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Lavoro somministrato nella Pubblica Amministrazione. Quer pasticciaccio brutto della spending review.

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Il decreto 276 del 2003 e successive modifiche, con particolare riguardo a quelle introdotte dal decreto legislativo del 2 marzo 2012, n. 24, sostituendo il lavoro interinale con quello somministrato, ha disciplinato, tra l’altro, la materia del contratto di somministrazione di lavoro applicabile, entro determinati limiti e vincoli, anche alle Pubbliche Amministrazioni. Sebbene, infatti, l’art. 1, comma 2 del decreto in parola escluda espressamente le Pubbliche Amministrazioni e il relativo personale dalla sua applicazione, il successivo articolo 86, comma 9 prevede espressamente che la somministrazione di lavoro trovi applicazione anche alla P.A. limitatamente ai contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Si tratta di una norma di raccordo che consente quindi l’applicazione dell’istituto previsto dalla cd. Legge Biagi anche alla Pubblica Amministrazione.

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Più di recente l’Unione Europea è poi intervenuta sul tema con la direttiva 2008/104/CE, pubblicata in G.U.R.I. n. 69 del 22/03/2012, dedicata, per l’appunto, al lavoro tramite agenzia interinale e finalizzata all’armonizzazione dei diversi ordinamenti degli Stati membri così da promuovere il completamento del mercato interno attraverso un miglioramento della vita e delle condizioni dei lavoratori nella Comunità europea. Nel considerando 2 della direttiva si legge che ciò avverrà mediante il ravvicinamento dei diversi ordinamenti soprattutto per quanto riguarda forme di lavoro come quello a tempo determinato, a tempo parziale, il contratto mediante agenzia di lavoro interinale e il lavoro stagionale. Secondo l’Unione, il lavoro tramite agenzia interinale risponde non solo ad esigenze di flessibilità delle imprese, ma anche al bisogno dei dipendenti di conciliare vita professionale e vita privata e può validamente contribuire alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione e integrazione nel mercato del lavoro (v. considerando 11 della direttiva). Difficile in tempi di crisi capire come per l’Unione un lavoro precario e privo di aspettative di carriera (ma anche di stabilità) possa conciliarsi con la vita privata del lavoratore: vita che è naturalmente fatta di progetti, che dinanzi all’instabilità del rapporto lavorativo difficilmente possono essere realizzati. Dal mutuo per la casa ai risparmi per gli studi dei figli. Ai figli stessi: difficile metterne in cantiere uno, a queste condizioni, diciamo anche rischioso.

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Il rapporto somministrato, poi, si complica ulteriormente (ai danni del solo lavoratore, ovviamente) se il lavoro lo si presta in favore di una P.A.: l’art. 97 Cost. regola l’accesso nella stessa e stabilisce la via del concorso pubblico come modalità principale, salvo poi riservare ad alcune categorie protette l’accesso tramite liste di collocamento. Tuttavia, le politiche di contenimento della spesa per il personale nella P.A. previste dalle ultime leggi finanziarie ma anche dai recenti interventi in tema di spending review e anche dalla legge di stabilità, hanno determinato la riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato e in alcuni casi introdotto il cd. blocco del turn over, determinando il ricorso all’utilizzo sempre più frequente dei contratti di somministrazione di lavoro temporaneo o di altre forme flessibili di reclutamento, anche in considerazione del favore dimostrato dal legislatore verso tali tipologie contrattuali, soprattutto in seguito alle diverse modifiche apportate all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e nonostante i vari interventi legislativi sui limiti di spesa.
In termini di opportunità amministrativa, quando non anche politica, è necessaria un’analisi dei costi per valutare la convenienza dello strumento flessibile (ed atipico, lato sensu) che il nuovo mercato del lavoro propone.

