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INAIL: CUD 2014. I modelli disponibili online

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I Cud 2014 relativi alle indennità erogate dall’Inail nell’anno 2013 per inabilità temporanea assoluta sono consultabili e scaricabili dalla sezione Servizi online del portale INAIL .

L’accesso è previsto per i lavoratori (che si dovranno registrare come “Utente generico”) e i loro intermediari (Caf aziende).

Dall’11 marzo è inoltre possibile per i CAF federati acquisire sul portale dell’Inps i Cud 2014 relativi alle indennità di inabilità temporanea assoluta.

Dal 17 marzo sono altresì disponibili sul “Portale del pensionato” i Cud 2014 per gli ex dipendenti Inail.

Dal 2013 gli Enti previdenziali sono tenuti a rendere disponibile in modalità telematica la certificazione unica (Cud) dei redditi di lavoro dipendente, pensione e assimilati (legge di stabilità 2013).

I dati riportati nel Cud. Per i lavoratori infortunati o affetti da malattia professionale si tratta delle indennità di inabilità temporanea assoluta e dei redditi esenti liquidati nell’anno precedente, mentre per i lavoratori del settore navigazione si tratta anche delle indennità di malattia e di maternità. Per gli ex dipendenti Inail e i loro superstiti si tratta degli emolumenti del trattamento di pensione.

Come acquisire il Cud.

Lavoratori infortunati o affetti da malattia professionale: dalla sezione Servizi online del portale Inail
tramite i CAF convenzionati
chiamando il Contact center Inail da rete fissa al numero verde gratuito 803.164 e da cellulare al numero 06/164164 (a pagamento in base al piano tariffario del proprio gestore telefonico).

Lavoratori settore navigazione: specifico portale dedicato ai Servizi online
tramite i CAF convenzionati
chiamando il Contact center Inail da rete fissa al numero verde gratuito 803.164 e da cellulare al numero 06/164164 (a pagamento in base al piano tariffario del proprio gestore telefonico).

Ex dipendenti Inail e i loro superstiti, titolari di pensione a carico dei Fondi interni di previdenza: tramite il portale del pensionato, raggiungibile dalla sezione Servizi online del portale Inail
per posta, unitamente al cedolino del mese di riferimento, per i soli pensionati che hanno fatto richiesta del servizio di spedizione cartacea del cedolino, a fronte di un contributo al costo di spedizione nella misura di € 13,00 annui.

Soltanto nel caso in cui non sia possibile ottenere il Cud attraverso le modalità appena descritte, sarà possibile acquisirlo in forma cartacea presso una sede territoriale Inail.

Fonte INAIL .

Funzione ispettiva: una campagna mediatica ai danni dei cittadini

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Di fronte a quanto sta accadendo in seguito al tragico evento di Casalnuovo e alla campagna mediatica contro la funzione esercitata dalla Direzione Territoriale del Lavoro di Napoli non si può restare indifferenti. Il caso, lo ricorderete perché anche noi abbiamo riportato la notizia, è quello del panettiere Eduardo de Falco, suicidatosi in provincia di Napoli dopo la notifica di una sanzione di duemila euro proveniente dagli Uffici della DTL partenopea.
L’attività degli ispettori del lavoro della Direzione Territoriale di Napoli è ad oggi sospesa per la grave situazione di tensione creatasi dopo il tragico episodio. I sindacati dei 90 ispettori, che coprono il territorio della provincia di Napoli, hanno, infatti, indetto lo stato di agitazione, che comporta lo stop alle ispezioni sui luoghi di lavoro. Non sappiamo come potremo operare in futuro – ha detto ai giornalisti il Segretario Generale del Ministero del Lavoro, Paolo Pennesi, inviato a Napoli dal Ministro Poletti – non ho risposte in tasca. Certo – ha aggiunto – non potremo continuare ad operare come abbiamo fatto finora, perché oggi non siamo in una situazione di normalità.

