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Giù lo spread, Piazza Affari festeggia E Draghi prepara «interventi mirati».

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di Stefania Tamburello, da Corriere della Sera del 27 maggio 2014

ROMA – La Borsa di Milano prende il volo e segna un guadagno del 3,61%. Lo spread tra i rendimenti dei Btp decennali e i Bund tedeschi di uguale durata si restringe di oltre 20 punti percentuali riportandosi su quota 156 con i tassi dei titoli italiani di nuovo sotto al 3%. Comunque la si voglia leggere, i mercati hanno premiato la vittoria del Pd e del suo leader Matteo Renzi che alle elezioni europee ha doppiato il suo concorrente più prossimo, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. L’affermazione del partito che guida il governo e del presidente del Consiglio delinea infatti quell’orizzonte di stabilità politica che gli investitori mettono al primo posto delle loro valutazioni. In realtà tutte le Borse del Continente – in una giornata che si è svolta peraltro a passo ridotto per la chiusura di Wall Street e delle contrattazioni londinesi – hanno reagito positivamente all’esito del voto europeo seppure in misura minore di Piazza Affari, segnalando così come abbia prevalso nel giudizio degli operatori la stabilità dei governi dei Paesi più in difficoltà rispetto alla generale avanzata delle forze populiste. Perfino in Francia, dove il partito del presidente Hollande ha preso appena il 14%, la Borsa ha segnato un segnale positivo (0,75%). Anche l’euro si è mosso poco per le stesse ragioni chiudendo a 1,362 contro il dollaro.

Credito debole, economia debole

L’attenzione dei mercati del resto è concentrata – oltre che sui possibili equilibri politici all’indomani delle elezioni – soprattutto sull’attesa delle nuove misure espansive che la Bce, la Banca centrale europea, potrebbe decidere la prossima settimana, nella riunione del Consiglio direttivo del 5 giugno. Ed è un’attesa che ieri il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi, ha rafforzato parlando all’incontro dei banchieri centrali che si svolge a Sintra in Portogallo.
«Non permetteremo che l’inflazione resti troppo bassa troppo a lungo», ha ribadito Draghi sottolineando come anche il rafforzamento dell’euro contribuisca a raffreddare i prezzi e sia quindi da tenere sotto stretta osservazione. Bisogna evitare, ha spiegato, l’avvio «di una spirale negativa tra bassa inflazione, attese di inflazione e credito in calo, soprattutto nei Paesi in difficoltà» che «potrebbe indurre le famiglie e le imprese a rinviare le spese». La situazione economica «è complessa» con «una ripresa in lento consolidamento» e con problemi di mancanza di credito che penalizza soprattutto le piccole e medie imprese, ha aggiunto il banchiere centrale italiano citando in particolare i casi di Spagna e Portogallo. «La debolezza del credito contribuisce alla debolezza dell’economia» ha quindi affermato rilevando che gli interventi all’esame della Bce saranno «mirati» per allentare tali vincoli.
Le diverse opzioni a disposizione saranno esaminate tutte con attenzione dai governatori dell’Eurotower, sia quelle convenzionali come il taglio dei tassi di interesse sia quelle straordinarie come l’acquisto di titoli pubblici o privati (quantitative easing ) che però saranno prese in considerazione solo nel caso di una «troppo prolungata dinamica al ribasso dell’inflazione». Quanto alle misure «mirate» sul credito, la Bce potrebbe fornire «una soluzione-ponte», come l’acquisto di prestiti cartolarizzati o la concessione alle banche di prestiti a lungo termine, una nuova Ltro, condizionata però all’erogazione di finanziamenti all’economia. Sarebbe una misura «molto importante», ha commentato a riguardo il consigliere delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, per il quale sarebbero opportuni interventi «che vanno in direzione di un deprezzamento dell’euro».

Quanto alle «mirate» sul credito, la Bce potrebbe fornire «una soluzione-ponte», come l’acquisto di prestiti cartolarizzati o la concessione alle banche di prestiti a lungo termine.

Significativa infine a Sintra l’apertura di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, ai paesi che s’impegnano in riforme strutturali per la crescita e che – ha detto – «potrebbero ottenere in cambio maggior flessibilità sui deficit».

Fonte: Corriere della Sera

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PERCHÉ NON POSSIAMO USCIRE DALL’EUROZONA.

Adesso che la campagna elettorale è terminata, possiamo finalmente tornare a parlare d’Europa. Con serenità. Senza timore di essere stanati dalle nostre abitazioni per aver espresso le proprie idee o sottoposti a un tribunale popolare. Al bando, dunque, populismi e fascismi: chi non è d’accordo lo faccia con modi urbani, diversamente è pregato di abbandonare luoghi come questo, dove il pensiero unilaterale non è gradito. Basta con gli slogan: adesso parliamo di sostanza, che è quello che ci riesce meglio in questo blog. Parliamo di economia.

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La campagna per il rinnovo del Parlamento Europeo ha visto la crescita esponenziale, in ogni angolo del Vecchio Continente, di movimenti euroscettici, per lo più di destra, che, in alcuni casi, come quello del Fronte Nazionale in Francia, hanno provocato un vero e proprio terremoto politico. Interno, tuttavia. La vittoria della destra in Francia altro effetto non produrrà se non quello di diluire l’influenza francese nell’Europarlamento, visto il risultato finale che, comunque, vede il PPE al primo posto, seguito dal PSE.

In Italia, poi, abbiamo assistito ad una clamorosa debacle di un Movimento, il cui programma principale era ‘mandiamoli a casa’, senza, peraltro, proporre nulla di concreto in vista dell’elezione dei nuovi eurodeputati: si concorreva per questo, perché le politiche ci sono già state l’anno scorso. E non credo che votare ogni 6-12 mesi, finché a vincere non saranno loro, sia nelle corde dell’elettorato italiano, fin troppo tendente all’astensionismo, come dimostrato anche domenica scorsa.

L’euroscetticismo, nutrito dalla crisi e cresciuto negli anni dell’austerity, è tuttavia stato il protagonista indiscusso di quest’ultimo mese. È innegabile: a prescindere dagli esiti elettorali, se n’è parlato troppo perché non se ne faccia un approfondimento. Serenamente, perché è così che ci sentiamo. Sereni. Lo eravamo anche prima, in realtà, quando la serenità ci veniva dalla nostra conoscenza, dai tomi studiati negli anni dell’università, dalla nostra capacità di raziocinio: lo siamo ancor di più adesso.

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La realtà è che allo stato attuale separarsi dall’euro sarebbe impossibile. O quasi. Sicuramente sarebbe un’operazione ad alto rischio. Soprattutto lo sarebbe se avvenisse in seguito alla decisione unilaterale di uno Stato membro, magari in netto contrasto con gli altri partner dell’Eurozona.

