporto sulla base dell’iscrizione all’albo degli autotrasportatori, sia per conto terzi che per conto proprio (es.: trasporto di persone mediante autobus per uso proprio e mediante auto per usi di terzi, come nel caso dei taxi), sarà, poi, escluso dall’obbligo chi è iscritto al REN (Registro Elettronico Nazionale) e chi è soggetto al rilascio di autorizzazione per il trasporto di persone (licenza di trasporto per conto proprio). Vista, infine, la lettera della norma, non è necessaria la coincidenza tra intestazione e utilizzatore ove l’utilizzo del veicolo sia occasionale o, comunque, inferiore a 30 giorni.

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Per le flotte aziendali, le nuove disposizioni si applicheranno anche mediante istanza cumulativa con un solo modello di tipo TT2120, mediante pagamento di un’unica imposta di bollo del valore, già indicato nel precedente paragrafo, di 16 euro, più 9 euro per ogni carta di circolazione da aggiornare: e questo è un passaggio che andrà, comunque, svolto singolarmente per ogni documento coinvolto. Ma nel caso di comodato d’uso di veicoli aziendali il nome dell’utilizzatore non andrà annotato sulla carta di circolazione, ma soltanto registrato alla Motorizzazione che rilascerà la relativa ricevuta e che, in ogni caso, non sarà obbligatorio tenere a bordo.

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Infine, si ricorda che, sotto il profilo oggettivo, oltre ai già richiamati casi in cui un soggetto abbia la temporanea disponibilità per un periodo superiore a 30 giorni, di un veicolo intestato ad un terzo, a titolo di comodato, in forza di un provvedimento di affidamento in custodia giudiziale o di un contratto di locazione senza conducente e all’eventualità che si debba procedere all’intestazione a norme di soggetti giuridicamente incapaci, la Circ. 15513/2014 MIT prevede l’obbligo di aggiornamento della carta di circolazione in altre due ipotesi specifiche. Si tratta dei casi in cui si renda necessaria una variazione della denominazione dell’ente e di quei casi di variazione delle generalità della persona fisica intestataria.

Clicca QUI per leggere la la Circ. 15513/2014 MIT.

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CASSAZIONE: SE IL DATORE DI LAVORO NON VI HA VERSATO I CONTRIBUTI…

di Michele De Sanctis

In caso di mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro, ai fini dell’ammissibilità della domanda di condanna, oltre allo stesso datore di lavoro, è necessario citare anche l’Istituto previdenziale. Peraltro, resta precluso il pagamento dei contributi in favore del lavoratore.

È quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 19398/2014, Sez. Lavoro in tema di condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali.

In particolare, il caso di specie riguardava un dipendente che, dopo aver perso il posto di lavoro, aveva adito il Giudice del Lavoro per impugnare il licenziamento e contestualmente chiedere che il datore di lavoro venisse condannato al pagamento dei contributi INPS, dovuti in virtù del rapporto di lavoro e dell’attività lavorativa effettivamente prestata.

Tuttavia, la Cassazione ha sottolineato che in questi casi l’INPS (come qualunque altro ente previdenziale) deve essere necessariamente citato in causa, pena l’inammissibilità della domanda. Nella citata sentenza, infatti, la Suprema Corte ha ritenuto infondata l’impugnazione del licenziamento, relativamente all’obbligo di pagamento del datore di lavoro in favore dell’INPS, escludendo che il Giudice potesse emettere una condanna in tal senso, senza che il lavoratore avesse preventivamente citato in giudizio anche l’INPS.

“In caso di omissione contributiva – affermano gli Ermellini – il lavoratore può chiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali in favore dell’ente previdenziale sole se quest’ultimo sia parte nel medesimo giudizio, restando esclusa in difetto l’ammissibilità di tale pronuncia (che sarebbe una condanna nei confronti di terzo, non ammessa nel nostro ordinamento in difetto di espressa previsione)”.