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Al Ministero, i dipendenti della DTL hanno chiesto sostegno, dopo le dure critiche rivolte agli Ispettori del lavoro. E sostegno giunge anche dai vertici dell’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale. In un comunicato stampa, l’INPS denuncia la violenta campagna mediatica tesa a denigrare l’operato di alcuni Ispettori del Lavoro della DTL di Napoli, “colpevoli”, secondo talune dichiarazioni riportate a mezzo stampa e da manifesti cittadini, di aver adempiuto con zelo ai loro compiti istituzionali.
Non è solo la funzione ispettiva del Ministero del Lavoro ad essere nel mirino. Anche INPS e INAIL sono stati chiamati in causa. E anche per questo recentemente, in una lettera aperta, il Direttore Generale dell’INAIL si è associato alle espressioni di solidarietà che il Ministro Poletti ha indirizzato ai suoi Funzionari di Vigilanza, riconoscendo ad essi un grande senso di responsabilità e del dovere, pur in presenza di un disagio economico e sociale che rende ancor più difficile l’assolvimento della funzione.
Stiamo assistendo, in effetti, ad un vero e proprio tiro al bersaglio nei confronti del personale dei Ministeri e degli Enti Pubblici che assolvono alla funzione ispettiva di vigilanza sui luoghi di lavoro, tenuti ad applicare le leggi di questo Stato senza alcun potere discrezionale.

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Quanto accaduto a Casalnuovo rappresenta un drammatico segnale del disagio sociale vissuto nel nostro Paese, ma i mezzi di comunicazione e alcuni movimenti politici preferiscono alimentare il clima di tensione attraverso una grave confusione informativa anziché aiutare a fare chiarezza.
L’esigenza di avere una diversa legislazione in materia di lavoro, che tenga conto della grave situazione imprenditoriale ed economica che attraversa il nostro Paese, è condivisa anche dagli addetti ai lavori ma, purtroppo, si deve prendere atto che il Legislatore sembra avere difficoltà a trovare soluzioni normative concrete in grado di risolvere gli attuali problemi. È, però, indispensabile – come si legge nella richiamata nota dell’INPS – chiarire all’opinione pubblica, al fine di evitare le tante vergognose strumentalizzazioni in atto, che gli Ispettori hanno l’obbligo di applicare le leggi e non certo di interpretarle. Compito che svolgono quotidianamente in contesti territoriali difficili, in condizioni di grave disagio e di persistente impatto con una diffusa criminalità. La loro è una impari lotta (per l’assenza di mezzi e risorse economiche dovute ai tagli perpetrati in tutti questi anni dai Governi fin qui succedutisi) contro il lavoro nero, l’evasione e l’elusione contributiva, il fenomeno delle “morti bianche”.

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A prescindere da quanto abbiamo letto e sentito nelle ultime settimane e nel massimo rispetto per la famiglia dell’imprenditore defunto, anch’io, che sono un semplice cittadino come voi, ritengo necessario ribadire che se la funzione ispettiva assolve esclusivamente ad obblighi di legge, gli ispettori del lavoro e di vigilanza non intraprendono battaglie personali contro i datori di lavoro, ma, semplicemente, fanno il proprio dovere. Vi sentireste mai colpevoli di fare il vostro lavoro? Cosa dovrebbe fare un funzionario di vigilanza di fronte ad una violazione? Guardare dall’altra parte? Non vi lamentereste piuttosto del contrario se gli ispettori non facessero il loro lavoro, pur percependo uno stipendio pagato con soldi pubblici. Cosa devono fare allora: lavorare o essere fannulloni? Perché se devono lavorare ricordiamoci sempre che quel tipo di lavoro comporta ispezioni e sanzioni, della cui riscossione siamo noi cittadini i primi beneficiari. E siamo quindi noi le prime vittime di questa campagna mediatica contro la funzione ispettiva. Allora, fannulloni o efficienti? Come li vuoi i tuoi funzionari? Italia, deciditi!

RIFINANZIATI GLI INCENTIVI PER L’AUTOIMPIEGO E L’AUTOIMPRENDITORIALITA’ GESTITI DA INVITALIA

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La legge che agevola l’Autoimpiego (D.L. n. 185/2000 – Titolo II) costituisce il principale strumento di sostegno alla realizzazione e all’avvio di piccole attività imprenditoriali da parte di disoccupati o persone in cerca di prima occupazione.