Ad alto rischio, in primis, perché non esistono precedenti (l’Argentina, che non se la passa granché bene attualmente, non può essere elevata a modello, perché quella dell’euro è un’esperienza unica al mondo) ed è ad alto rischio anche perché le questioni legate al debito pubblico si verrebbero a risolvere sulla base della sola forza contrattuale delle parti. Un aspetto che non giocherebbe certo a favore dei cd. PIIGS e nemmeno della Francia, sotto certi aspetti più mediterranea che mitteleuropea, qualora decidessero di andarsene per la loro strada. La forza contrattuale sarebbe il vero arbitro, perché i Trattati europei prevedono una procedura di uscita dalla UE, ma non dalla sola Unione monetaria. E in assenza di una norma, le parti si farebbero le regole da sé, un po’ come accade con i contratti innominati. Solo che in questo caso, il contraente debole sarebbe costretto a subire le condizioni dettate dagli altri, quelli che ancora avrebbero una moneta forte, l’euro. Il problema non è, tuttavia, tanto di carattere giuridico, quanto piuttosto economico e soprattutto finanziario. Se è difficile stimare le possibili ricadute in termini di svalutazione ed inflazione derivanti dall’introduzione di una nuova moneta, è, altresì, possibile individuare alcuni punti fermi con cui lo Stato, chiamiamolo pure dissenziente, sarebbe obbligato a fare i conti. Il pericolo maggiore sarebbe quello che si inneschi un effetto domino di fallimenti bancari e societari di cui si potrebbe molto rapidamente (e molto facilmente) perdere il controllo. E con una certa approssimazione alla realtà, potremmo stimare che il valore dei titoli di Stato – oltreché di gran parte delle azioni e delle obbligazioni pubbliche – diminuirebbe.

Per i più scettici, quelli del mantra disinformazione-casta-complotto, nel precisare che BlogNomos non è pagato da alcun partito, rinvio a un buon manuale di politica economica. E serve, perché questo è quanto accadrebbe con l’abbandono dell’Eurozona anche a noi italiani. Non è fantaeconomia.

Al primo annuncio di uscita di uno dei PIIGS dall’euro, infatti, con ragionevole sicurezza si assisterebbe a una massiccia quanto repentina fuga di capitali dal Paese e, nel contempo, ad una svendita di titoli di Stato. Ciò comporterebbe come primo ed immediato effetto la riduzione del valore di Bot e Btp, nel caso specifico italiano. Traduco: se un risparmiatore, subito dopo l’annuncio dell’uscita dall’euro e prima della loro scadenza, decidesse di vendere i titoli in suo possesso, andrebbe incontro a perdite sicure, perché ne otterrebbe un corrispettivo inferiore al prezzo originariamente pagato, mentre se scegliesse di portarli a scadenza, se li vedrebbe ripagati in una nuova valuta, ma più debole rispetto all’euro con cui li aveva acquistati, quindi perderebbe comunque. Non solo, una ridenominazione del debito pubblico e dei titoli di Stato che lo rappresentano in una nuova valuta costituirebbe quello che si dice un “credit event”, cioè una situazione che, a giudizio degli organismi internazionali, farebbe scattare il default sul debito del Paese. Dire che i finanzieri europei sono corrotti non impedirà il passaggio successivo: la temporanea esclusione del Paese in questione dai mercati finanziari internazionali. Né quello ancora successivo: un infinito strascico di contenziosi giudiziari.

Il default del debito e la caduta del valore dei titoli avrebbero poi un impatto immediato anche sulle (tanto odiate) banche. Quelle italiane, per esempio, hanno in portafoglio circa 400 miliardi di Bot e Btp. In più, gli ineludibili fallimenti aziendali, almeno in prima istanza, sarebbero destinati ad aumentare, caricando perciò i bilanci bancari, già in grave difficoltà come abbiamo visto, di altri crediti inesigibili. Per tenere in piedi gli istituti di credito si renderebbero allora necessari massicci interventi di ricapitalizzazione con denaro pubblico, quando non vere e proprie nazionalizzazioni. Traduco: il debito delle banche diventa nostro davvero, perché saremmo costretti a riprendercele con tutti i loro debiti. Tra l’altro, anche se su altri blog non c’è scritto, è importante sapere che le banche utilizzano spesso i titoli di stato come garanzie di prestiti a brevissima durata chiesti ad altre banche. Non è illegale. Trattasi, in realtà, di una pratica comune che serve alle banche per far fronte ad immediate esigenze di liquidità, incrociando le esigenze degli istituti che hanno bisogno di soldi e di quelli che ne hanno in eccesso. Ne potete trovare riscontro su qualunque manuale di diritto bancario e dell’intermediazione finanziaria. Compromettere queste operazioni, rendendo inutilizzabili come garanzia i titoli di Stato, sarebbe un ulteriore colpo per le banche di quel Paese e il colpo di grazia per tutti i suoi cittadini, dal momento che l’effetto sarebbe quello di un’ulteriore e significativa riduzione dei finanziamenti a imprese e famiglie.

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Gli euroscettici hanno un altro mantra, trito e ritrito come l’altro, secondo cui l’euro penalizza l’import dei PIIGS. Vero, ma solo in parte. Ci potrebbe essere, infatti, un certo recupero della competitività del Paese dissenziente, favorito da una valuta più debole. Sarebbe tuttavia maggiore questo recupero se io stessi scrivendo nel 1990, ma nel 2014 quasi tutte le produzioni sono strutturate su filiere globali. Al giorno d’oggi, una moneta debole sarebbe un vantaggio da un lato e uno svantaggio dall’altro. Perché la componentistica di un prodotto finale è quasi sempre il risultato di un assemblaggio di prodotti importati da altri mercati. Puntare sulle svalutazioni per competere sui mercati internazionali è un gioco che può fruttare qualcosa nel breve periodo, ma che diviene controproducente nel lungo. In primo luogo perché i competitor stranieri, anche quelli europei, metterebbero di certo in atto contromisure per contrastare il ‘nuovo’ Paese dalla valuta debole (come ad esempio delocalizzazioni della produzione). E lo farebbero perché è così che va il libero mercato. Nell’ipotesi di un’uscita dall’euro, per un tempo più o meno lungo le aziende si troverebbero, peraltro, ad operare con condizioni creditizie più difficili, tra banche in profonda difficoltà nel fornire finanziamenti e mercati che pretenderebbero interessi sempre più alti per concedere prestiti a fronte della sottoscrizione di nuove obbligazioni.

Non scordiamoci, poi, delle obbligazioni emesse sotto il diritto di un altro Stato (per esempio Germania, Regno Unito o USA). È una prassi consolidata tra le grandi aziende che si rivolgono ai mercati internazionali. Preciso che nemmeno questo è illegale. Se uno dei PIIGS (e ricordiamo che la seconda ‘I’ è stata introdotta per noi italiani) optasse per il ritorno alla valuta nazionale, questi titoli, in quanto regolati da un’altra giurisdizione, non potrebbero essere coinvolti nell’automatica conversione alla stessa. Rimborsi e interessi andrebbero, pertanto, regolati in ogni caso nella valuta d’origine dell’obbligazione (euro, sterlina, dollaro) a fronte di un ricavo realizzato per lo più con la nuova – e più debole – moneta. Nel nostro caso specifico ammonta a circa il 25% il valore delle obbligazioni italiane emesse sotto diritto estero, ce lo rivelava qualche tempo fa Il Sole 24 Ore. Tra le percentuali maggiori in Europa. Conseguentemente, anche per alcuni grandi industrie potrebbe rendersi indispensabile un sostegno pubblico per evitare il fallimento.

