di Germano De Sanctis
Di recente, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15490 del 7 aprile 2014, ha affermato che il datore di lavoro è garante del puntuale rispetto delle misure prevenzionali, anche delegando un soggetto preposto, dotato dei necessari poteri e delle specifiche competenze, qualora le dimensioni aziendali rendano inevitabile tale scelta organizzativa.
La sentenza in questione ha dovuto decidere in merito alla correttezza della sentenza con cui la Corte d’appello aveva in precedenza confermato la sentenza del GIP che dichiarava il legale rappresentante di una società colpevole del reato di cui all’art. 589, commi 1 e 2, cod. pen., avendo, per colpa generica e specifica, causato la morte del lavoratore dipendente, deceduto a seguito delle gravi ustioni riportate dopo essere stato investito dalle fiamme improvvisamente sviluppatesi dai vapori di carburante, ancora presenti all’interno di un autoveicolo, non bonificato, che il predetto era intento a demolire, mediante l’uso di un cannello ossipropanico, senza che il medesimo avesse indossato adeguati indumenti ignifughi di protezione e avesse seguito le dovute procedure di cautela.
Tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che la Corte d’Appello, aveva ignorato la rilevante circostanza, evidenziata dalla difesa, circa il fatto che l’organigramma aziendale (peraltro, acquisito agli atti del processo) dimostrava la presenza di un dipendente preposto dal legale rappresentante al taglio delle carcasse dei mezzi da demolire.
Invece, il giudice di merito, non valutando adeguatamente tale elemento probatorio, aveva concluso semplicisticamente per la penale responsabilità del legale rappresentante che non poteva discolparsi in quanto l’avere adempiuto a tutti gli obblighi di prevenzione degli infortuni previsti dalla legge non lo esonerava dall’obbligo di controllare e garantire l’effettiva osservanza delle misure di prevenzione da parte dei lavoratori.
Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’imputato, secondo il quale la Corte d’Appello aveva basato la sentenza di secondo grado su una giustificazione illogica ed apparente in ordine alla penale responsabilità per omessa vigilanza, finendo per condannare il ricorrente su basi oggettive, a cagione della mera posizione ricoperta.
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