Avvisiamo chiunque fosse interessato che sono stati rifinanziati con 80 milioni di euro gli incentivi per l’Autoimpiego e l’Autoimprenditorialità gestiti ai sensi del D.L. 185/00 da Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione d’investimenti e lo sviluppo d’impresa SpA già Sviluppo Italia. E’ possibile, pertanto, presentare nuove domande di ammissione alle agevolazioni per iniziative da realizzarsi esclusivamente nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia: la sede legale, operativa ed amministrativa deve essere ubicata in una di queste regioni. La misura sostiene la realizzazione e l’avvio di piccole attività imprenditoriali da parte di disoccupati o persone in cerca di prima occupazione, mediante la concessione di agevolazioni finanziarie (contributo a fondo perduto e mutuo a tasso agevolato) e di servizi di assistenza tecnica per tre tipologie di iniziative:

Lavoro Autonomo (in forma di ditta individuale), con investimenti complessivi previsti fino a € 25.823

Microimpresa (in forma di società), con investimenti complessivi previsti fino € 129.114

Franchising (in forma di ditta individuale o di società), da realizzare con Franchisor accreditati con Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione d’investimenti e lo sviluppo d’impresa.

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Per accedere alle agevolazioni occorre presentare una domanda on line che contenga una illustrazione del piano d’impresa, ai fini di evidenziare la coerenza tra il profilo del soggetto promotore e l’iniziativa imprenditoriale, insieme alla sua validità tecnica economica. Per poter accedere alle agevolazioni, inoltre, è previsto un colloquio finalizzato alla verifica del possesso delle conoscenze e competenze necessarie alla realizzazione dell’iniziativa proposta.

Inoltre Invitalia, al fine di disincentivare comportamenti non corretti da parte dei beneficiari delle agevolazioni, ha avviato, in attuazione di un accordo sottoscritto con la Guardia di Finanza, un processo di monitoraggio dell’intero ciclo dei finanziamenti concessi.
I controlli verranno effettuati nelle diverse fasi di valutazione del progetto, dall’istruttoria all’erogazione delle agevolazioni.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha autorizzato l’Agenzia alla riscossione coattiva, tramite iscrizione a ruolo, dei crediti vantati nei confronti dei beneficiari delle agevolazioni per l’Autoimpiego. Invitalia per il recupero del credito si avvale dei servizi di Equitalia Spa.

È, infine, prevista una dotazione finanziaria specifica, a valere sul Programma Operativo Interregionale “Attrattori culturali, naturali e turismo” FESR 2007/2013, Asse 2, Ob. Op. II.1. per lo sviluppo delle imprese turistiche e/o connesse alla fruizione culturale e naturalistica degli attrattori ricadenti nei Poli di attrazione culturali, naturali e/o paesaggistici localizzati nei Comuni delle regioni Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.

Per ulteriori informazioni e documentazioni, vi invitiamo a visitare il sito ufficiale dell’iniziativa

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Fonte: maurobiani.it

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Il trentennale dell’accordo sulla scala mobile. Un raffronto tra i problemi di ieri e di oggi

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 Il 14 febbraio 1984 venne siglato l’ormai famoso accordo, entrato nella storia sindacale italiana, come l’“Accordo di San Valentino”. Tale intesa, sottoscritta con il governo Craxi soltanto da UIL e CISL, comportò la decisione di tagliare di quattro punti percentuali la scala mobile e creò una spaccatura sindacale con la CGIL, allora guidata dal Segretario Luciano Lama, la quale non firmò l’intesa. Fu la fine della federazione sindacale unitaria.

La medesima CGIL non resse alle tensioni provocate dalla mancata sottoscrizione dell’accordo, al punto che si realizzò una grave frattura tra sua maggioranza comunista e la sua componente minoritaria socialista, capitanata Ottaviano Del Turco.

Le frizioni prodotte dall’accordo furono anche politiche, in quanto  l’allora segretario del PCI, Enrico Berlinguer, si oppose duramente  ad esso.