Piaccia o non piaccia, il livello di interconnessione dei mercati finanziari e creditizi dell’area euro è talmente stretto da non essere paragonabile a nessuna situazione verificatasi in precedenza, in un’era come questa, in cui i movimenti di capitale non hanno né limiti né confini e sono effettuati in tempo reale.

Ma non disperate. Non andrà male a tutti. A qualcuno converrà. Non vorrei essere troppo perfido, dicendo che chi promuove oggi l’uscita dall’euro, ne trarrà profitto domani, perché non ne ho prova e, dunque, mi astengo, ma l’uscita da Eurolandia converrà di sicuro a chi, pur risiedendo in Italia, percepisce grandi rendite da investimenti esteri e a chi già dispone di ingenti patrimoni investiti in prodotti finanziari non italiani (titoli di Stato tedesci, azioni inglesi o a stelle e strisce). Sì, loro continuerebbero a percepire rendite e interessi in euro, o altra valuta estera, contando, fra l’altro, su un cambio più favorevole. Vivendo in un Paese con moneta svalutata avrebbero sicuramente un maggior potere d’acquisto. Lo stesso non accadrà per noi che viviamo di uno stipendio che sarà pagato con la nuova moneta e che, quindi, subirà a sua volta una notevole svalutazione.

Per chi poi valuta un abbandono anche dell’UE, aggiungo solo una parola: dogana. Anche per le merci provenienti dalla vicina Francia. Il che sarebbe non solo la fine della produzione interna e del relativo import, per le ragioni sopra richiamate, ma anche per i nostri piccoli acquisti quotidiani. Addio e-commerce, per esempio.

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In conclusione, è vero, l’architettura su cui si regge l’euro presenta notevoli criticità, che, in ultima istanza, danneggiano soprattutto i Paesi più deboli. Ma il processo di integrazione si è ormai spinto troppo in là per consentire una retromarcia, di nessun tipo, come, invece, domenica sera annunciava la signora Le Pen e come più volte abbiamo sentito e letto durante quest’ultima campagna elettorale. E sebbene non possiamo scommettere sulla tenuta dell’euro, possiamo lavorare tutti insieme per farcela. Con meno austerity, probabilmente, perché ha soltanto fatto crescere il bisogno di rivalsa dei più disperati, alimentando le false soluzioni di una destra già vecchia nella propria retorica. Bisogna lavorare da subito per il bene comune, perché tra tutte le strade percorribili, questa dell’uscita dall’euro sarebbe la più pericolosa. Pericolosa per noi cittadini dell’area mediterranea, dell’Irlanda e della Francia, prima che per chiunque altro.

MDS
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DAL 13 GIUGNO CAMBIANO LE REGOLE PER GLI ACQUISTI A DISTANZA.

E-commerce e televendite: maggiori tutele per il consumatore. Dal prossimo 13 giugno cambiano le regole. Maggiore trasparenza e diritti per gli chi effettua acquisti in remote shopping, sia al telefono che on line. Le nuove regole riguarderanno tutte le transazioni al di fuori dei locali commerciali. Tra le principali novità, si allunga dagli attuali 10 giorni di tempo a 14 il termine per esercitare il diritto di recesso; inoltre i contratti non potranno più essere attivati solo col consenso telefonico e stop alle commissioni extra. Insomma, stavolta l’e-commerce cambia davvero pelle.

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di Michele De Sanctis

13 giugno 2014: sarà questa l’ora X, in cui diverranno operative le nuove regole per il commercio elettronico dettate dalla direttiva europea entrata in vigore lo scorso 26 marzo (Dir. 2011/83/UE). Una direttiva emanata con la finalità di conferire regole universali e omogenee a tutti i Paesi UE e che offrirà maggiori garanzie su tutti i contratti a distanza dal controvalore superiore ai 50 €.

L’iniziativa si è resa necessaria dal momento che il numero di coloro i quali si dedicano allo shopping online cresce di anno in anno. In Italia – secondo un’indagine condotta da Human Highway per Netcomm – su 30,5 milioni di utenti di Internet (con età superiore ai 15 anni), sono 16,2 milioni quelli che, negli ultimi 3 mesi, hanno fatto acquisti online, mentre ammontano a quasi 11 milioni gli acquirenti abituali. Cifre che rappresentano un giro di affari di circa 14 miliardi di euro. E il dato non stupisce, visto che l’acquisto on line oltreché più comodo è anche più economico rispetto allo shopping nei negozi tradizionali, riuscendo a trovare, peraltro, una maggiore offerta di prodotti che per ragioni di spazio o di bilancio, il negoziante sotto casa non può avere. Vero è che, nonostante questi numeri, l’Italia sia ancora il fanalino di coda, rispetto al resto d’Europa, in termini di numero di imprese che vendono oltre frontiera, tramite e-commerce. Solo il 4%. Inoltre, come Paese siamo ancora indietro in termini di fatturato complessivo dell’e-commerce. La nuova direttiva è, perciò, di fondamentale importanza, soprattutto considerando che oggi abbiamo un saldo negativo della bilancia commerciale digitale per circa un miliardo di euro e quel fatturato di 14 miliardi è ancora troppo poco. Fiducia, trasparenza e omogeneità sono, dunque, premesse importanti per lo sviluppo del commercio elettronico. Ma la direttiva europea si pone il fine di creare queste premesse di fiducia, trasparenza e sicurezza non solo per permettere lo sviluppo del commercio elettronico transfrontaliero dei singoli Paesi UE. L’incremento del commercio transfrontaliero potrebbe, infatti, portare ad una crescita del PIL europeo, divenendo vero propellente dell’economia del Vecchio Continente.

