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CASSAZIONE: BIMBO CADUTO AL PARCO GIOCHI, OBBLIGO DEI GENITORI VIGILARE. IL COMUNE NON C’ENTRA.

Corte di Cassazione – Sezione III Civile – Sentenza 25 agosto 2014 n. 18167

di Michele De Sanctis

Un genitore «che accompagna un bambino in un parco giochi deve avere ben presente i rischi che ciò comporta» e, nel caso in cui si verifichi una caduta, non può invocare la responsabilità altrui, ad esempio del Comune, per l’esistenza di una situazione di pericolo «che egli era tenuto doverosamente a calcolare». Così la Suprema Corte Cassazione che, con sentenza 18167 della III Sezione Civile, ha rigettato il ricorso di una coppia di genitori avverso il giudizio di merito, che non aveva ravvisato alcun profilo di responsabilità a carico dell’ente locale convento in giudizio.

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I fatti risalgono al 1998, quando un bambino, che all’epoca aveva sei anni, era scivolato da un cavallo a dondolo battendo il volto mentre giocava, sorvegliato dalla madre in un parco sito nel comune di Fossacesia, località marittima della provincia di Chieti, in Abruzzo. In conseguenza della caduta, purtroppo, il bimbo riportava dei danni permanenti al volto, cosicché i genitori decidevano di far causa al Comune, incentrando la propria strategia sul nesso tra il gioco e l’incidente subìto. Tuttavia, sia il Tribunale competente, in prima istanza, che la Corte d’Appello di L’Aquila, successivamente, avevano riscontrato che le giostre era state installate da poco ed erano «pienamente conformi alla normativa» vigente in tema di sicurezza. Anzi, secondo la valutazione dei giudici di primo e secondo grado, l’incidente era interamente da ricondursi all’insufficiente attenzione da parte della madre del minore.

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In sede di giudizio di legittimità, ora, i giudici di Piazza Cavour, confermando la ricostruzione dei giudizio di merito, argomentano che, a meno che non risulti provato il difetto delle giostre e quindi il pericolo di per sé insito nel loro utilizzo, la responsabilità di un terzo non può essere invocata: l’utilizzo delle giostre, sottolinea la Corte, presuppone, infatti, «una qualche vigilanza da parte degli adulti». Per tali ragioni, il ricorso dei genitori risulta infondato e la loro pretesa di risarcimento definitivamente esclusa.

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LA RACCOMANDAZIONE NON È SEMPRE REATO: LO DICE LA CASSAZIONE.

Con questo post esamineremo una recente sentenza con cui la Cassazione ha escluso la rilevanza sotto il profilo penale di uno specifico caso di raccomandazione. Tuttavia, prima di procedere, è necessario premettere che quello della Cassazione è un giudizio di legittimità: i giudici di piazza Cavour, cioè, non possono entrare nel merito del contenzioso, il loro non è un terzo grado di giudizio. Per cui né la Corte ha inteso fornire una giustificazione a certe pratiche clientelari né io con questo post intendo promuoverne l’esistenza.
Personalmente, anzi, sulla base delle mie esperienze concorsuali, considero il raccomandato un ladro della peggior specie, che ogni mese non solo ruba denaro pubblico non meritato, ma che, soprattutto, sottrae indebitamente la vita a chi, invece, ne avrebbe avuto diritto, se solo questo fosse stato un Paese onesto.

di Michele De Sanctis

Con Sentenza n. 32035 ud. 16/05/2014 – deposito del 21/07/2014, la Quinta sezione della Suprema Corte di Cassazione ha affermato che non ricorre alcun abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. di un pubblico ufficiale in concorso con altri coimputati, in quanto per il concorso morale nel reato di abuso d’ufficio non basta la mera ‘raccomandazione’ o ‘segnalazione’, ma occorrono ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano un’efficacia determinante sulla condotta del soggetto qualificato. In particolare, poi, la raccomandazione, benché effettuata da un pubblico ufficiale o da un parlamentare, non integra il reato di abuso d’ufficio qualora avvenga al di fuori delle proprie funzioni.