Il contenuto dell’accordo divenne il testo di un apposito decreto legge approvato dal Governo Craxi, che venne, poi, convertito nella Legge 12 giugno 1984 n. 219. Siffatto provvedimento legislativo si connotò, appunto, per l’espressa previsione di un taglio di 4 punti percentuali della scala mobile.

Il 9 e 10 giugno 1985 si svolse un referendum abrogativo sulla scala mobile, promosso dal solo PCI. L’esito referendario fu negativo. A fronte, di un’affluenza alle urne del 77,9%, il 45,7% dei votanti si espresse a favore dell’abrogazione della norma, mentre il 54,3% si oppose. Di conseguenza, il taglio rimase.

Con l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, si avviò la pratica concertativa, che portò alla definitiva abrogazione della scala mobile con la firma del protocollo triangolare di intesa tra il Governo Amato I e le parti sociali avvenuta il 31 luglio 1992. Con la scala mobile, è stata abolita l’indennità di contingenza ed è stato introdotto per tutti i lavoratori dipendenti (dirigenti esclusi) l’elemento distinto della retribuzione. In seguito, l’altrettanto storico “Accordo del luglio 1993”, corresponsabilizzò le parti sociali ed il Governo, allora presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, nel controllo dell’inflazione e della spesa pubblica. Quest’ultimo accordo ampliò gli spazi della contrattazione salariale, proprio come diretta conseguenza dell’eliminazione della scala mobile. Per tale ragione, l’Accordo del luglio 1993 assunse la concertazione come unico metodo regolatore delle dinamiche tra le parti sociali.

 

Venendo al contenuto dell’Accordo di San Valentino, esso aveva come oggetto l’adozione del meccanismo proposto da Ezio Tarantelli che comportava la rideterminazione dei punti di scala mobile per favorire la discesa dell’inflazione.

Si trattava dell’esito sofferto di un lungo negoziato, in virtù del quale il Governo s’impegnava a garantire il blocco dei prezzi e delle tariffe per due mesi, la sospensione degli scatti dell’equo canone per tutto l’anno 1984 e la restituzione del fiscal drag dall’anno successivo. A fronte di ciò, il Governo richiedeva l’accettazione da parte delle parti sociali del taglio di alcuni punti di scala mobile. Pertanto, a seguito dell’Accordo di San Valentino, scomparve il meccanismo d’indicizzazione delle retribuzioni, previsto dalla scala mobile.

L’istituto della scala mobile, sin dal 1951, aveva protetto il potere d’acquisto dei salari, adeguando automaticamente la dinamica salariale a quella inflazionistica sulla base di aumenti, in quanto, a fronte delle variazioni dell’indice dei prezzi, scattavano corrispondenti aumenti delle retribuzioni. Il punto di contingenza era uguale per l’intero Paese e per tutti i comparti dell’economia nazionale, ma con valori diversi a seconda della categoria, della qualifica, dell’età e del genere.

Tale sistema venne fortemente rafforzato dopo il 1975, in quanto, attraverso uno specifico accordo confederale, si stabilì l’unificazione del valore nominale del punto di contingenza (a punto unico e pesante, implicando così variazioni percentuali molto più forti per le retribuzioni più basse). Tale unificazione era la diretta conseguenza della politica sindacale mirante all’egualitarismo salariale, politica che, perseguita agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso e favorita anche dalla spinta inflazionistica che rendeva l’indennità l’elemento preponderante dell’intero incremento retributivo. La più immediata conseguenza di tale decisione fu l’appiattimento dei salari. Nel 1975, l’ambito di applicazione della scala mobile era limitato al solo settore bancario. In seguito, la scala mobile venne estesa anche agli altri settori con un accordo stipulato tra la Confindustria e CGIL, CISL e UIL, le tre maggiori organizzazioni sindacali.

