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Don Milani, il sacerdote che difese la vera politica.

Don Lorenzo oggi avrebbe novant’anni, sarebbe uno di quei nostri vecchi (quanti ce ne sono ormai) svegli e curiosi. E invece se n’è andato senza aver raggiunto neppure i quarantacinque, senza arrivare neanche a quel 1968 che le sue parole e i suoi gesti avevano così anticipato e influenzato.

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di Walter Veltroni, da l’Unità del 27 maggio 2014

Don Lorenzo Milani se lo portò via un tumore, ma gli ultimi mesi volle passarli con i suoi ragazzi lì nella canonica di Barbiana, dove insieme avevano scritto quella «Lettera a una professoressa» diventata quasi un libro di scuola, di un’altra scuola.

Barbiana è una frazioncina di Vicchio nel Mugello, tra Firenze e le montagne. Quando don Lorenzo ci finì a fare il prete aveva sì e no duecento abitanti. Un paesetto microscopico e appartato nell’Italia del boom, nell’Italia che aveva smesso di essere rurale e agricola per diventare urbana e industriale. Da quest’angolo quasi sperduto Don Lorenzo Milani seppe guardare avanti e determinare un pezzo del futuro. Del nostro, perché lui non fece neppure in tempo a vederlo.

Oggi, mentre festeggiamo i novant’anni dalla sua nascita e misuriamo la distanza che ci separa dalla sua morte qualcuno si chiederà se la sua storia ha ancora qualcosa da insegnarci, qualcuno penserà che è venuto il momento di lasciarcelo alle spalle. Io penso il contrario. Penso che questo fiorentino colto e irruento, quest’uomo di cui qualcuno ricorda la bontà e qualcun altro il cattivo carattere, è uno di quei padri fondatori di cui l’Italia ha ancora tanto bisogno. Io, quando mi è capitato di partire per una esperienza nuova (che fosse alla fine degli anni Novanta o nel più vicino 2007) son sempre ripartito da Barbiana. Fuori dalla canonica c’è ancora il cartello con su scritto «I care». Che ha a che fare un motto in inglese per quella scuola di ragazzini poverissimi? Tutto: «I care» (difficile tradurlo in italiano, me ne curo, ne prendo cura) è – lo diceva don Lorenzo – il contrario esatto del «me ne frego» dei fascisti, è il segno di una attenzione, di una empatia, di una comunità. Non era il maestro don Milani ad «aver cura» dei ragazzi (quel motto sarebbe stato in questo caso un segno di autoaffermazione), è ognuno di noi a doversi far carico di tutti e di ciascuno.

Dicono che don Lorenzo Milani fosse un maestro esigente, lo era certamente: proprio perché partiva dagli ultimi voleva che questi fossero i primi. Benché il Sessantotto avesse letto e riletto la «Lettera ad un professoressa» (un atto di accusa implacabile alla scuola di classe, che respingeva i poveri, che selezionava a vantaggio dei più ricchi, che escludeva gli ultimi allontanandoli da ogni sapere, e quindi da ogni potere) mi viene il dubbio che l’avesse capita. Il sei politico, il livellamento in basso, il successo facile erano lontani mille miglia dal clima che si respirava nelle aule della canonica o sotto al pergolato in cui si faceva lezione nei mesi di sole. La scuola di Barbiana era insieme dura ed esigente ma era anche collaborativa e amica. Per Don Milani diritto allo studio e affermazione delle pari opportunità, realizzazione del singolo individuo come cittadino e impegno per la pace non furono principi astratti. Erano idee da tradurre nella realtà, parlando al cuore delle persone, con tutte le forze disponibili e (se serviva) pagando in prima persona la coerenza delle proprie posizioni.

Pagina 3 di 3 Don Milani, il sacerdote
che difese la vera politica Di Walter Veltroni 27 maggio 2013 A – A
A novant’anni dalla nascita parole come partecipazione e responsabilità, valori per lui fondamentali, sono anche oggi i cardini di una comunità che vuol essere aperta e inclusiva. Così altrettanto attuale è l’idea della centralità della cultura, e della «politica» intesa nel suo senso più alto, per l’emancipazione degli uomini e per lo sviluppo delle comunità.