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S’è detto che la P.A., soggetto utilizzatore, stipula un contratto di tipo commerciale col somministratore, questo perché la somministrazione prevede tre tipi di rapporti derivanti da due distinti accordi: un rapporto commerciale discendente dal contratto stipulato tra utilizzatore e somministratore, un rapporto lavorativo tra questi e il dipendente che firma un contratto di lavoro con l’agenzia e, infine, un rapporto funzionale tra il lavoratore e l’utilizzatore che si avvale delle sue prestazioni. Per una Pubblica Amministrazione, sottoposta a spending review, ricorrere alla somministrazione significa spendere per un singolo lavoratore più di quanto non farebbe se quell’unità fosse stata selezionata tramite concorso ed assunta a tempo indeterminato, ovvero determinato.
Se in origine il presupposto per ricorrere a tale contratto, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003, era individuato “nelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”, evoluzione/involuzione rispetto alle sole esigenze di carattere temporaneo previste per il lavoro interinale dalla l. 196/97, ora l’articolo 4, comma 1 lettera c), del d.lgs. n. 24/2012, nell’aggiungere all’articolo 20 il comma 5-quater, ha previsto una deroga alle suindicate ragioni di utilizzo del contratto di somministrazione a tempo determinato nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. I CCNL, nei diversi comparti del pubblico impiego, possono, infatti, disciplinare tutti i casi in cui la somministrazione può essere utilizzata per fronteggiare specifici fabbisogni temporanei riguardanti determinate professionalità. L’articolo 2 del CCNL del 14/9/2000, ad esempio, relativo al personale appartenente al Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali prevede che i contratti di fornitura di lavoro temporaneo possano essere stipulati dalle Regioni e dagli enti locali per consentire la temporanea utilizzazione di professionalità non previste nell’ordinamento dell’amministrazione ovvero in presenza di eventi eccezionali e motivati non considerati in sede di programmazione dei fabbisogni o per la temporanea copertura di posti vacanti, per un periodo massimo di 60 giorni e a condizione che siano state avviate le procedure per la loro copertura; ovvero per l’acquisizione di profili professionali non facilmente reperibili o comunque necessari a garantire standard definiti di prestazioni, in particolare nell’ambito dei servizi assistenziali.

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Nel comparto degli EPNE, invece, l’articolo 35 del CCNL stipulato in data 14/2/2001 ammette il ricorso alla somministrazione per particolari fabbisogni professionali connessi all’attivazione ed all’aggiornamento di sistemi di controllo di gestione e di elaborazione di manuali di qualità e carte dei servizi nonché per soddisfare specifiche esigenze di supporto tecnico nel campo della prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, purché l’autonomia professionale e le relative competenze siano acquisite dal personale in servizio entro e non oltre quattro mesi.
tro mesi.
Nel comparto degli enti di ricerca, poi, troviamo l’articolo 22 del CCNL stipulato in dato 21/2/2001 (normativo 1998 – 2001 economico 1998 – 1999) il quale stabilisce che il ricorso al lavoro temporaneo deve essere fatto nel rispetto dei divieti posti dalla vigente disciplina legislativa, per soddisfare esigenze a carattere non continuativo e/o a cadenza periodica, o collegate a situazioni di urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o attraverso le modalità di reclutamento ordinario, previste dal D. Lgs. 165/2001 e deve essere improntato all’esigenza di contemperare l’efficienza operativa e l’economicità di gestione.
L’attuale fase di congiuntura economica, la spending review, il piano di rientro relativo all’amministrazione sanitaria di diverse regioni italiane, giustificano sicuramente il ricorso a tale forma di lavoro, stante il blocco delle assunzioni per lo meno relativamente al personale amministrativo. Il Legislatore, da Brunetta in poi, ha preteso dal pubblico impiego standard quali-quantitativi sempre più elevati. La richiesta di efficienza rivolta a lavoratori stipendiati con denaro pubblico è certamente una scelta giusta, giuridicamente ineccepibile, in linea di principio. Tuttavia tale richiesta sembra travalicare i limiti dell’umanamente possibile, se d’altro canto le Amministrazioni non possono procedere al cd. ricambio generazionale se non in percentuali minime nei prossimi anni, quando addirittura le assunzioni di nuovo personale non risultino del tutto bloccate dai criteri introdotti nell’ordinamento italiano dal Decreto Milleproroghe in poi. E se le Amministrazioni Pubbliche sono deputate all’erogazione di servizi, sarà anche necessario che ci sia qualcuno che ‘materialmente’ quei servizi li dispensi. Come far fronte alla carenza di personale se non con la somministrazione? Ed ecco che si profila un circolo vizioso, difficile da spezzare a legislazione invariata (o per lo meno – e per ora – fino al 2017, quando il turnover dovrebbe essere ripristinato). Circolo vizioso perché un Ente costretto al risparmio, di fatto spende per il personale somministrato cifre improponibili in un momento storico come questo.