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Nel caso di specie, ricorrente era un Comandante di una Stazione dei Carabinieri di un Comune in cui era stato bandito un concorso per il quale aveva raccomandato ad un assessore comunale la figlia perché venisse
‘utilmente’ collocata nella graduatoria finale di merito. In favore del Comandante era, però, sopraggiunta pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Tuttavia è stato proprio avverso tale pronuncia che l’Ufficiale ha proposto il ricorso, che la Cassazione ha ora accolto, in quanto, si legge in motivazione, “in presenza di una causa estintiva del reato, il proscioglimento nel merito deve essere privilegiato quando dagli atti risulti, come nel caso in esame, la prova positiva dell’innocenza dell’imputato”. I giudici del Palazzaccio, hanno, quindi, ritenuto ininfluenti le intercettazioni telefoniche che dapprima avevano inchiodato il Comandante, inquisito nell’ambito delle medesime indagini che avevano visti coinvolti e successivamente imputati per abuso d’ufficio e falsità in atti il Presidente, i Componenti della commissione, il segretario del concorso ‘incriminato’ e l’assessore comunale.
Il punto della sentenza, infatti, è questo: la mera raccomandazione lascia, comunque, libero il soggetto attivo di aderire o meno alla segnalazione, secondo il suo libero convincimento e per tale motivo non ha efficacia causativa sul comportamento del soggetto attivo.

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La formula assolutoria deve, pertanto, prevalere sulla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione anche nel caso in cui si volesse prendere in considerazione, sotto il profilo soggettivo, la raccomandazione effettuata dall’imputato in qualità di Comandante della Stazione dei Carabinieri del Comune in cui il concorso era stato bandito.
Infatti, ache in tal caso, per la Corte, il delitto di abuso d’ufficio sarebbe insussistente perché, come, peraltro, già chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione a proposito di raccomandazioni provenienti da un parlamentare (sent. del 09/01/2013, n. 5895) l’abuso ex art. 323 c.p. “deve realizzarsi attraverso l’esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione attribuita”. Dunque, in carenza dell’esercizio del potere (come nella fattispecie in esame, nella quale la richiesta di raccomandazione esula dalle funzioni tipiche connesse al ruolo di graduato dell’Arma dei Carabinieri, rivestito dall’imputato) non è possibile inquadrare la segnalazione di un candidato nel reato di abuso d’ufficio.

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Il reato, in verità, oggi potrebbe esserci, ma all’epoca dei fatti il nostro Codice Penale non lo contemplava. E siccome non c’è reato senza una norma sanzionatoria, comandante e parlamentare devono oggi essere assolti con formula piena. La Cassazione, infatti, non può far altro che decidere sulla base delle norme vigenti a quel tempo, per il principio di non retroattività della legge penale. E perché – lo si è già detto – il suo è un giudizio di legittimità. Il reato in questione si chiama ‘traffico di influenze illecite’. Una figura introdotta nel nostro ordinamento soltanto due anni fa, durante il Governo Monti, dall’art. 1, comma 75, L. 06/11/2012, n. 190 (cd. Legge Anticorruzione) con decorrenza dal 28/11/2012 ed attualmente contenuta dall’art. 346 bis c.p.

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Quindi, parafrasando, fino al 2012 l’Italia era quel Paese dei balocchi, in cui non ci sarebbe stato reato se il comandante della stazione dei carabinieri X avesse chiesto l’assunzione di sua figlia nel comune dell’assessore Y. E lo stesso valeva per Tizio, parlamentare della Repubblica Italiana che tanto caldeggiava la causa di Sempronio, amico degli amici. Sempreché l’azione fosse avvenuta al di fuori delle funzioni esercitate dai signori sponsor. In fondo cosa c’era di male – direbbero loro? Ho solo segnalato un giovane bravo e preparato, sul cui livello di preparazione, tuttavia, noialtri esclusi dovremmo ‘fare a fidarci’ visto che manca del tutto una valutazione oggettiva. In fondo chi è che è rimasto danneggiato? Solo una manciata di aspiranti a quel posto comunale, che, ormai, saranno riusciti a farsene una ragione e avranno continuato a tentare in altri Enti, magari confidando ancora nella correttezza delle istituzioni, e – chissà – fiduciosi di poter riuscire a lavorare un giorno in quel comune avranno forse accettato posti lontano da casa e ancora pazientano per potervi ritornare. O, peggio, una parte di quegli esclusi (che non credo sia riuscita a farsene davvero una ragione) ancora attende un lavoro onesto e meritato. Fiduciosi, tutti quanti, a ogni selezione. Anche se è davvero difficile non perdere questa fiducia, concorso dopo concorso, ingiustizia dopo ingiustizia. Nonostante la Legge Anticorruzione, resta infatti il dubbio che fatta una nuova legge, il leguleio di turno ne abbia già trovato l’inganno. Perché, in fondo, questa è l’Italia.