Certo, credo che l’Italia di oggi viva problemi (sociali, civili, di tenuta della democrazia) apparentemente molto lontani da quelli dell’Italia dei primi anni sessanta in cui la miseria e l’analfabetismo segnavano ancora tanta parte del Paese. Ma credo anche che le questioni dell’oggi non siano meno gravi, anzi forse esse rischiano di essere più drammatiche perché la spinta alla trasformazione di allora appare attenuata, quasi spenta. Abbiamo bisogno di ricominciare e per farlo le parole sono sempre le stesse, quelle indicate a Barbiana da questo sacerdote scomodo e difficile: partecipazione, responsabilità, voglia di cambiare, pari opportunità, comunità. Declinata certo con i modi e le parole di oggi, ma dalla lezione di un maestro esigente e generoso come don Milani non si scappa se non ci si vuole tradire.

Fonte: l’Unità

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Tirocinio retribuito a Londra per neolaureati.

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L’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA – European Medicines Agency), con sede a Londra, offre tirocini retribuiti del valore di 1.350 sterline nette al mese (all’incirca 1.600 euro). L’Agenzia Europea per i Medicinali è un organo della UE con sede a Londra. Il suo compito principale è tutelare e promuovere la sanità pubblica e la salute mediante la valutazione e il controllo dei medicinali per uso umano e veterinario. L’Agenzia Europea per i Medicinali è l’agenzia comunitaria dell’Unione Europea che si occupa della valutazione e del controllo di medicinali umani e veterinari. L’Agenzia è stata fondata nel 1995 con i contributi dell’Unione Europea, dei singoli stati membri e dell’industria farmaceutica, con lo scopo di affiancare il lavoro delle organizzazioni nazionali che si occupano del mercato dei farmaci.
Gli obiettivi che l’Unione Europea si è prefissa con la fondazione dell’EMA sono essenzialmente due: da un lato, la riduzione delle spese burocratiche (si parla di cifre a sei zeri) che ogni anno le case farmaceutiche devono sostenere per l’approvazione dei farmaci nei singoli Stati membri, dall’altro, per ridurre il protezionismo dei singoli Stati volto ad ostacolare l’inserimento sul mercato di farmaci concorrenti ad altri già inseriti nel mercato interno.

EMA Traineeship Programme

Il programma di tirocinio si rivolge a laureati all’inizio della loro carriera professionale. I requisiti richiesti sono:
– essere cittadini EU/EEA;
– aver conseguito una laurea alla data di scadenza per l’invio delle domande;
– avere una buona conoscenza della lingua inglese più la conoscenza di una seconda lingua ufficiale dell’Unione Europea.

Oltre a dare una comprensione dei compiti dell’Agenzia e del suo ruolo nell’ambito delle attività dell’Unione Europea, il programma fornirà ai tirocinanti un’esperienza professionale in un ambiente di lavoro a tutti gli effetti, altamente qualificato e riconosciuto in tutta l’Area Economica Europea.
I profili ricercati sono di vario genere: dai laureati in discipline core per l’attività dell’EMA (medicina, farmacia, chimica, biologia, veterinaria), a giovani con laurea nel settore delle comunicazioni, in scienze dell’informazione, relazioni pubbliche, risorse umane, giurisprudenza, fino a laureati in materie umanistiche specializzati in biblioteconomia.

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Per proporre la propria candidatura è necessario compilare l’apposito modulo disponibile sulla pagina dedicata al programma tirocini ed inviarlo all’indirizzo di traineeship@ema.europa.eu entro e non oltre il 15 giugno 2014. Per coloro che verranno selezionati, il Programma avrà inizio il 1 ottobre.

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L’UNIVERSITÀ CHE PARLA ALLE AULE VUOTE.

In Italia è crollo dei giovani laureati. Persi in un anno 34.000 neo dottori. E il trend per il futuro è in peggioramento.

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di Michele De Sanctis

Crolla il numero dei laureati: il bilancio vede quasi 18mila laureati triennali in meno – il 10 % – e circa 34mila laureati complessivi in meno, cioè l’11,5 % in un solo anno. A diffondere questi dati è il Cineca, il consorzio di università italiane che offre supporto alle attività della comunità scientifica tramite il cd. supercalcolo, realizza sistemi gestionali per le amministrazioni universitarie e il MIUR e, inoltre, progetta e sviluppa sistemi informativi per imprese, sanità e P.A. .