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Per essere più chiaro userò, a titolo esemplificativo, dei termini impropri, ma di sicuro più efficaci. Io, Amministrazione costretta a limitare le spese anche per il personale, mi ritrovo con quattro impiegati, ma per raggiungere gli obiettivi che la Direzione mi ha imposto, in ragione delle stesse leggi che mi sottopongono a tale regime di austerità, avrei bisogno di almeno dieci dipendenti, così ne affitto altri quattro pagandoli quasi il doppio di quanto pagherei per quattro impiegati neoassunti con una posizione economica di primo livello. Quindi mi ritrovo con otto persone, quando me ne servirebbero invece dieci, e spendo di più di quanto non farei con dieci unità direttamente assunte da me, ma non posso fare diversamente. Non posso perché da un lato c’è il blocco delle assunzioni e dall’altro il mancato raggiungimento degli obiettivi per quest’anno comporterà, per esempio, una minor afflusso di fondi dall’Amministrazione Centrale o dal Ministero nel corso dell’anno venturo.
La domanda è allora quali sono i costi che un’Amministrazione affronta per un lavoratore somministrato? Il costo del lavoro per un lavoratore somministrato deve essere calcolato considerando le seguenti voci derivanti dall’applicazione del CCNL, dal CCNL integrativo e dalla normativa che disciplina il medesimo contratto di somministrazione:
1. retribuzione oraria, tredicesima mensilità, ratei tredicesima, ex festività, permessi retribuiti, ferie, ratei trattamento fine rapporto, oneri assicurativi contributivi. Gli oneri contributivi sono calcolati sulla base del CCNL applicato all’agenzia per il lavoro;
2. trattamento economico accessorio, la produttività, il servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto e altre voci derivanti dall’applicazione di contratti decentrati integrativi;
3. oneri di costo aggiuntivi previsti dalla normativa che disciplina il contratto di somministrazione. Ad esempio, quelli previsti dall’articolo 12, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 276,
sono i cd. fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare in misura pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l’esercizio di attività di somministrazione e destinati ad interventi a favore dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato intesi, in particolare, a promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione anche in funzione di continuità di occasioni di impiego e a prevedere specifiche misure di carattere previdenziale (comma 1), e destinati, inoltre, (comma 2) a:
a) iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori;
b) iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto agli appalti illeciti;
c) iniziative per l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori svantaggiati anche in regime di accreditamento con le regioni;
d) per la promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale;
4. da ultimo, ma più rilevante di tutti, il ‘prezzo’ di un lavoratore somministrato è dato da possibili scostamenti del costo dovuti a rinnovi contrattuali.

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Limitatamente al punto 4), il valore dell’offerta alla medesima Agenzia dovrà essere aggiornato prevedendo nel contratto una clausola di revisione dei prezzi in ragione dell’aumento del costo del lavoro legato ad aumenti contrattuali. Al riguardo, l’articolo 115, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 prevede che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi”.
Alla luce di queste voci di costo, rivolgo a voi la domanda: è opportuno il ricorso alla somministrazione da parte di una P.A. sottoposta a spending review? Anzi, poiché è di soldi pubblici che parliamo, è opportuno il ricorso alla somministrazione, a prescindere dalla fase economica che stiamo attraversando?
È opportuno che la politica consenta questo? E non solo…