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Le norme processuali, in effetti, richiedono che il procedimento si svolga tra tutti i soggetti che possano costituirsi quali parti in causa, dal momento che l’ordinamento repubblicano riconosce loro il diritto di interloquire e contraddire sulle questioni che li riguardano (art. 24 Cost.), fatti salvi taluni casi eccezionali, per i quali si ammette una pronuncia che incida anche su un terzo, non convenuto. Nondimeno, la precedente giurisprudenza, in tema di omissione contributiva, aveva costantemente ammesso l’insussistenza in capo agli enti previdenziali della qualità di necessario contraddittore (cfr. Cass. Sent. n. 169/94 Sez. Lav.), vista la natura della controversia, che riguardava direttamente il rapporto di lavoro e non quello previdenziale, di cui il primo costituiva, piuttosto, il presupposto giuridico. In passato, quindi, secondo la Corte, ciò implicava un accertamento solo in relazione al rapporto di lavoro, mentre le conseguenze sul rapporto assicurativo obbligatorio (cioè la necessaria relazione tra lavoratore ed Istituto previdenziale) erano solo riflesse.

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Ebbene, la portata rivoluzionaria della sentenza in parola sta proprio in questo: se fino ad oggi l’esigenza di integrità del contraddittorio non era condizione di ammissibilità della domanda di condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali, adesso la Corte, senza entrare nel merito dei fatti e senza alcun riferimento al diritto soggettivo costituzionalmente tutelato dalla posizione assicurativa (ricordiamo sempre che quello della Cassazione è un giudizio di legittimità), ha stabilito una nuova prassi procedurale ai fini dell’ammissibilità di questo tipo di ricorsi – prassi, in realtà, già prevista del Legislatore – evidenziando la circostanza che “l’interesse del lavoratore è connesso con il diritto di credito dell’Istituto, sia geneticamente, perché nasce dal medesimo fatto che a quello dà origine (la costituzione del rapporto di lavoro), sia funzionalmente perché l’adempimento del debito contributivo realizza anche la soddisfazione del diritto alla posizione assicurativa”.

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Pertanto, “la sussistenza del suddetto interesse del lavoratore, ed il riconoscimento di una sua tutelabilità mediante la regolarizzazione della posizione contributiva, danno ragione del riconoscimento da parte dell’ordinamento della facoltà del lavoratore di chiamare in causa il datore di lavoro e l’ente previdenziale, convenendoli entrambi in giudizio, al fine di accertare l’obbligo contributivo del primo e sentirlo condannare al versamento dei contributi (che sia ancora possibile giuridicamente) nei confronti del secondo, a valere sulla sua posizione contributiva, impedendo il verificarsi di un danno nei suoi confronti (e nei limiti in cui a ciò il lavoratore vi abbia interesse, come avviene quando non operi in suo favore, o c’è il rischio che possa non operare, per qualsiasi ragione, il principio di automaticità delle prestazioni). Resta per converso esclusa per ragioni processuali la possibilità per il lavoratore di agire per ottenere una condanna del datore al pagamento dei contributi nei confronti dell’INPS che non sia stato chiamato in causa, stante la generale esclusione dei provvedimenti nei confronti di terzo ed il carattere eccezionale della condanna c.d. a favore di terzo. Infatti, di regola il processo deve svolgersi tra tutti coloro che sono parti del rapporto sostanziale dedotto, i quali hanno diritto ad interloquire sulle questioni che li riguardano (art. 24 Cost.), e il provvedimento che definisce il processo fa stato solo nei confronti delle parti e loro aventi causa, mentre solo in alcuni casi eccezionali (ne sono un esempio, nella materia del lavoro, le due condanne in favore di terzo previste dall’art. 18 stat. lav. in materia di licenziamenti illegittimi) è ammessa una pronuncia in favore di terzo”.

In conclusione, se non chiamate in causa l’INPS, il datore di lavoro che vi ha licenziato potrebbe non essere condannato al versamento dei contributi che vi spettano. E oltre a perdere qualcosa che vi siete guadagnati col vostro lavoro, correte il rischio concreto di essere, altresì, condannati al pagamento delle spese di lite.

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