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Vediamo meglio le novità che saranno valide per tutti tra meno di un mese. L’acquirente digitale avrà più tempo a disposizione per il reso della merce. Se non sarete soddisfatti, avrete ben 14 giorni, a decorrere dalla consegna, contro i precedenti 10, per ripensarci. Inoltre, dopo aver comunicato, entro questi 14 giorni, la volontà di restituire la merce, avrete altri 14 giorni a disposizione per rispedire i prodotti acquistati al negoziante. L’elemento più rilevante, tuttavia, è che nel momento in cui dichiarerete di aver spedito la merce, il negoziante sarà obbligato, nei 14 giorni successivi al ricevimento della vostra comunicazione, a restituire la somma (attualmente di tempo a disposizione ne ha il doppio: dovete aspettare un mese per riavere i vostri soldi). Ciò, potrebbe, in verità, creare un certo malcontento tra i venditori, poiché il merchant è costretto a rimborsare il dovuto anche se i prodotti acquistati non gli sono stati ancora recapitati. Ma la direttiva è tutta orientata alla salvaguardia del consumatore.
Altro cambiamento importante è la maggiore trasparenza delle spese: il negoziante è obbligato, infatti, a dichiarare i costi che il consumatore dovrà sostenere in caso di restituzione della merce. E se non lo fa, sarà lui a dover sostenere i costi di restituzione. Inoltre, in fase pre-contrattuale è richiesta la massima trasparenza con riferimento alla descrizione di beni e servizi, all’identità del venditore e al prezzo del bene. Devono, cioè, essere chiaramente indicate tutte le voci di spesa (comprese le imposte), oltre alle diverse modalità di pagamento. Tutte informazioni, queste, che, che se dovessero mancare, darebbero al consumatore la facoltà di esercitare la propria rivalsa sul merchant.

Per chi acquista contenuti digitali sono previste informazioni più trasparenti: il venditore dovrà chiarire eventuali limiti di compatibilità con i dispositivi hardware e software e gli eventuali limiti di riproducibilità dei contenuti stessi.

Per quanto riguarda oroscopi, ricette, suonerie e giochi elettronici, non potranno più essere pubblicizzati come ‘gratis’, salvo poi nascondere costosi abbonamenti mensili o settimanali. Per contro, noi consumatori dovremo confermare esplicitamente di aver compreso che l’offerta è a pagamento.

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Cambiano, infine, le regole anche per i contratti formulati a distanza, quindi per tutte le vendite fatte al di fuori da un punto commerciale, come le vendite a catalogo e quelle telefoniche (pensiamo alla moltitudine di televendite proposte ogni giorno via etere). In entrambi i casi, la vendita si perfeziona solo nel caso in cui ci sia una conferma contrattuale della proposta commerciale formulata dal venditore. Per capirci, prima di spedire il prodotto o abilitare il servizio, il venditore dovrà mandare il contratto in forma cartacea, perché sia firmato dal cliente. Soltanto allora la vendita potrà intendersi conclusa e produrre effetti giuridici. Nondimeno, sebbene ciò tuteli maggiormente il consumatore, è, altresì, vero che c’è il serio rischio di assistere alla morte immediata di tutte le vendite a distanza. Per arginare tale rischio sarà, quindi, necessario introdurre meccanismi che accelerino il processo di vendita, quali meccanismi di registrazione digitale certificata, firma elettronica o identità elettronica. A mio avviso, ciò non risparmierà, comunque, i canali dedicati allo shopping se non dalla chiusura, da un netto ridimensionamento, a meno che gli strumenti adottati non siano di facile ed intuitivo utilizzo anche per chi non è affatto avvezzo al PC.

Infine, anche l’aspetto sanzionatorio è stato intensificato. Il commerciante che non rispetterà le nuove regole andrà incontro a una sanzione che oscillerà da un minimo di 5mila euro (ovvero 50mila, in caso di gravi violazioni) a un massimo di 5 milioni.

Quindi più trasparenza e sicurezza: sembrano proprio queste le parole chiave per le nuove regole dell’e-commerce. E se la speranza è che si possa ottenere un maggiore aumento negli acquisti online, noi staremo a vedere cosa accadrà nei prossimi mesi.

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Stiglitz: euro unico grande errore dell’Ue, non ha funzionato. Esperti Troika da bocciare

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da Il Sole 24 Ore del 6 maggio 2014

L’Unione europea «ha fatto un unico grande errore: l’euro, che non ha funzionato».Non ha usato giri di parole il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz nel corso della sua lecture “Can the euro be saved? An analysis of the future of the currency» alla Luiss. Secondo l’economista «ora non bisogna abbandonare l’euro ma andare avanti». Perché l’euro non ha funzionato e come si puo correggere il tiro? I problemi, per Stiglitz «non riguardano le strutture dell’Italia e di ciascun singolo Paese» ma il problema fondamentale è «la struttura dell’Eurozona e le politiche perseguite».

Stiglitz: austerità non ha funzionato

Non solo. Secondo il premio Nobel, anche se «in molte parti d’Europa oggi si celebra la fine della recessione, l’inizio della crescita non significa che ci sia una ripresa solida, non vuol dire che la politica dell’austerità abbia funzionato». Anzi, l’Europa – ha aggiunto – «ha perso mezzo decennio o quasi un decennio». Per Il professore della Columbia University «un ulteriore rigore di bilancio non può prevenire un’altra crisi: l’austerità non ha funzionato. Ora bisogna concentrarsi sulla riforma dell’Eurozona e delle politiche dell’Eurozona».

«Esperti Troika da bocciare»

A destare allarme è soprattutto la disoccupazione giovanile che in alcuni paesi come la Spagna e la Grecia sfiora cifre del 50 e del 60%. Nel mirino finiscono le ricette economiche della Troika (l’organismo di controllo informale formato dai rappresentanti della Commissione Ue, Bce e Fmi).«Se i miei studenti avessero presentato analisi come quelle della Troika per i Paesi europei li avrei bocciati» ha detto l’economista Usa. «La Troika – ha aggiunto Stiglitz – ha ripetutamente prodotto previsioni errate e piuttosto che ammetterlo e riconoscere i suoi sbagli ha sempre incolpato le sue vittime».

«A Eurozona serve unione fiscale e cambio mandato Bce»

Per uscire dalla crisi all’Eurozona la ricetta di Stiglitz si basa su«un quadro fiscale unico, un sistema finanziario comune con l’unione bancaria, e un’armonizzazione delle aliquote senza una corsa verso il basso nella tassazione alle imprese». Ma soprattutto, aggiunge l’economista, «serve una modifica nel mandato della Bce che non deve concentrarsi solo sull’inflazione ma su crescita e occupazione«. Stiglitz non ha escluso l’idea di «una ristrutturazione del debito», ma va fatta in fretta». Quello della Grecia è il modello di «ciò che non si dovrebbe fare: tanto che oggi il rapporto debito/Pil di Atene è più alto che nel 2010».

Fonte: Il Sole 24 Ore

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L’Europa prepara le banche all’Apocalisse: in Italia dovranno poter reggere un crollo di Borsa del 58%, con il Pil a -6% e la disoccupazione alle stelle.

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di Enrico Marro da Il Sole 24 Ore del 30 aprile 2014

Negli stress test che l’Autorità bancaria europea effettuerà sugli istituti di credito (dopo la verifica degli attivi da parte della Bce) c’è anche uno scenario avverso che prevede una nuova crisi finanziaria mondiale. Con pesanti ripercussioni anche per il nostro Paese. Vediamo quali.