In virtù di tale accordo, la scala mobile (denominata ufficialmente “indennità di contingenza”) si trasformò in un autentico uno strumento economico di politica dei salari, volto ad indicizzare automaticamente i salari all’inflazione ed all’aumento del costo della vita secondo un indice dei prezzi al consumo. Essa era calcolata, seguendo l’andamento variabile dei prezzi di particolari beni di consumo, generalmente di larga diffusione, costituenti un paniere. Una commissione ad hoc svolgeva il compito di determinare ogni tre mesi le variazioni del costo della vita utilizzando come indice di riferimento le variazioni dei prezzi di tali beni (indice dei prezzi al consumo, IPC). Una volta accertata e resa uguale su base 100 la somma mensile necessaria per la famiglia-tipo, in riferimento ad un dato periodo per l’acquisto dei prodotti del paniere, le successive variazioni percentuali dei prezzi dei beni di consumo divenivano i punti di variazione dell’indice stesso del costo della vita, a cui i salari venivano direttamente adeguati.

Successivamente, il meccanismo venne aspramente criticato per le implicazioni fortemente lesive dei valori della professionalità, in particolare, delle categorie medio-alte, nonché per l’automatico generarsi di una spirale prezzi-salari. Di conseguenza, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, venne avviato un graduale processo di riforma della scala mobile.

Inizialmente, intervenne il così detto “Protocollo Scotti” del 22 gennaio 1983, il quale adottò alcune misure di contenimento del meccanismo automatico di adeguamento delle retribuzioni, stabilendo un nuovo valore del punto di contingenza. Come sopra visto, il persistente incremento del costo del lavoro rispetto al tasso d’inflazione programmato spinse poi, nel 1984, il governo guidato da Bettino Craxi del PSI ad operare un ulteriore contenimento del meccanismo, disponendo la predeterminazione dei punti di contingenza da corrispondere e limitandola ai primi due trimestri.

Infine, lo ricordiamo, dal 1992, la scala mobile è cessata e, da allora, viene pagata solo l’indennità di contingenza maturata fino ad allora. In molti contratti collettivi, essa è stata conglobata nella paga base. L’accordo sul costo del lavoro del luglio 1993 ha affidato alla contrattazione nazionale per le singole categorie la determinazione della rivalutazione automatica delle retribuzioni, disponendo l’indennità di vacanza contrattuale.

 

A distanza di trent’anni dall’Accordo di San Valentino, il quadro economico e sociale  è profondamente mutato.

L’economia italiana è, ormai, prossima alla deflazione, mentre, allora, il tasso di crescita del costo della vita si manteneva stabilmente su due cifre percentuali. Oggi, la disoccupazione ha raggiunto livelli altissimi, mentre, allora trovare lavoro non era tanto difficile, in quanto il “Sistema Paese” era ancora in piena fase di crescita, avendo un prodotto interno lordo nettamente positivo ed un il livello dei consumi costantemente in rialzo. Inoltre, il debito pubblico era ancora sotto controllo e la Commissione Europea non aveva ancora strumenti di controllo così invasivi, anche perché la moneta unica era soltanto un’idea utopica.

In altri termini, l’Accordo di San Valentino operò i suoi effetti su un Italia completamente diversa da quella attuale. Probabilmente, l’unico elemento comune tra le due epoche è rinvenibile nella divisione della sinistra, unitamente alla crisi del sindacato unitario ed la CGIL spaccata.

Tuttavia, se si analizza bene quel lontano e così diverso quadro macroeconomico, è possibile rinvenire l’origine di  molti dei mali che affliggono attualmente l’Italia.

Nel corso degli anni ‘80 del secolo scorso, cominciò la crisi del nostro modello di sviluppo, prima in forma lieve ed episodica, per, poi, divenire sempre più marcata e sistemica.

La ricerca di un facile consenso elettorale comportò l’aumento esponenziale ed incontrollato del debito pubblico.

Infine, le crisi petrolifere di quegli anni anticiparono le prime controindicazioni di un economia mondiale che andava progressivamente globalizzandosi.

Purtroppo, la politica, l’imprenditoria ed i sindacati non colsero il vero significato di queste avvisaglie negative, essendo unicamente concentrati sulla sterile discussione avente ad oggetto il taglio di qualche punto percentuale di contingenza. Anzi, negli anni a seguire, le istituzioni e le parti sociali non sono state capaci d’interpretare le nuove istanze generate dall’economia globale, con la conseguenza che non sono riuscite ad elaborare per il nostro Paese alcun nuovo modello di sviluppo condiviso, capace di contrastare il declino del sistema economico e sociale nazionale.