Il calo riguarda soprattutto le donne e l’area più colpita è quella sanitaria, medicina compresa, che accusa un crollo del 16 % sulle lauree brevi e del 13 % sul totale. L’area scientifica, invece, è quella che risente in misura minore di questa flessione: meno 8 %. Oltre alla discrepanza tra settori di studio, come appena accennato, si è resa evidente anche una certa differenza di genere: quasi 12mila laureati triennali in meno sui 18mila totali sono, infatti, donne. Ciò denoterebbe una propensione maggiore da parte del sesso maschile a voler conseguire il tanto agognato titolo di studio, ma è, altresì, conseguenza delle difficoltà che le donne, soprattutto nel meridione, incontrano nel momento in cui si approcciano al mercato del lavoro. L’Italia perde continuamente terreno rispetto agli altri Paesi europei, superata perfino da Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Portogallo. Con il suo 22,4 % di giovani laureati, l’Italia è in coda alla classifica delle 28 nazioni dell’Unione Europea. Ancora più allarmante allo stato attuale è, poi, il distacco con la media del vecchio continente che è al suo massimo storico dal 2002, quando ci separavano solo 10,4 punti, a fronte dei 14 del 2012/2013.

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Il nostro Paese, così, rischia di perdere terreno rispetto ai partner europei per quota di 30/34enni laureati, obiettivo principale della strategia Education and Training 2020, che mira a trasformare l’economia europea nella più competitiva e dinamica del mondo, poiché basata sulla conoscenza, e in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e, contestualmente, una maggiore coesione sociale. Come ho già scritto lo scorso 15 febbraio, ET 2020 è obiettivo irrinunciabile, vista l’emergenza rappresentata dalle attuali dinamiche del mercato del lavoro.

Se analizziamo i dati dei nostri partner, per esempio, scopriamo che in Francia la percentuale di 30/34enni in possesso della laurea è pari al 44 %, cioè oltre 20 punti in più rispetto a noi. In Germania si attestano intorno al 33,1 %, oltre un punto in più rispetto all’anno precedente. L’Italia procede, invece, a rilento: appena 0,7 punti in più in un anno. Mentre nel Regno Unito si viaggia sull’invidiabile quota del 47,1 %.

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E in futuro, visto il crollo degli immatricolati degli ultimi anni, il solco con gli altri Stati europei potrebbe diventare addirittura incolmabile. Gli studenti, ormai da tempo, chiedono di cancellare il numero chiuso in ingresso e di mettere in cantiere interventi concreti sul fronte del diritto allo studio. Il nostro Paese, infatti, è stato penalizzato dalle pessime politiche in materia di istruzione e formazione degli ultimi vent’anni, dalla famigerata scuola ‘delle tre i’ col ministro Moratti e il premier Berlusconi fino alla disastrosa riforma Gelmini, la quale, con la sua teoria sul tunnel di neutrini che partiva dal Gran Sasso per arrivare a Ginevra, ha solo rappresentato la scuola dell’unica ‘i’ possibile all’epoca del ‘bunga bunga’, quella dell’ignoranza. La crisi, poi, ha introdotto un concetto perverso, veicolato dal peggior populismo di sempre, che si fa strada tra i più disperati di noi, tra chi ha rinunciato a credere in un futuro migliore: quello che la laurea non serva a nulla perché costa soldi e non porta pane a casa. Un concetto che al nord, quando la Lega spopolava, aveva già attecchito qualche anno fa. Lavorare e guadagnare subito. Efficace, nel breve periodo, ma fondamentalmente sbagliato. Lavorare senza aver studiato, senza quindi un particolare tipo di specializzazione, ha, infatti, reso vulnerabile un’intera classe di lavoratori, manodopera non qualificata, che con l’arrivo della crisi è rimasta priva di lavoro e per lo più incapace di ‘riciclarsi’.