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Negli ultimi anni, infatti, la nostra classe dirigente ha introdotto nel mercato del lavoro (evidentemente anche in quello pubblico) la nozione di flessibilità. A parte i maggiori oneri sostenuti dalle Amministrazioni, è possibile ravvisare una convenienza nell’immissione di queste atipiche tipologie di lavoratori anche nel settore pubblico. E in caso affermativo, a chi conviene? La stessa domanda può essere posta da un altro punto di vista: chi seleziona il personale somministrato? Nel Paese del clientelismo è naturale che sorga il dubbio e, come recita un vecchio adagio, a pensar male si fa peccato, ma si sbaglia raramente. Già, perché oltre ai maggiori oneri a carico dell’Amministrazione utilizzatrice, il lavoro somministrato si caratterizza per un’altra preoccupante peculiarità: la totale elusione dell’art. 97 della Costituzione. La ratio della norma costituzionale, benché svuotata del suo contenuto dopo anni di clientelismo, è quella di dotare gli Uffici Pubblici del miglior personale possibile, appunto mediante selezione concorsuale. Di fatto, nei sessant’anni di vita della Costituzione, il clientelismo italiota ha reso il disposto dell’art. 97 operativo solo in alcuni casi in cui è poco probabile che tutti i vincitori siano parenti e amici di chi conta: sono quei maxi concorsi da 300, 400, 500 anche fino a 1000 posti, che ora come ora la Corte dei Conti non potrebbe più autorizzare, salve le eccezioni del personale militare,di polizia e di quello ispettivo in Ministeri ed Agenzie. Chi sceglie, quindi, il lavoratore somministrato? O meglio chi lo segnala? Potremmo argomentare analogicamente partendo dallo svolgimento dei concorsi in certi Enti Locali, in cui si concorre in 700 per un posto solo. Ma lascio a voi le debite conclusioni. Vero è che eccezioni ve ne sono, nei concorsi per un posto solo come anche nel lavoro somministrato. Non tutti hanno la fortuna di conoscere la gente giusta. E mi rifiuto di pensare che il malcostume sia divenuto la sola regola imperante. Capita, infatti, di essere somministrati inizialmente per la sostituzione di una lunga malattia o di una maternità e poi di rimanere a fare quel lavoro anche dopo, magari per una serie di circostanze fortuite, ad esempio perché, nel frattempo, chi sostituivi ha trovato di meglio. C’è poi anche chi è arrivato dall’agenzia senza alcun appoggio per svolgere mansioni talmente infime che nessun ‘amico degli amici’ avrebbe mai accettato. Oggi forse sarebbe diverso, ma fino a sei, sette anni fa, assolutamente no.

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Per esempio, nella mia vita lavorativa ho conosciuto un imbustatore inizialmente assunto a chiamata e poi somministrato: un ragazzo che per poche centinaia di euro imbustava lettere per sei ore ogni due o tre giorni, in un primo periodo, e poi anche tutti i giorni: piegato su una scrivania fantozziana da cui, tra altissime pile di buste, sbucava fuori la sua testa. Io, nel frattempo, ho cambiato lavoro, città e regione, ma so che lui è riuscito a mostrare di saper fare ‘qualcosa’ di più che incollare buste e la dirigenza del suo Ufficio lo ha ‘promosso’ a impiegato. Nel frattempo è stata acquistata un’imbustatrice meccanica e questo giovane senza sponsor si è via via reso indispensabile e prezioso per il suo Ufficio. Di eccezioni ce ne sono, quindi. Ma queste rappresentano la terza ‘croce’ del lavoro somministrato nella P.A.: le competenze che nel tempo vengono acquisite dai lavoratori che fine fanno? Un lavoratore non può essere somministrato a vita in un’Amministrazione Pubblica, pur cambiando agenzia, vi sono dei limiti che impone la Legge, in primis quelli previsti dal D.Lgs 165/2001 per il t.d., e se, nonostante le riserve previste dal decreto D’Alia, la P.A. non indice alcun concorso, l’Ufficio si dovrà privare di un valido elemento per cedere il posto a un altro inesperto somministrato?

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Quanto agli stessi lavoratori vi è, infine, da considerare un quarto ed ultimo problema. Queste persone lavorano con l’ansia perenne del contratto in scadenza, prorogato anche di soli tre mesi in tre mesi, senza alcuna prospettiva futura, senza la possibilità di acquistare neppure un monolocale, anzi nemmeno un TV a rate, perché nessuna finanziaria ne accetterà mai la richiesta. Queste persone, che da contratto osservano l’orario di 36 ore settimanali, di fatto ne fanno molte di più. Per conservare il proprio precarissimo posto farebbero di tutto, di questi tempi. E quel di più non è certo retribuito. Talora è svolto in remoto da casa: fogli Excel, lettere, documenti elaborati la sera tardi affinché siano fruibili e pronti per la firma del Capo Struttura domattina alle otto. Il tutto con la sudditanza psicologica del precario dinanzi al classico impiegato pubblico in attesa della pensione: magari quello entrato con la 285 e che si aggira nei corridoi col bicchierino da caffè in mano e si lamenta ogni giorno della Riforma Fornero che lo obbliga a stare ancora lì, che rivendica pretese sindacali ad ogni ordine superiore e che a sua volta ‘scarica’ le proprie responsabilità sul precario non incardinato.