Clicca QUI per leggere l’intera Sentenza n. 32035/2014.

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La Riforma della Giustizia in dodici punti

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di Germano De Sanctis

 

Il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha presentato al Consiglio dei Ministri del 30 giugno le linee guida della Riforma della Giustizia, sul cui contenuto si avvierà una fase di consultazione che si concluderà il 31 agosto 2014. Tali linee guida sono suddivise nei seguenti dodici punti che dovrebbero costituire l’ossatura della riforma:

  1. Giustizia civile: riduzione dei tempi. Un anno in primo grado
  2. Giustizia civile: dimezzamento dell’arretrato.
  3. Corsia preferenziale per le imprese e le famiglie
  4. Csm: più carriera per merito e non grazie alla ‘appartenenza’
  5. Csm: chi giudica non nomina, chi nomina non giudica;
  6. Responsabilità civile dei magistrati sul modello europeo
  7. Riforma del disciplinare delle magistrature speciali (amministrativa e contabile);
  8. Norme contro la criminalità economica (falso in bilancio, autoriciclaggio);
  9. Accelerazione del processo penale e riforma della prescrizione;
  10. Intercettazioni (diritto all’informazione e tutela della privacy)
  11. Informatizzazione integrale del sistema giudiziario
  12. Riqualificazione del personale amministrativo

Innanzi tutto, si deve evidenziare che si tratta solo di linee guida, prive di ogni valenza giuridica, ma finalizzate a sviluppare un dibattito pubblico sul’argomento. Infatti, in coerenza con le decisioni assunte in occasione della Riforma della Pubblica Amministrazione, il Governo ha avviato una fase di consultazione pubblica della durata di due mesi, che terminerà il 31 agosto. Infatti, Il premier Renzi ha voluto invitare i cittadini italiani a «discutere di giustizia in modo non ideologico», riuscendo « ad aprire per due mesi, dal 1° luglio al 31 agosto, un confronto aperto, una pubblica consultazione per discutere di giustizia», utilizzando, l’ormai noto indirizzo di posta elettronica rivoluzione@governo.it.
Al termine di tale consultazione pubblica, seguirà un nuovo passaggio in Consiglio dei Ministri per il varo del testo normativo vero e proprio.

Esaminiamo nel dettaglio, le novità più salienti contenute nelle linee guida in questione.

 

La durata massima di un anno per il processo di primo grado
Innanzi tutto, le linee guida focalizzano la loro attenzione sulla giustizia civile, la quale dovrebbe essere oggetto di una riforma capace di ridurne i tempi processuali. L’obiettivo del Governo è di far durare i procedimenti civili di primo grado un anno al massimo. A tal fine, a seguito della consultazione pubblica, sarà approvato un disegno di legge in materia (che, secondo il Presidente Renzi, dovrebbe divenire legge entro mille giorni decorrenti dal 1° settembre prossimo), il quale garantirà il raggiungimento di tale ambizioso obiettivo, in coerenza coni i tempi dei processi civili di primo grado dei Paesi maggiormente industrializzati.

 

Dimezzamento dell’arretrato civile
Un altro aspetto della riforma particolarmente rilevante è rinvenibile nel dimezzamento dell’arretrato del processo civile, oggi attestato sui 5 milioni ,di procedimenti pendenti.
A tal fine s’introdurranno diverse novità normative, come, ad esempio, la previsione che renderà non necessario l’intervento di un giudice in caso di separazione e divorzio consensuali.
In coerenza con tale obiettivo, sarà anche prevista una speciale corsia preferenziale processuale per le imprese e le famiglie.