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A dimostrazione di quanto affermo, ci sono i dati diffusi da AlmaLaurea lo scorso 10 marzo, che evidenziano come ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, siano proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici: tra il 2007 e il 2013 il differenziale tra tasso di disoccupazione dei neolaureati e neodiplomati è passato dal 2,6 % all’11,9. La laurea, quindi, anche se destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, è ancora un importante strumento nella ricerca di un lavoro.

C’è chi è convinto che con i libri non si mangia, la gente ha fame, si dice. Vero, ma non leggere e non studiare, diversamente, neppure aiuta a trovare lavoro prima. Se non Italia all’estero: sono stati circa 68.000 gli italiani che nel 2012 si sono trasferiti fuori dai confini del belpaese, in posti dove, peraltro, i lavori migliori non sono certo destinati agli individui meno qualificati.

Non si possono trascurare questi dati così preoccupanti. L’istruzione d’ogni ordine e grado è una priorità. Sempre. E poi è anche una questione di dignità personale. Qualsiasi sacrificio vale la pena per l’istruzione. Un solo euro dedicato alla formazione vale più di un lingotto d’oro ed è l’investimento migliore che si possa fare. Vale per lo Stato come per i cittadini.

La lettura rende l’uomo completo, diceva Bacon. La capacità di ragionare con la propria testa, di avere gli strumenti per farlo non ha davvero prezzo e un Paese che rinuncia alla propria conoscenza è un Paese che ha deciso di morire.

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I PAESI IN CUI I GIOVANI VIVONO MEGLIO.

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di Michele De Sanctis

Attualmente i giovani, non solo in Italia, sono spesso al centro dell’attenzione generale soprattutto a causa della situazione economica e sociale che stiamo attraversando e, nel nostro Paese in particolare, per via della ‘fuga di cervelli’, un fenomeno purtroppo sempre più persistente.
Tuttavia, si parla poco di salute pubblica in riferimento a questa categoria. È come se gli unici problemi dei giovani fossero di natura economica. Ma come stanno fisicamente? È l’interrogativo a cui cerca di rispondere l’‘Indice del benessere giovanile’, di cui si è avvalso il website newyorkese Business Insider per stilare la classifica “Qual è il Paese in cui la gioventù vive più beata?”. Si tratta di una ricerca condotta su trenta Paesi realizzata dalla ‘International youth foundation’, il ‘Center for strategic and international studies’ e l’azienda ‘Hilton Worldwide’.
Nel parlare di “salute pubblica”, infatti, non si possono non calcolare tutte quelle persone, i giovani per l’appunto, che si trovano a metà tra le due fasce generazionali estreme ovvero, i bambini e gli anziani, cui normalmente ci si riferisce quando si parla di salute pubblica.
Per creare l’indice, i ricercatori hanno usato 40 indicatori tra cui “la partecipazione alla vita sociale e politica, le opportunità economiche, l’istruzione, la sanità, l’accesso alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la sicurezza”.

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Secondo questo studio, i primi posti dell’elenco sono occupati da Australia (1°), Svezia (2°) e Corea del Sud (3°). Agli ultimi posti troviamo, invece: Tanzania, Uganda e Nigeria. Non si tratta, tuttavia, dei primi trenta Paesi al mondo, ma solo di quelli presi in esame dai ricercatori dell”International youth foundation’ e che per “giovani” è stata intesa la fascia di popolazione compresa tra 12 e 24 anni. Va considerato, tra l’altro, che le prime nove posizioni sono occupate dai Paesi più ricchi della lista, ad eccezione della sola Russia e che, sebbene nei Paesi ad alto reddito ci siano tassi di mortalità giovanile più bassi, ad essere più diffusi in questi posti sono, paradossalmente, stress ed autolesionismo.

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Nonostante i limiti dell’analisi qui riportata, i dati analizzati sono comunque interessanti per tutti in quanto, lo si legge nel rapporto, “le società che sono inclusive nei confronti dei giovani sono anche quelle che hanno maggiori probabilità di crescere ed arricchirsi, mentre l’esclusione aumenta il rischio di recessione, criminalità e violenza diffusa”.
Uno spunto di riflessione per i Governi dei Paesi che occupano le ultime posizioni e anche per quelli non inclusi nella ricerca, al fine di procedere ad una revisione di alcuni capisaldi del proprio welfare.

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