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A questo punto rinnovo la domanda. Ma a chi conviene tenere ancora certi carichi sul libro paga? Che vantaggio c’è nell’impedire l’accesso nella P.A. a giovani ben più svegli preparati e bisognosi di lavorare. Non c’è spending che giustifichi i costi della somministrazione. Come ho dimostrato, il blocco del turnover è un paradosso contabile. Lasciamo quindi che chi pesa sul bilancio della P.A. senza apportare alcun contributo vada in pensione e lasciamo una volta per tutte la flessibilità fuori dagli Uffici Pubblici, che necessitano di continuità nell’erogazione dei servizi. E infine miglioriamo qualità ed efficienza. Come? Per esempio applicando l’art. 97 della Costituzione.

Michele De Sanctis

Germania, proporzionale per elezioni Ue: l’estrema destra può entrare a Strasburgo

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Di Tonino Bucci – Redazione Il Fatto Quotidiano

La Germania andrà a votare alle elezioni per il parlamento europeo con il proporzionale puro. I giudici della Corte costituzionale tedesca hanno stabilito con una sentenza di mercoledì scorso che la soglia di sbarramento del tre per cento è incostituzionale. Con la stessa motivazione, nel 2011, gli alti togati di Karlsruhe avevano abbassato dal cinque al tre per cento l’asticella per entrare nel Parlamento dell’Ue. Il meccanismo – recita in sintesi la sentenza – viola il principio “una testa, un voto” e introduce un discrimine tra gli elettori dei partiti grandi e quelli delle formazioni minori escluse dalla rappresentanza. I partiti maggioritari godrebbero di una facile rendita di posizione, in virtù del classico argomento del “voto utile”. Semplice, ma fino a un certo punto, perché gli stessi giudici di Karlsruhe finora hanno sempre difeso la soglia del cinque per cento, prevista invece dal sistema elettorale tedesco per il Bundestag e per i Landtag regionali. Due pesi, due misure, a seconda che si tratti dell’Europa o del parlamento tedesco.

Non sarebbe più logico e giusto che una democrazia matura funzioni senza imporre limiti all’esercizio del voto? In passato la Corte costituzionale di Karlsruhe si è pronunciata a favore del mantenimento della soglia del cinque per cento. L’opinione pubblica ha sempre avuto paura del proporzionale puro, ritenuto una delle cause storiche della frammentazione della Repubblica di Weimar e dell’ascesa al potere del nazismo. Il sistema elettorale attuale prevede infatti dei correttivi: una soglia di sbarramento al cinque per cento e una combinazione tra i due criteri, il proporzionale e il maggioritario. Gli elettori tedeschi ricevono due schede. Con la prima scelgono uno dei candidati in lizza nel proprio collegio e concorrono all’assegnazione di una metà dei seggi nel Bundestag. L’altra metà è ripartita in proporzione ai voti che i partiti prendono sulla seconda scheda.

Fino a oggi, sostengono i fautori dello sbarramento, questo sistema ha tenuto lontano gli incubi del passato e impedito l’ingresso di partiti estremisti nel Bundestag. La pensano così i due partiti principali, la Cdu di Angela Merkel e la Spd, alleati nel governo di grande coalizione. La Cancelliera e i socialdemocratici hanno accettato a malincuore l’abolizione della norma del tre per cento che fu votata da quasi tutti i partiti presenti nel Bundestag nella scorsa legislatura. Con la sola eccezione della Linke, la formazione della sinistra radicale tedesca, unica a gioire per la sentenza. “Ognuno ­- ha commentato il capogruppo parlamentare Gregor Gysi -­ potrà mettere una croce sulla scheda senza paura che il suo voto vada perso”.

Al ricorso hanno partecipato molte formazioni minori che sono fuori dal Bundestag. Alcune sono però rilevanti a livello regionale, come i Freie Wähler (Liberi Elettori), un partito populista che alle ultime elezioni in Baviera ha raccolto il 9% e che senza sbarramento potrebbe entrare nel parlamento europeo. Potrebbero rientrare in gioco anche i Pirati, che dopo una serie di affermazioni clamorose in alcuni Länder negli anni passati, a settembre dello scorso anno hanno fallito miseramente l’ingresso nel Bundestag. A scendere verso percentuali che si aggirano intorno all’uno per cento, sondaggi alla mano, ­ci sono gli animalisti, il Partito dei pensionati, il Partito della famiglia e le femministe del Partito della Donna. Qualcuno, con un po’ di fortuna, potrebbe guadagnarsi un seggio. Come metterla, però, con i partiti dell’estrema destra? La Npd, la principale forza della galassia neonazista, fino a oggi mai entrata nel Bundestag, potrebbe sedere nel futuro parlamento europeo in compagnia di altre formazioni sorelle come Alba Dorata.