 

Il Consiglio Superiore della Magistratura
Un altro punto delle Linee guida riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura, il quale non subirà, nell’immediato, alcun intervento sul suo metodo di elezione, ma riceverà interventi finalizzati a garantire che la carriera dei magistrati si svolga esclusivamente su basi di merito.
Si intende anche modificare il procedimento disciplinare dei magistrati, prevedendo che coloro che saranno deputati a giudicare il loro operato per eventuali mancanze o negligenze non svolgano alcun ruolo nei procedimenti di nomina dei vertici degli uffici giudiziari, e viceversa. In altri termini, ci si avvia verso la separazione delle funzioni amministrative da quelle disciplinari». La riforma delle norme disciplinari varrà anche per la magistratura contabile e amministrativa.

 

Intercettazioni
Per quanto concerne le intercettazioni, il Governo ha comunicato che non esiste alcun testo già redatto. In particolare, è stato precisato che i magistrati devono essere sempre liberi d’intercettare. Infatti, la riforma in questione non intende bloccare la possibilità di effettuare intercettazioni, ma vuole porre solo un limite alla loro pubblicabilità, in caso di vicende personali con collegate alle indagini.

 

 

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L’OFFESA A TERZI VIA SMS NON È DIFFAMAZIONE: LO DICE LA CASSAZIONE.

Se l’insulto su Facebook è diffamazione, lo stesso non può dirsi per chi ricorre ai messaggini sul cellulare per offendere qualcuno. È, infatti, escluso il reato di diffamazione, se l’offesa, diretta a terzi, è inviata tramite sms. A stabilirlo è stata la Suprema Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sent. n. 22853 del 30 maggio 2014.

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di Michele De Sanctis

Questi i fatti. Con sentenza del 24/10/2012, il Tribunale di Catania confermava la sentenza del Giudice di Pace del 17/02/2011 del capoluogo etneo, che aveva dichiarato la convenuta in giudizio responsabile del reato di diffamazione in danno della querelante mediante sms inviato alla figlia di quest’ultima.
L’imputata, tuttavia, ricorrendo dinanzi Suprema Corte avverso la decisione dell’appello, eccepiva la violazione di legge in relazione all’art. 595 c.p., dal momento che, in mancanza di una prova che l’sms avesse destinazione di propalazione alla persona offesa o a terzi, ovvero di una prova della sua volontà in tal senso (non potendo ravvisarsi l’elemento probatorio di tale volontà nella mera circostanza che l’invio del messaggio fosse stato effettuato nel weekend, in un momento in cui la famiglia della donna offesa era riunita per il pranzo). Deduceva, d’altro canto, il legale della ricorrente che la comunicazione agli altri membri della famiglia era stata frutto dell’esclusiva iniziativa della diretta destinataria del messaggio.

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Ebbene, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto il ricorso fondato.
Secondo costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 36602/2010), infatti, in tema di delitti contro l’onore, per integrare il reato di diffamazione occorre non solo l’elemento psicologico consistente nella consapevolezza di pronunciare (o scrivere) frasi lesive della reputazione altrui, ma, altresì, la volontà che le offese denigratorie siano conosciute da più persone. Ai fini della commissione del reato di diffamazione, pertanto, è necessario che l’autore comunichi, ad una o più persone, il contenuto lesivo della reputazione altrui, con modalità tali che la notizia venga sicuramente a conoscenza di altri, evento che egli deve rappresentarsi e volere. Condotta, questa, che, per esempio, si sarebbe configurata se l’sms fosse stato inviato in una chat di gruppo, ovvero pubblicato su un social network, ecc. Invece, l’invio di un sms privato, pur contenendo un messaggio diffamatorio, non concretizza la fattispecie prevista per il reato in parola, poiché, invero, evidenzia la volontà dell’agente di non diffondere o comunicare a terzi il contenuto offensivo espresso nei confronti di un altro soggetto. Nel caso impugnato, però, il Tribunale, pur richiamando i principi giurisprudenziali di cui sopra, non ne ha poi tratto le debite conseguenze.