 

L’esame di quel periodo storico ci porta all’amara constatazione che gran parte dei temi economici sottesi a quell’accordo sono tuttora di estrema attualità. In altri termini, nonostante i mille stravolgimenti subiti dall’Italia negli ultimi trent’anni, il nostro sistema economico e sociale è rimasto praticamente immobile.

Siamo di fronte a decenni di mancata crescita. Il male dell’Italia sono l’immobilismo e le riforme mancate. Servono le riforme strutturali, capaci di voltare pagina con le politiche economiche ed industriali del passato, anche perché l’ormai mitizzata crescita degli anni ‘70 ed ’80 del secolo scorso era drogata dalla svalutazione e dall’aumento del debito pubblico. Si tratta di scelte sistemiche non più spendibili, non soltanto per i vincoli imposti da una moneta unica forte e dalla recente previsione costituzionale della parità di bilancio, ma specialmente perché il mercato globale ha permesso l’arrivo di nuovi Paesi capaci di offrire costi di produzione talmente bassi da rendere quelle politiche passate totalmente inutili.

Bisogna capire che senza crescita non c’è benessere e la crescita è ottenibile puntando sul mercato, sul merito e sulla legalità, ma, soprattutto, sulla ricerca e sull’innovazione. Soltanto producendo prodotti innovativi ad elevato contenuto tecnologico, l’Italia potrà tornare ad essere un Paese produttore competitivo ed in grado di garantire, sia una crescita adeguata alla sua economia, che salari adeguati ai propri lavoratori.

Invece, attualmente, l’Italia è un paese bloccato, che non cresce e che impone vincoli soffocanti alla capacità d’impresa e, di conseguenza, all’innovazione ed al benessere.

Le cause di quest’immobilismo sono molteplici. Basti pensare alla permanenza di un sistema economico ancora fortemente corporativo ed oligopolista, ad  una Pubblica amministrazione inefficiente, ad un sistema fiscale esoso sui redditi da lavoro dipendente e sui costi d’impresa, che drena eccessivamente risorse, senza combattere adeguatamente la sua evasione. Tali inefficienze sono risolvibili soltanto con profonde, radicali e condivise riforme strutturali.

Tale stato di fatto spiega l’esistenza d’importanti settori dell’opinione pubblica, nei fatti, accanitamente contrari – anche, se a parole, favorevoli – a qualsiasi iniziativa industriale o di servizi, volta ad innovare profondamente l’utilizzazione del territorio.

Inoltre, nel dibattito contemporaneo ricorre frequentemente l’affermazione che il futuro dell’Italia è legato alla sua industria, mentre si riscontra una forte diffidenza nei confronti dei settori di produzione più moderni. L’Italia risulta sempre meno competitiva nel turismo, non si afferma nei servizi informatici, presenta una debolezza strutturale cronica nei trasporti e nelle comunicazioni. In un Paese che ritiene di avere uno spirito industriale, sovente, questi settori sono considerati distruttivi, o, quanto meno, disgreganti, rispetto all’ordine sociale, oltre che economico, consolidato. Inoltre, l’Italia sembra privilegiare l’industria per i motivi sbagliati, in quanto la ritiene portatrice di stabilità e non di mutamento. In altri termini, si ritiene che, privilegiando l’industria, si possa consolidare lo status quo, senza promuovere alcun cambiamento e perpetuando una tradizione sovente di origine preindustriale.

 

In altri termini, il sistema economico italiano si connota per le sue radici profondamente anti-innovative. Tale peculiarità paralizza qualsiasi decisione pubblica favorevole a un’innovazione di larga portata e che abbia, quindi, bisogno di una pubblica autorizzazione.

Tale tendenza è rafforzata anche dal fatto che spesso non vi è immediata rispondenza tra lo scopo finale dell’innovazione (spesso a lungo termine) e le sue immediate conseguenze. Infatti, negli ultimi trent’anni, si sono privilegiate le scelte a carattere contingente, a discapito delle riforme sistemiche, i cui benefici non sono immediatamente percepibili.