Un argomento, anzi uno scenario, che inquieta non poco. Se si prendono i risultati delle europee del 2009, a Strasburgo oggi ­ senza la soglia del tre per cento ­ siederebbe anche Uschi Winkelsett, la candidata dei Republikaner, un’altra formazione populista di destra che vorrebbe diminuire la quota versata dalla Germania nelle casse dell’Unione Europea. Roba da Trattato di Versailles. Per chi evoca lo spettro di Weimar la soglia di sbarramento al Bundestag non si può toccare. Ma i costi per la democrazia tedesca cominciano a essere troppo alti. Alle elezioni per il Bundestag dello scorso settembre 6,9 milioni di voti sono stati cancellati, ben il 15,7 per cento degli elettori. Sono rimasti fuori i liberali della Fdp e l’Alternativa per la Germania (AfD), la formazione anti­euro nata di recente, entrambe poco al di sotto del cinque per cento. Senza di loro Angela Merkel è stata costretta a fare la grande coalizione con i socialdemocratici. I tempi, insomma, sono maturi per rivedere il sistema elettorale. Da noi, invece, Renzi ha imboccato la strada contraria. Oggi l’Italicum torna in discussione in aula. Compresa la norma sullo sbarramento dell’8 per cento per i partiti che corrono da soli. Al confronto, il sistema tedesco è uno scherzo.

Fonte: il Fatto Quotidiano

Innovazione: l’Italia è nel gruppo di coda, con Grecia e Ungheria. Bene solo Friuli, Piemonte ed Emilia

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Di Beda Romano. Da Il Sole 24 Ore del 4 marzo 2014

È una Italia ancora drammaticamente in ritardo quella che emerge da un rapporto della Commissione europea pubblicata oggi e tutto dedicato alla capacità dei paesi di innovare. Secondo la relazione, il paese è tra gli innovatori moderati, insieme alla Grecia e all’Ungheria. Neppure a livello regionale l’Italia riesce a fare sensibilmente meglio. Le regioni più brave in questo campo sono tutte nel Nord – il Friuli, l’Emilia Romagna e il Piemonte.

Nel rapporto annuale della Commissione, i paesi dell’Unione sono divisi in quattro gruppi: i paesi leader (tra i quali c’è la Finlandia e la Germania), i paesi che tengono il passo (fra questi l’Austria e la Francia), i paesi innovatori moderati (che vede l’Italia in compagnia di stati dell’Europa orientale o meridionale), e i paesi in ritardo (tre in tutto: Bulgaria, Romania e Lettonia). “Le differenze sul piano della resa innovativa tra gli stati sono ancora considerevoli”, avverte l’esecutivo comunitario.

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Secondo Bruxelles, l’Europa nel suo complesso sta colmando il divario con gli Stati Uniti e il Giappone nel settore dell’innovazione, ma molto lentamente. Secondo un indicatore della Commissione, la resa innovativa dell’Europa è pari a 0,630. In cima alla classifica sono la Corea del Sud (0,740) e gli USA (0,736). Il grado di capacità di un paese a innovare viene misurato sulla base di 25 indicatori che spaziano dal numero di dottorati ai successi brevettuali, agli investimenti in ricerca e sviluppo.

Ha commentato il commissario all’industria Antonio Tajani: “Maggiori investimenti da parte delle imprese, una forte domanda di soluzioni innovative europee e la riduzione degli ostacoli che si frappongono all’applicazione commerciale delle innovazioni sono la chiave della crescita. Abbiamo bisogno di imprese maggiormente innovative e di un contesto favorevole alla crescita al fine di portare efficacemente le innovazioni sui mercati”.
Ha aggiunto il commissario alla ricerca Máire Geoghegan-Quinn : “Con un bilancio di quasi 80 miliardi di euro per i prossimi sette anni, Orizzonte 2020, il nostro nuovo programma di ricerca, contribuirà a mantenere la spinta propulsiva”. L’Italia ha risultati inferiori alla media per la maggior parte degli indicatori. I punti deboli sono nella bassa presenza di dottorandi extraeuropei e nelle poche imprese innovative che collaborano con altre. I punti di forza si osservano nelle co-pubblicazioni scientifiche internazionali.