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Di qui la ragione che ha portato il giudizio d’appello ad ad essere cassato da Piazza Cavour. Infatti, essendo pacifico che l’sms era stato inviato ad un’unica persona (la figlia della donna offesa), il Tribunale, nel confermare la decisione del GdP, ha ritenuto “del tutto evidente”, senza, peraltro, indicarne le ragioni, il “chiaro intento” dell’imputata che il destinatario delle offese e “le altre persone presenti” ne fossero messi a conoscenza, come di fatto era avvenuto. Oltretutto, neppure il concetto di “persone presenti” risulta esplicitato nella pronuncia oggetto del ricorso, poiché non collegato alla testimonianza della figlia, evocata in sentenza solo nella parte relativa alla sintesi della vicenda processuale, ma non anche utilizzata al fine della conferma dell’affermazione di responsabilità, secondo cui il messaggio era pervenuto di sabato o domenica, nell’orario in cui tutta la famiglia era riunita per il pranzo, affinché fosse portato a conoscenza della terza persona che si intendeva offendere, la madre della destinataria del messaggio.
Diversamente, sempre per la Cassazione, l’sms denigratorio, inviato direttamente al soggetto destinatario dell’offesa, avrebbe configurato il diverso reato di ingiuria.

Per questi motivi, la sentenza pronunciata al termine del gravame è meritevole di annullamento con rinvio per nuovo esame al giudice a quo (il Tribunale di Catania) in diversa composizione.

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L’INSULTO SU FACEBOOK È DIFFAMAZIONE, ANCHE SE LA VITTIMA RESTA ANONIMA. LO DICE LA CASSAZIONE.

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di Michele De Sanctis

La diffamazione vale anche per i commenti su Facebook? Secondo una recente pronuncia della Cassazione, sì. Occhio, quindi, a ciò che scrivete.

Con Sent. n. 16712/2014, i giudici di Piazza Cavour sono tornati ad occuparsi del reato di cui all’articolo 595 c.p., la diffamazione.

L’interesse suscitato a livello mediatico da questa pronuncia sta nel fatto che il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda l’offesa all’altrui reputazione avvenuta attraverso Facebook e senza fare nomi.

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La Corte stabilisce che chi scrive su Facebook commenti infamanti su una persona, anche senza farne esplicitamente il nome, configura il reato di diffamazione ed è quindi punibile a norma di legge. Con questa decisione la Cassazione ha condannato un maresciallo della Guardia di Finanza della provincia di Pisa per questo status su Facebook dal tenore offensivo nei confronti di un collega:

“Attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo…ma me ne fotto…” Minacciando, peraltro, vendette e ritorsioni sulla moglie dello stesso.

Il post diffamatorio inoltre era stato letto da una ristretta cerchia di iscritti. Ma sta di fatto che, pur non essendo stata fatta menzione di alcun nome, venivano forniti particolari sufficienti per identificare la persona diffamata.

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Alla condanna di primo grado aveva fatto seguito in appello l’assoluzione per insussistenza del fatto. La Corte d’Appello aveva motivato l’assoluzione facendo notare che l’identificazione dell’offeso poteva essere operata solo da una ristretta cerchia di utenti, posto che l’imputato non aveva indicato il nome del collega.

Tuttavia, la prima sezione penale della Cassazione ha ribaltato tale verdetto argomentando che la frase offensiva fosse ampiamente accessibile dagli iscritti al social network e che la persona offesa, pur non nominata, avrebbe potuto essere facilmente individuata. “Il reato di diffamazione – dice il giudice di ultima istanza, nel cassare la decisione di secondo grado – richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due”.

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Secondo i giudici di Piazza Cavour, quindi, il vizio de legittimità risiede nel fatto che la corte d’appello non avrebbe adeguatamente motivato l’iter logico-giuridico che conduce ad affermare che il novero limitato di persone in grado di identificare il soggetto passivo comporti “l’esclusione della prova della volontà dell’imputato di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto” in questione.

Insomma, d’ora in avanti ci sarà da stare particolarmente attenti ad esprimere le proprie opinioni su conoscenti, colleghi e personaggi pubblici anche sui social network: la mancata citazione del nome così come il fatto che si tratti “solo” di un commento su Facebook non difendono dall’accusa di diffamazione.