1. Scenario apocalittico per gli stress test / Spread alle stelle, i BTp tornano al 6%.

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Alla base dello scenario peggiore ipotizzato dall’Eba c’è un incremento di 100 punti base dei T-Bond americani, con una graduale accelerazione sino a 250 punti base entro la fine di quest’anno. La conseguenza è una vampata di avversione del rischio, che porta a un’impennata dei rendimenti dei bond e a un deterioramento della qualità del credito. Nell’ipotesi di un incremento del rendimento dei T-Bond americani di 150 punti base, i tassi dei BTp salirebbero quest’anno al 5,9% (contro il 3,9% dello scenario base), al 5,6% nel 2015 (da 4,1%) e al 5,8% nel 2016 (da 4,3%). Lo spread con i Bund tornerebbe a circa 300 punti base. Livelli comunque inferiori a quelli toccati il 9 novembre 2011, il “mercoledì nero” dello spread a quota 575, quando i BoT a 12 mesi avevano toccato il 7%, i biennali il 7,5% e i decennali oltre il 7,48% (con l’inversione della curva dei rendimenti tra titoli a 2 e a 10 anni).

2. Scenario apocalittico per gli stress test / Il crollo di Piazza Affari.

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Nello scenario peggiore, quello appunto che porta a un’ondata generalizzata di panico e di “flight to quality”, per Piazza Affari l’Eba prevede un crollo del 20,3% nel 2014, del 17,7% nel 2015 e del 20,4% nel 2016, non lontano dai cali medi ipotizzati nell’intera Eurozona (rispettivamente -18,3%, -15,9% e -18,1%). L’Italia farebbe peggio della media di Eurolandia anche per le conseguenze dello stallo generalizzato del processo di riforme, che metterebbe a repentaglio la sostenibilità delle finanze pubbliche.

3. Scenario apocalittico per gli stress test / L’Italia torna in pesante recessione.

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Lo scenario peggiore ipotizzato dagli stress test vede per l’Italia un triennio di Pil in calo con una deviazione del 6,1% rispetto allo scenario di base. Il Pil (che nella realtà è appena tornato positivo) tornerebbe a calare dello 0,9% quest’anno, dell’1,6% il prossimo e dello 0,7% nel 2016 anziché mettere a segno una crescita stimata rispettivamente nello 0,6%, nell’1,2% e nell’1,3%. Lo shock finanziario – spiega infatti la simulazione dell’Eba – avrebbe una pesante ricaduta anche sull’economia reale, con fuga di capitali dai Paesi emergenti e calo degli scambi commerciali con l’Europa.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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Le Pen, Wilders e Alba Dorata: l’arcipelago populista va, ma a Strasburgo rischia di sciogliersi. Mentre Letta…

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da Il Sole 24 Ore del 20 aprile 2014

di Gerardo Pelosi

Un arcipelago variegato e difficile da decifrare che sta mettendo a dura prova l’efficacia del tradizionale messaggio europeista. Alla vigilia del voto europeo del 25 maggio sondaggisti e ricercatori stanno tentando di capire quali saranno gli effetti sul nuovo Europarlamento dell’alto consenso raccolto a livello nazionale dai movimenti antieuropei. Si va dai neopopulisti del Front national di Marine Le Pen o del Partito della libertà olandese di Geert Wilders agli euroscettici inglesi di Nigel Farage alle destre ultranazionaliste di Alba Dorata greca, Ataka bulgara o Jobbik ungherese. Movimenti dal Dna politico diverso e spesso in lotta tra di loro. Il Front national è antieuropeo ma rifiuta Grillo e la destra reazionaria dell’Est Europa, lotta contro l’Islam e chiede meno immigrazione ma difende i diritti di ebrei e omosessuali in nome della tradizione liberale europea.

Almeno su un punto quasi tutti sembrano d’accordo. Alla fine le complesse regole dell’Europarlamento (almeno 25 deputati eletti in 7 Paesi) disperderanno l’eventuale potenza di fuoco con il risultato che i movimenti antieuropei non riusciranno ad avere una casa comune. Dovranno necessariamente disperdersi tra Efd (Europa della libertà e democrazia) che vede Front national insieme al Pvv di Wilders e Lega Nord, i conservatori di Ecr (conservatori inglesi di Cameron e di altri 11 Paesi) e i non iscritti tra cui andranno a confluire gli euroscettici dell’Upik e i grillini. Un universo che sta facendo tremare mezza Europa ma che alle porte di Strasburgo sembra destinato a sciogliersi come neve al sole. È questa la tesi di fondo della ricerca di Guido Bolaffi e Giuseppe Terranova su “populismi e neopopulismi in Europa” pubblicato come Ebook dal gruppo Firstonline-goWare. Secondo la ricerca i neopopulisti, pur appertenendo alla stessa famiglia dei populisti storici hanno un codice genetico diverso. Hanno modificato parti consistenti del vecchio armamentario ideologico come la Le Pen che dal razzismo tout court mostra un volto accattivante pro gay femminista e amico di Israele. Secondo la ricerca si potrebbe creare uno scenario post-elettorale non dissimile da quello registrato in Germania e Italia alle ultime elezioni con la scelta obbligata di una Grosse Koalition. «Ma c’è anche il rischio – osserva Guido Bolaffi – che questi movimenti possano togliere voti al Ppe e favorire il Pse che, per la prima volta, potrebbe avere la maggioranza».

C’è da dire che negli ultimi sondaggi di due giorni fa (da prendere con beneficio di inventario perché gli incerti rappresentano sempre il 40%) il Ppe dovrebbe avere almeno dieci seggi in più a Strasburgo con un aumento in Francia e Polonia mentre diminuirebbero i socialisti in Austria, Bulgaria, Ungheria, Francia e Grecia. Insieme socialisti, popolari e liberali dovrebbero ottenere circa 510 seggi ma tra di loro c’è già un accordo che prevede che il Consiglio europeo dovrà rispettare l’esito elettorale per la scelta del presidente della Commissione. Nel caso di vittoria di popolari il candidato al posto di Barroso è il lussemburghese Jan Claude Juncker mentre per i socialisti il tedesco Martin Schulz. In caso di un risultato quasi alla pari occorrerà trovare un candidato di compromesso che già da alcuni è stato individuato nell’ex premier Enrico Letta.

Una compagine da non temere eccessivamente quella dei neopopulisti anche per Virgilio Dastoli presidente del Movimento europeo e assistente storico di Altiero Spinelli. Secondo Dastoli gli antieuropei non hanno un progetto comune e in alcuni casi convivono forze che vogliono un rafforzamento dello Stato nazionale come il Front national e Lega Nord separatista. In questo panorama anche i 15 o 20 eurodeputati grillini risulteranno inifluenti. «Il movimento cinque stelle – sottolinea Sandro Gozi, sottosegretario per le politiche europee – non ha tessuto alleanze con nessun gruppo e sarà relegato tra i non iscritti, non avrà presidenze di commissioni e non potrà incidere in alcun modo sui lavori dell’Europarlamento, mentre la delegazione del Pd potrebbe essere la più numerosa e aspirare alla presidenza del gruppo o anche alla presidenza del Parlamento».

Fonte: Il Sole 24 Ore

IL MESSAGGIO DI PASQUA DI ALEXIS TSIPRAS AI GRECI.