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Spiega la Commissione: “Un’analisi del periodo 2004-2010 indica che i risultati sul piano dell’innovazione sono migliorati nella maggior parte delle regioni europee (155 su 190). Per più della metà delle regioni (106) l’innovazione è progredita a un ritmo anche maggiore della media dell’UE. Nello stesso tempo la resa innovativa è peggiorata in 35 regioni ripartite in 15 paesi. Per quattro regioni la resa è addirittura calata bruscamente, superando mediamente all’anno il -10%”.
L’Italia conta tre regioni che tengono il passo (Friuli, Piemonte ed Emilia Romagna). Tutte le altre – comprese la Lombardia, il Veneto o il Lazio – innovano solo moderatamente. I motivi di questo ritardo italiano sono economici, politici e culturali. Da un lato, l’enorme debito pubblico limita certamente il margine di manovra del bilancio pubblico negli investimenti in ricerca. Dall’altro, il clientelismo frena l’innovazione, preferendo la lealtà familistica alla capacità inventiva.

Fonte: Il Sole 24 Ore

BACK TO 1977. Disoccupazione da record: sale al 12,9%

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Record dei senza lavoro a gennaio 2014. Nello scorso mese di gennaio la disoccupazione è balzata al 12,9%, un aumento dell’1,1% su base annuale, mentre la disoccupazione giovanile è salita al 42,4%. Le rilevazioni sono state effettuate dall’Istat. Un tasso così alto di disoccupazione non si vedeva dal 1977. La percentuale dei disoccupati è, infatti, la più alta tra quelle registrate dall’Istituto di statistica dall’inizio delle serie sto­ri­che nel 1977.
Secondo i rilevamenti Istat, aumenta anche il numero dei cd. “scoraggiati”, quelli cioè che hanno ormai rinunciato a cercare lavoro: il dato si attesta intorno ai 2 milioni.
L’Istat segnala, inol­tre, il crollo dell’occupazione anche tra i pre­cari. Gli «ati­pici», così ven­gono defi­niti, sono dimi­nuiti di 197 mila unità.

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Di fronte a queste cifre e alle voci sempre più insistenti sul contenuto del Jobs Act, non siamo certi che sia sufficiente introdurre altra flessibilità nel mercato del lavoro per innescare un fenomeno di controtendenza e così miglio­rarne l’efficienza. L’Italia ha già assecondato il FMI e la Commissione UE (oltreché la Signora Merkel) e il risultato è stata una disastrosa riforma che ha persino creato una nuova categoria di senza lavoro e senza reddito, quella degli esodati. Dai rumors intorno al Jobs Act si apprende infatti la volontà dell’Esecutivo di intro­durre un nuovo con­tratto di inse­ri­mento, sospen­dendo l’articolo 18 (sic!) per tre anni a bene­fi­cio delle imprese. La finalità è quella di creare nuova occu­pa­zione, ma sospen­dere i diritti sui nuovi con­tratti di inse­ri­mento, impro­pria­mente defi­niti dal Jobs Act ‘con­tratto unico’ equivale a pre­ca­riz­zare ulteriormente il lavoro.
Bisogna puntare, invece, al repe­ri­mento delle risorse neces­sa­rie a finan­ziare il sus­si­dio uni­ver­sale di disoc­cu­pa­zione, prima di mirare alla riforma dei contratti di lavoro. L’estensione dell’Aspi isti­tuita dalla riforma For­nero, infatti, susciterà nei prossimi giorni forti polemiche, soprattutto se quei fondi verranno tolti alla Cassa Integrazione in deroga, come pare dalle prime indiscrezioni. Ma l’estensione è oramai divenuta necessaria per tanti, vitale per troppi. Nel contempo, il mondo del lavoro ha altresì bisogno di inve­sti­menti pub­blici per far ripar­tire la cre­scita, e di finanziamenti finalizzati al taglio del cuneo fiscale, almeno da 10 miliardi di euro come prospettato anche dal leader della minoranza PD Cuperlo e dalla CGIL.
Le cifre sulla disoccupazione sono più che preoccupanti: aumentano un allarme sociale, giunto ormai a livelli altissimi, a cui il Governo sarà chiamato a breve a dare una risposta.