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Nel nome del plagio, colpevole di essere diverso. Il caso Braibanti.

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Si è spento lo scorso 6 aprile, a 91 anni, Aldo Braibanti, artista, poeta e scrittore piacentino. Negli anni ’60 divenne famoso per l’accusa di plagio rivoltagli dai familiari di Giovanni Sanfratello, compagno di Braibanti che da Piacenza lo aveva seguito, quando questi si era trasferito a Roma.
Secondo il padre del ragazzo, Braibanti aveva “sottomesso” alla sua volontà il giovane figlio, plagiandolo e imponendogli il suo stile di vita. Braibanti fu quindi condannato per plagio, reato previsto dal codice Rocco, rimasto in vigore fino al 1981 quando il Giudice delle Leggi ne dichiarò l’incostituzionalità. “Il giovane Sanfratello – dichiarò il P.M. durante il processo – era un malato, e la sua malattia aveva un nome. “Aldo Braibanti! Quando appare lui tutto è buio”. Il “caso Braibanti” è stato il primo e unico di condanna per plagio. Ma il reato che si voleva, in realtà, ascrivere a carico di Braibanti era la sua omosessualità. Il caso Braibanti costituisce, ancora oggi, una delle vicende giudiziarie più oscure ed infamanti della nostra storia.

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Braibanti era diverso. Intellettuale avanguardista, così diverso dagli artisti dell’epoca. Diverso politicamente, né a sinistra, né a centro né con la destra reazionaria. Dalla rubrica “Il Caos” di una copia del 1968 del quotidiano “Il Tempo”, Pasolini rilevava come quello di Braibanti fosse un caso di intellettuale che aveva rifiutato precocemente l’autorità che gli sarebbe provenuta dall’essere uno scrittore dell’egemonia culturale comunista, ma che poi aveva altresì rifiutato l’autorità di uno scrittore creato dall’industria culturale. Nel medesimo articolo, si legge che il suo delitto fu quello di assecondare la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’era scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe venuta naturalmente, a patto che egli avesse accettato, anche in misura minima, una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria. E questa debolezza era conseguenza della sua solitudine. Una debolezza scontata che egli pagò con l’accusa, pretestuale, di plagio e la successiva condanna. Vero è che dalla sua debolezza gli derivava un’altra autorità: la sua. Autorità, dunque, più pericolosa di tutte, perché indipendente, autonoma, fuori dagli schemi e da qualunque categoria.

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Sì, Braibanti era diverso. Da tutti, anche come uomo. E quella che Pasolini chiamava “debolezza” al tempo in cui scriveva, era, invece, la sua forza. La stessa forza che apparteneva a Pasolini, in fondo. Quella diversità che ti spinge oltre il comune sentire, che ti consente di percepire la realtà e raccontarla con modulazioni tanto peculiari quanto estranee alla società di massa. Che ti rende inevitabilmente solo. Sempre. Comunque. E inevitabilmente diverso, per quanti sforzi tu possa fare.
La principale condanna di Braibanti, perciò, non è stata il carcere. Ma la solitudine cui è stato relegato dopo, l’isolamento intellettuale che l’ha accompagnato fino alla morte. L’emarginazione: la condanna che gli italiani piccolo-borghesi impongono alla diversità per sentirsi tranquilli, davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere. Così avvertiva lo stesso Pasolini, perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano. Del resto, quante volte sentiamo gente dichiarare la propria tolleranza verso i gay, purché non si facciano vedere?
E allora processo sia. E processo fu. All’omosessuale, nel nome del plagio. L’obiettivo era distruggere Braibanti per dimostrare al Paese quanto sbagliato fosse accettare la propria diversa identità sessuale.