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La crisi, che ormai da anni coinvolge il vecchio continente, conduce a più di una riflessione. Anche in questo giorno di Pasqua. Per questo, vi proponiamo l’augurio che il leader della sinistra radicale greca Syriza, Alexis Tsipras, ha rivolto al suo popolo.
Il nostro blog ha scelto di riportare i fatti così come sono, senza fare propaganda per alcuna coalizione, pur mantenendo ogni autore ferma la propria ideologia. Ma vi proponiamo, tra tutti gli auguri che oggi abbiamo letto in rete, questi, perché più degli altri racchiudono la disperazione e la voglia di ricominciare di chi vive la crisi sulla propria pelle. Di chi, più di ogni altro in Europa, ne subisce ogni giorno i drammatici effetti.

AS

Il messaggio della resurrezione è un messaggio di redenzione, la vittoria di un messaggio di vita, un messaggio di libertà.
Soprattutto, però, è un messaggio di gioia.
Uomini e donne greche, abbiamo bisogno più che mai di condividere questo messaggio con i nostri simili in ogni angolo del paese, in ogni quartiere, in ogni casa.
Condividiamo con il nostro popolo, ma anche con coloro che non hanno potere e voce. E diamo loro attenzione e solidarietà.
I greci possono e devono fare in modo di trasformare questo messaggio in un nuovo messaggio di resurrezione della nostra gente.
Rallegriamoci nella resurrezione e teniamo a mente che si avvicina il tempo per la redenzione, da tutte e tutti coloro che per il nostro popolo hanno scelto la crocifissione e la miseria.
La campana della nuova risurrezione non tarderà. Arriverà presto .
Basta credere nelle nostre forze.
Buona Pasqua, compagno.

Fonte: ALBA

Ecco come funziona il cervellone che protegge l’euro (e perché al Sud viene imposta austerity anche in fasi recessive).

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di Vito Lops, da Il Sole 24 Ore del 16 aprile 2014

A fine maggio si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.Il dibattito politico ed economico si concentra su maggioranze, coalizioni, pro-euro e anti-euro. Delle tecnicalità, quelle che però spesso incidono più di qualsiasi altro aspetto sul futuro dei cittadini, si parla poco.
Ma è bene soffermarvicisi. E quando parliamo di tecnicalità nell’area euro ci riferiamo in particolare al funzionamento del sistema Target2. Alzi la mano chi sa di cosa stiamo parlando. A voi tutti, sinceri che le mani non le avete alzate, è rivolto questo articolo.

Il Target 2 è il sistema di compensazione dei pagamenti tra le banche commerciali e le rispettive banche centrali dei Paesi dell’Eurozona (vi aderiscono anche Danimarca, Bulgaria, Polonia, Lituania e Romania). Con la supervisione finale della Banca centrale europea. E’ stato introdotto nel novembre del 2007. Prima c’era il sistema Target, più altre stanze di compensazione (clearing house). Da fine 2007 c’è solo il Target 2, dove Target sta per Trans-European Automated Real-time Gross settlement Express Transfer system.
Ogni pagamento, dall’acquisto di un frigorifero in un centro commerciale all’ordine di una maschera da sub dalla Grecia, passa attraverso questo cervellone elettronico. Una piramide, alla base della quale c’è la Bce, immediatamente sotto ci sono le banche centrali nazionali (Banca d’Italia, Bundesbank, Banco d’Espana, ecc.). E poi nel terzo gradino ci sono le banche commerciali.

Per entrare nel cuore di questo cervellone bisogna però conoscere un po’ di come viene creata oggi la moneta a livello bancario. Ci sono due tipi di moneta. La prima è creata dalle banche centrali, la seconda è creata dalle banche commerciali.
La prima moneta è creata dalle banche centrali attraverso la semplice immissione di un impulso elettronico su un computer. Si tratta di moneta che non può circolare nell’economia reale ma viene utilizzata in un conto bancario che le banche commerciali devono detenere presso le banche centrali nazionali (dove sono obbligate a tenere delle riserve un apposito “conto riserve”). Anche le banche commerciali emettono moneta attraverso impulsi elettronici e lo fanno nel momento in cui concedono prestiti ai clienti. Ma è importante sapere che nel sistema Target 2 circola solo la moneta delle banche centrali, quella delle riserve bancarie, che serve per i pagamenti interbancari.
Nel “conto corrente riserve” presso la banca centrale deve essere presente una riserva obbligatoria (in % dei depositi o delle obbligazioni emesse dalla banca, viene stabilita dalla Bce come strumento di politica monetaria, viene aumentata quando intende sottrarre liquidità dal sistema per drenare la crescita, o aumentata per ottenere un effetto opposto).

Oltre alla riserva obbligatoria una banca può depositare in questo “conto riserve” presso la banca centrale anche riserve libere, per agevolare le operazioni di pagamenti con altre banche. Di giorno può utilizzare tutte le riserve ma la sera almeno la riserva obbligatoria deve rientrare. La riserva obbligatoria è remunerata al tasso refi, l’eccesso di riserva non viene remunerato.
Prima di procedere dobbiamo imparare questa importante distinzione. I depositi per le banche rappresentano una passività (un debito) mentre i prestiti rappresentano un’attività (un credito). Questo punto è fondamentale per capire il funzionamento del Target 2 e molte scelte politiche che vengono oggi adottate al netto di frasi e comportamenti di facciata da parte di alcuni politici europei.
Cosa succede se un italiano acquista in un centro commerciale un frigorifero venduto da una società tedesca? L’italiano ha il conto corrente presso la banca commerciale A, il tedesco presso la banca commerciale B. Poniamo che il frigorifero costi 1.000 euro. A livello interbancario (e di saldi Target 2) accade questo. La banca commerciale A elimina dal saldo del conto corrente del cliente italiano 1.000 euro ed effettua un bonifico presso la banca commerciale B tedesca che, di conseguenza, aumenta i depositi del cliente (la società che vende frigoriferi) per 1.000 euro.