Lo stesso discorso può valere per le riforme legislative capaci d’incidere in maniera profonda su rapporti consolidati. Ogni qual volta il Parlamento ha approvato un testo di riforma, è subito apparso uno stuolo di oppositori che ha agitato le armi (qualche volta improprie) del ricorso alla Corte Costituzionale o del referendum abrogativo.


Germano De Sanctis

Ministero del Lavoro: Risposta ad Interpello n. 5/2014 – Insussistenza dell’obbligo per l’impresa utilizzatrice di lavoro somministrato di comunicare l’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi alla Direzione Territoriale del Lavoro

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Con l’interpello n. 5 del 30-01-2014, rilasciato ai sensi dell’art. 9 D.Lgs. n.r. 124/2004, la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro ha risposto ad un quesito di Confindustria, avente ad oggetto la corretta interpretazione dell’art. 20, comma 5, D.Lgs. n. 276/2003, concernente la disciplina del contratto di somministrazione di lavoro. In particolare, nel quesito in questione, si chiedeva se, nell’ambito del contratto di somministrazione, sussista o meno in capo all’impresa utilizzatrice l’obbligo di comunicare alla Direzione Territoriale del Lavoro, l’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi, ai sensi della normativa vigente in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Il Ministero del Lavoro ha preliminarmente ricordato che l’art. 20, comma 5, lett. c) D.Lgs. n.276/2003 prevede che il contratto di somministrazione è vietato “da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4, D.Lgs. 19-09-1994, n. 626, e successive modifiche”.

Orbene, dal tenore letterale della disposizione non sembra evincersi un obbligo di comunicazione, ovvero di notificazione alla Direzione Territoriale del Lavoro relativamente alla effettuata valutazione dei rischi. Infatti, il suddetto obbligo non risulta contemplato, né nell’ambito dell’ormai abrogato D.Lgs. n. 626/1994, né, tanto meno, alla luce delle disposizioni di cui al successivo e vigente D.Lgs. n. 81/2008.

Paraltro, il Mintero del Lavoro ha sottolineato che, che ai sensi dell’art. 1, comma 4, lett. e), Legge n. 196/1997, previgente alle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 276/2003, la fornitura di lavoro temporaneo risultava vietata nei confronti delle imprese che non fossero in grado di dimostrare alla Direzione del Lavoro di aver effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 sopra citato, quale adempimento di fondamentale importanza ai fini della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori; il che lascia intendere, anche allora, l’inesistenza di obblighi comunicazionali in materia.

Tanto premesso l’interpello in questione ha ritenuto che, sia a legislazione vigente (art. 20, comma 5, D.Lgs. n. 276/2003), che nell’ambito del precedente quadro normativo (art. 1, comma 4, Legge n. 196/1997), non sussiste in capo all’impresa utilizzatrice – che sottoscrive un contratto di somministrazione – alcun obbligo di comunicazione afferente alla valutazione dei rischi nei confronti della Direzione Territoriale del Lavoro, permanendo esclusivamente l’obbligo di dimostrare, in sede di eventuale accesso ispettivo, l’avvenuta effettuazione della predetta valutazione mediante esibizione del documento di valutazione rischi (DVR).

Di conseguenza, il divieto contenuto nella disposizione ex art. 20, comma 5, D.Lgs. n. 276/2003 trova applicazione esclusivamente nei confronti delle imprese che non siano in grado di fornire prova della valutazione dei rischi mediante l’esibizione del relativo DVR, in quanto o non l’abbiano effettuata, ovvero tale valutazione non sia stata rielaborata secondo le previsioni dell’art. 29, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008.

Infine, il Ministero del Lavoro ha richiamato le indicazioni precedentemente fornite con la risposta ad interpello n. 26/2007, secondo la quale il somministratore deve accertare “l’avvenuta predisposizione del documento di valutazione dei rischi da parte dell’utilizzatore, quanto meno per presa visione del documento stesso: non certo nei termini di una assunzione di responsabilità nel merito tecnico della valutazione dei rischi da parte del somministratore (si veda, al riguardo, la Circ. Min. Lav. n. 7/2005), ma almeno per accertare il fatto che la valutazione stessa sia stata effettivamente eseguita”.

 

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