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Anche il capo d’accusa rientrava nel tipico schema attraverso cui la cattolicissima società italiana condanna da anni una parte cospicua dei suoi cittadini. Veniva, infatti, invocato l’art. 603 c.p., il plagio, per censurare, invece, la condotta tenuta dalla coppia Braibanti-Sanfratello. Tant’è che mai, in nessun’occasione, l’Italia bigotta dell’epoca riuscì a rilevare che il processo fosse un’istruttoria contro l’omosessualità. I gay vanno condannati prima di tutto col silenzio. Ancora oggi. Nel nostro Paese, dove l’omosessualità non costituisce reato, il Legislatore continua a far finta che i gay non esistano, condannandoli all’isolamento, alla solitudine e a un silenzio rumoroso che, necessariamente, conduce alla negazione dei loro diritti positivi e naturali. In primis, quello di esistere come soggetti giuridici titolari degli stessi diritti civili degli altri cittadini. A Braibanti, infatti, non venne contestata la relazione con Sanfratello, non era giuridicamente possibile né socialmente accettabile. Gli venne, invece, contestato d’essere frustrato in quanto basso e ‘stortignaccolo’, d’essere un buono a nulla perché artista e, in quanto artista, corruttore d’anime. Tra i testimoni chiamati in aula ci furono i piacentini Piergiorgio e Marco Bellocchio, e il musicista Sylvano Bussotti. A quest’ultimo che la Corte ebbe a chiedere: “Lei è omosessuale?”. La domanda fece scalpore, poiché fu uno dei rari passaggi processuali in cui si accennò all’omosessualità. In un saggio intitolato “Il Processo Braibanti”, edito nel 2003 per i tipi dell’editore Silvio Zamorani, lo studioso Gabriele Ferluga rileva, appunto, come questo tema, all’epoca, fosse cassato con imbarazzo anche dall’intellettualità di sinistra che, pure, difendeva Braibanti. Uniche eccezioni, Pasolini, Moravia, Umberto Eco e Dacia Maraini, che del caso Braibanti fece un racconto, e i radicali.

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Cattolici nel DNA, noi italiani cresciamo tutti con lo spettro del peccato e della sua espiazione, perché ci insegnano da piccoli che è sbagliato assecondare le nostre pulsioni. Ma la realtà è che peccato sarebbe sprecare un’esistenza, non amare, vivere un inferno terreno per la promessa di un paradiso oltre la vita. Peccato è l’imposizione all’altro delle proprie ragioni e del proprio credo. Peccato è condannare un amore, bollandolo come diverso, innaturale, sporco. Criminale, perciò, non fu la relazione che Braibanti ebbe con Sanfratello, ma il processo che lo condannò. Ad essere sporche erano le anime di quelli che giudicarono la storia di Aldo e Giovanni.

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Allora mi chiedo: se la società moderna ha chiesto che la Chiesa dopo secoli di storia rivedesse le posizioni assunte ai tempi della Santa Inquisizione, non sarebbe etico pretendere dalla Repubblica Italiana un’ammissione di colpa, sia pur postuma, per questo processo farsa? Con Sent. n. 96/1981, la Corte Costituzionale ha ‘cancellato’ il plagio dall’ordinamento giuridico italiano. Braibanti non ottenne neppure la revisione del processo. A 33 anni da quella sentenza di incostituzionalità, malgrado il tentativo nel 2005 di alcuni esponenti di AN di reintrodurre questo delitto, unico nel quadro giuridico europeo, è necessaria una presa di coscienza collettiva. L’Italia non è diversa dalla Russia, solo più discreta. Ieri come oggi.
Bisogna, invece, restituire dignità alla memoria di Braibanti, per l’inferno subito a causa dell’imputazione di un reato che, nell’Italia democratica, è esistito solo per lui, che per quell’ingiustizia ha ottenuto solo un parziale riconoscimento, quando, nel 2006, il governo Prodi, viste le sue condizioni economiche, gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli. Una revisione almeno morale di quel giudizio è un’azione necessaria per interrompere l’iniqua e vergognosa damnatio memoriae subita da lui e dalle sue opere. Nulla ripagherà ormai Aldo del carcere scontato e dell’onta subita, durante il dibattimento, dalla magistratura e dalla stampa. Ma il suo riscatto (dopo il suo sacrificio) servirebbe oggi alla società civile che lo ha condannato, a quella parte che ancora si ostina a non vedere, a non capire. L’educazione alla legalità di un popolo è innanzitutto una lezione di rispetto. Una lezione per orientare tutti gli italiani verso quella tolleranza che ispirò i Costituenti dello stesso Stato che distrusse la vita di Aldo Braibanti.

Andrea Serpieri per

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