L’operazione però passa anche attraverso il Target 2 e quindi coinvolge anche la Banca d’Italia, la Bundesbank e la Banca centrale europea e i conti dove sono depositate le riserve obbligatorie. In che modo? Il sistema Target 2 manda un segnale alla Banca d’Italia di “distruggere” (elettronicamente) 1.000 euro di riserve detenute nel “conto riserve” della banca commerciale A (dopodiché la Banca commerciale A ha meno riserve per l’equivalente di 1.000 euro nel conto che ha presso la Banca d’Italia). Allo stesso tempo il sistema Target 2 invia anche un segnale alla Bundesbank dicendo di accreditare 1.000 euro nel “conto riserve” che la Banca commerciale B ha presso la Bundesbank.
Alla fine di questo giro emerge che la banca commerciale B tedesca ha incrementato le riserve nel conto della Bundesbank per 1.000 euro e, contestualmente, la banca commerciale B italiana “vanta” meno riserve per 1.000 euro presso la Banca d’Italia. Tutto compensato, quindi, come una stanza di compensazione funzionante vuole.
Vi ricordate però cosa rappresentano i depositi per una banca? Sono una passività. Quindi a conti fatti la vendita del frigorifero avrà prodotto una passività sul conto riserve della banca commerciale B tedesca presso la Bundesbank mentre avrà liberato la banca commerciale A italiana della passività che aveva presso il conto riserve di Banca d’Italia.
Vi ricordate che i depositi detenuti dalle banche commerciali presso il conto della Banca centrale nazionale sono rappresentati da moneta di banca centrale che non può essere utilizzata nell’economia reale? Bene, questo è un passaggio importante perché questi 1.000 euro di depositi in più sul conto presso la Bundesbank, la banca commerciale B tedesca potrà utilizzarli solo per investire in titoli o per estendere credito ai propri clienti (maggiori sono le riserve più crediti si possono fare perché i crediti sono proporzioni alla riserve secondo il moltiplicatore dei depositi).

Quindi, quando un cittadino compra un frigorifero prodotto da una società straniera si crea un meccanismo per cui ballano le riserve nei “conti riserve” delle banche commerciali presso le banche centrali nazionali, sotto il coordinamento del sistema di compensazione Target 2. A livello bancario, è come se la banca commerciale B tedesca (e di conseguenza il sistema finanziario della Germania) accumulasse un credito nei confronti della banca commerciale A italiana (e di conseguenza sul sistema finanziario italiano) per aver venduto un bene fisico (il frigorifero) che è passato dalla Germania all’Italia. Ne consegue che quando un Paese dell’area è in deficit nella bilancia dei pagamenti (è in debito con l’estero) il meccanismo Target 2 impone automaticamente che questo deficit sia finanziato dal Paese creditore del Target 2. Oppure impone un intervento a sostegno da parte della Banca centrale europea (quello che è stato fatto dalla Bce a partire dal 2010). Perché se il banco salta il creditore resta con il cerino accesso in mano.

Si crea quindi uno squilibrio nei sistemi Target 2 che può essere compensato in due modi:
1) l’Italia vende un bene di pari valore alla Germania creando lo stesso meccanismo al contrario e azzerando i saldi Target 2 tra il sistema finanziario tedesco e quello italiano;
2) la Germania utilizza il surplus di riserve per acquistare titoli italiani
3) interviene la Banca centrale europea erogando liquidità aggiuntiva a favore dell’Italia
Quello che si è verificato fino al 2008 è stata proprio l’opzione numero due. I saldi risultavano in equilibrio, ma in realtà dietro c’era un forte squilibrio perché in buona sostanza la Germania vendeva prodotti al Sud Europa e compensava la posizione creditoria nel sistema Target 2 acquistando titoli di Stato del Sud Europa (Grecia, Italia, ecc.). Il credito Target 2 della Germania determinato dalla vendita del bene fisico veniva compensato dal debito Target 2 determinato dall’acquisto di titoli del Sud Europa.
Dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime il flusso degli acquisti si è interrotto, anzi è stato ancor più aggravato dalle vendite (ricordate quando Deutsche Bank ha venduto 8 miliardi in titoli di Stato italiani in pochissimo tempo?). Questo ha fatto esplodere i saldi Target 2 facendo venire a galla gli squilibri dell’Eurozona con un Paese (la Germania) che vantava crediti superiori a 700 miliardi rispetto al debito dei Paesi del Sud Europa (vicinissimo a quella cifra) speculare.

Ne consegue che l’esistenza stessa dell’Eurozona si fonda oggi su questo sistema di pagamenti attraverso cui oggi transita un controvalore giornaliero di circa 2mila miliardi di euro e che, tecnicamente, non prevede limiti. In caso di crollo del sistema Target 2 – in sostanza se la Germania interrompesse tramite il meccanismo delle riserve Target 2 – di finanziare il deficit dei Paesi del Sud Europa anche per un solo giorno, rischierebbe di crollare l’intero sistema e l’euro stesso.
A patto che non subentri la Bce (come ha fatto) con liquidità che rende meno brusca la correzione delle partite correnti dei Paesi in deficit.
Va anche detto – spiega un banchiere che preferisce restare anonimo – che il meccanismo di garanzia dei crediti vantati dal Nord Europa verso il Sud Europa ha come alter ego il meccanismo del collaterale, ossia garanzie tramite titoli governativi. Per essere più precisi più che di acquisti in senso assoluto si tratterebbe di acquisti repo (repurchase agreement) ossia pronti contro termine, titoli presi in garanzia fin a quando è in essere il relativo credito.

Come si correggono questi squilibri?
1) I Paesi del Sud Europa in deficit passano da una situazione di deficit a una di surplus di bilancia dei pagamenti
2) I Paesi del Sud Europa acquistano Bund tedeschi
La strada dell’austerità e del rigore che è stata finora praticamente imposta (pur in una fase di recessione economica) è quella che è stata praticata (punto 1). Non a caso i Paesi del Sud Europa, pur sperimentando una crescita debole e tassi di disoccupazione a livelli record (soprattutto quella giovanile) stanno riportando il saldo dei conti con l’estero in pareggio o in attivo. Questa sta favorendo un graduale rientro degli squilibri Target 2 e un ridimensionamento dell’enorme credito accumulato dalla Germania nei primi 15 anni dell’Eurozona.
E stanno ritornando flussi di capitale nella periferia dell’Eurozona
Che stanno contribuendo a far migliorare i saldi Target 2. Non a caso Il credito Target 2 della Germania è sceso da oltre 700 sotto i 500 miliardi.
Il rinnovato surplus della periferia dell’Eurozona non è però totalmente virtuoso. In molti casi è più figlio di una diminuzione delle importazioni (complice il calo del potere d’acquisto della domanda interna e dell’aumento del tasso di disoccupazione che a loro volta stanno causando un processo di disinflazione/deflazione) che non per un aumento spiccato delle esportazioni (per quanto in alcuni casi rifletta un aumento effettivo della competitività sul fronte export).

Grafico / I saldi Target 2

E’ quello che sta accadendo in un percorso lento e doloroso. La Germania cerca così lentamente di rientrare dei propri crediti che continuano ad essere massicci, così come gli irrisolti squilibri nell’Eurozona. Ed è probabilmente questo il motivo per cui l’euro non è crollato quando nel 2011-2012 molti economisti davano per spacciata una deflagrazione dell’Eurozona. In quel periodo è vero gli spread balzavano alle stelle ma l’euro sul mercato dei cambi si manteneva estremamente tonico, segnale che gli investitori non hanno mai creduto fino in fondo al crollo dell’euro. L’allarme finale prima della sua deflagrazione (una improvvisa svalutazione valutaria) non è mai scattato.
Capire come funziona il “cervellone dell’euro” (il sistema Target 2) ci aiuta anche a capire che più dei Paesi del Sud, ha interesse tecnico a far restare in piedi l’euro proprio la Germania, il principale creditore finanziario nell’Eurozona. Perché si sa quando un debitore è piccolo è molto fragile, ma quando il debitore è grande rischia di essere più potente del creditore. E questo la Germania lo sa. E probabilmente anche per questo ha insistito sull’applicazione di politiche di austerità nei Paesi del Sud Europa anche in fasi recessive. Per rientrare quanto prima dei crediti.

Fonte: Il Sole 24 Ore

Ogni anno l’Italia spende 8 miliardi (lo 0,52% del Pil) per la gestione di banconote e monete

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di Enrico Marro, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 2 aprile 2014

L’Italia continua a essere uno dei Paesi occidentali più morbosamente legati al contante, come confermano diverse indagini dell’Abi. Ma quanto ci costa quest’atavico attaccamento al denaro “fisico” (senza toccare il tema evasione fiscale, che merita una trattazione a parte) rispetto all’uso della moneta elettronica o di plastica? Ci costa un sacco di soldi. A metterlo nero su bianco è uno studio della Banca d’Italia dedicato al costo sociale dei diversi strumenti di pagamento. Il risultato: nel nostro Paese all’utilizzo del denaro fisico sono riconducibili costi per circa 8 miliardi di euro, pari allo 0,52 per cento del Pil.

«Questo significa che spendiamo circa 200 euro a testa l’anno per pagare il personale, le perdite, i furti, le apparecchiature, il trasporto, la sicurezza, i magazzini, la vigilanza, le assicurazioni legate ai contanti», commenta Alessandro Onano, responsabile marketing di MoneyFarm. E si tratta di una percentuale superiore a quella della media europea, continua Bankitalia, dove per il contante si “brucia” lo 0,4% del Pil (contro lo 0,52% del Pil italiano).

Confrontando i tipi di operazione, il costo sociale del contante (0,33 euro) secondo lo studio di via Nazionale è ancora minore di quello delle carte di debito (0,74 euro) e di credito (1,91 euro). Ma attenzione: questo è principalmente dovuto al minore importo medio dei pagamenti in contati rispetto agli altri metodi. Se rapportato al valore medio dell’operazione, il contante risulta al contrario lo strumento più costoso (2%). «A ciò si aggiunge che la Banca d’Italia riconosce ogni anno 72mila banconote false (moltissime, considerando che in tutta Europa sono 387mila) e che il 40% delle rapine che si registrano in Europa sono messe a segno in Italia», spiega ancora Onano.

C’è poi il tema del costo industriale di fabbricazione delle micromonete, quelle da 1 e 2 centesimi di euro che spesso e volentieri si perdono, se va bene in portafogli e borsellini, se va male per strada. Ebbene: coniare una monetina da 1 centesimo ne costa 4,5, mentre per fabbricarne una da 2 centesimi si spendono 5,2 cent. Lo scorso autunno Sel ha addirittura presentato una mozione alla Camera sulla questione, calcolando che questo scherzetto dei costi di fabbricazione è costato all’Italia 188 milioni di euro in dieci anni.

Ma un campanello d’allarme è suonato anche a Bruxelles: la Commissione europea a suo tempo ha commissionato un sondaggio scoprendo che il 60% dei cittadini dell’eurozona trova difficoltà a usare le monete da 1 cent (per il conio da 2 centesimi è anche peggio: gli scontenti salgono al 69% del totale, forse perché perdere una moneta da 2 cent “costa” il doppio che perderne una da 1 cent). Tanto che la Commissione ha prodotto un lungo paper, destinato al Consiglio d’Europa e al Parlamento Ue, in cui si ipotizza nei minimi dettagli anche l’opzione del ritiro delle micromonete. Ma per ora non se ne è fatto niente. E l’odissea delle micromonete continua.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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Filoeuropeo o euroscettico? Sono i fatti che contano

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Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

Per orientarsi nel mare delle informazioni e dei dati in vista delle elezioni europee di maggio, la Rete ci offre un interessante strumento di controllo della veridicità delle dichiarazioni espresse dai politici europei: FactchechEU, la prima piattaforma europea di crowd-checking.
Nato dal lavoro di un gruppo di giovani professionisti italiani che avevano già creato una piattaforma di fact-checking operativa a livello nazionale (Pagella Politica), FactcheckEU è uno strumento online con cui è possibile verificare e monitorare le dichiarazioni dei candidati in corsa alle elezioni europee e valutarne la veridicità confrontando le parole con numeri e fonti di riferimento.
La piattaforma è concepita in modo interattivo e gli utenti hanno un ruolo chiave: possono caricare dichiarazioni e verificarle insieme al team di FactcheckEU, oppure navigare alla ricerca di dati già verificati suddivisi nelle principali policy area dell’UE e corredati da grafici e tabelle.
Loggandosi sul sito, si può partecipare in quattro modi diversi: verificando direttamente una dichiarazione impugnando studi e tabelle; traducendo per rendere un’affermazione disponibile in altre lingue europee; dando un voto ad una dichiarazione in una scala graduata da “Vero” a “Panzana pazzesca”, oppure caricando un’affermazione che suona sospetta e che si vuole controllare.
Per capire meglio come funziona il Fact-checking, prendiamo l’ultimo caso riportato sulla piattaforma: l’affermazione di Jean-Claude Junker, candidato alla presidenza della Commissione dal Partito Popolare Europeo, che afferma che tra trent’anni nessun paese europeo preso singolarmente rientrerà nel club dei sette paesi più ricchi del mondo.
FactcheckEU ha verificato, fonti alla mano, ed ha concluso che la validità di questa frase dipende dall’indicatore economico a cui si fa riferimento.
La Germania e la Gran Bretagna avrebbero un posto in un ipotetico G7 nel 2050 (rispettivamente al 5° e al 6° posto in una classifica che vedrebbe la Cina, gli USA e l’India ai primi tre posti) nel caso in cui l’indicatore economico di riferimento è il valore in dollari USA delle economie considerate. Al contrario, se l’indicatore del Pil usato è corretto rispetto al costo della vita (tecnicamente, parità del potere d’acquisto) nel 2050 nessun paese europeo comparirebbe nella classifica dei primi sette al mondo, con la Germania, la più forte, al nono posto dopo Messico e Indonesia. FactCheckEU conclude: “Junker non sbaglia a denunciare il collasso relativo del peso delle singole economie europee a livello mondiale. La scelta di un indicatore piuttosto che un altro non è sbagliata, ma rende la sua dichiarazione in qualche modo incompleta”.
Il factchecking è una forma di partecipazione civica e dal basso all’informazione. Aiuta a rendere il dibattito pubblico più trasparente, e a ridare fiducia alle parole e alla possibilità dei cittadini di comprendere i fenomeni, anche i più complessi. Come si legge sul sito, “nasce dalla convinzione che con la crescente integrazione europea diventa sempre più importante avere dei watchdogs in grado di monitorare il dibattito pubblico”. Perché dopo tutto i fatti sono fatti, e le bugie hanno le gambe corte.