Michele De Sanctis

Le banche italiane sono le più esposte (dopo l’Austria) in Ucraina con oltre 5 miliardi di dollari (nel 2013)

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Di Vito Lops (Il Sole 24 Ore del 3 marzo 2014)

Le tensioni in Ucraina spaventano i mercati finanziari. Il rublo è a picco, le Borse in netto ribasso. Il G7 ha condannato l’iniziativa di Mosca che ha avuto l’ok del Parlamento ad un’operazione militare in Crimea. La Russia ha però l’appoggio della Cina.
A Piazza Affari vanno male le banche e, in particolare Unicredit che è una delle 10 più grandi banche prestatrici in Ucraina, con un’esposizione complessiva di 2,3 miliardi di euro (poco meno 3 miliardi di dollari al cambio attuale). L’istituto di Piazza Cordusio opera con la controllata Ukrsotsbank. Giù anche Intesa Sanpaolo, che però ha lasciato il Paese lo scorso gennaio con la cessione di Pravex Bank.
Secondo un’elaborazione della Banca dei regolamenti internazionali (aggiornata al terzo trimestre 2013) gli istituti italiani, tra quelli stranieri, sono i più esposti all’Ucraina dopo quelli austriaci per un totale di oltre 5 miliardi di dollari. Gli istituti austriaci superano i 7 mentre decisamente più residuale è l’esposizione degli istituti statunitensi, tedeschi e britannici (intorno, e anche meno nel caso del Regno Unito) al miliardi di dollari.
Nel complesso l’esposizione in Ucraina da parte di banche europee ammonta a 23 miliardi di dollari.

Fonte: Il Sole 24 Ore

I bosniaci hanno fame in tre lingue

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Di Wolfgang Petritsch, Ambasciatore dell’Austria alle Nazioni Unite, ex Alto Rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina , articolo pubblicato originariamente su BalkanInsight il 19 febbraio 2014.

La Bosnia Erzegovina deve tornare ad essere una priorità per l’Europa: serve un nuovo Piano Marshall per portarla sulla strada dell’Unione Europea. L’appello di Wolfgang Petritsch, ex Alto Rappresentante a Sarajevo
(Questo articolo è stato pubblicato originariamente su BalkanInsight il 19 febbraio 2014)
La Bosnia deve sfuggire al vicolo cieco in cui si è persa, attraverso una riforma radicale del suo fallimentare sistema politico e con l’aiuto di un nuovo Piano Marshall europeo.
E’ troppo presto per valutare l’impatto delle proteste sociali delle ultime settimane sul futuro del paese. Tuttavia, è il momento di trarre alcune conclusioni dal grido pubblico che ha risuonato superando le divisioni etniche e lasciando il potere politico in uno stato di confusione.
Una cosa è certa: dopo Tuzla, Sarajevo e le tante altre manifestazioni di rivolta dal basso, la Bosnia Erzegovina non sarà più la stessa. Ha iniziato a parlare in una sola lingua.
In primo luogo bisogna riconoscere che, a partire dalla proteste davanti al Parlamento l’estate scorsa a Sarajevo, il discorso pubblico si è spostato da una “politica della paura”, guidata etnicamente alla questione della risoluzione dei bisogni fondamentali per tutti i cittadini.
Oggi vedo soltanto un elemento di unione in un paese diviso: “siromaštvo”, la povertà.
Indipendentemente dall’origine etnica, la povertà colpisce bosniaci, croati, serbi, ma anche “gli altri di Dayton” da anni.
Il mio appello disperato ai politici locali è di abbandonare la retorica di odio ed esclusione e unirsi a lavorare per le persone.
Bruxelles, d’altro canto, è da biasimare per l’assenza di una guida decisa e per la perdita di interesse verso la Bosnia. La routine burocratica ha preso il posto dell’impegno politico. L’UE ha una delle sue più importanti missioni a Sarajevo, ma non è stata in grado di invertire la spirale negativa del disastro sociale ed economico bosniaco. Questa situazione deve cambiare.
Suggerisco un approccio su due fronti:
1. La riforma del sistema politico. La Bosnia deve diventare uno stato funzionale: democratico, europeo e al servizio dei cittadini. In virtù del suo disegno multietnico, la Bosnia ha bisogno di una struttura di governance decentrata ed efficiente (così come ne ha bisogno l’UE). Non c’è spazio in Europa per feudi separatisti, né in Republika Rspska, né in Federazione, dove molti politici non vogliono unirsi all’UE perché temono di perdere il proprio status privilegiato.
Chi ha bisogno di 140 ministri e di 800 parlamentari, e di un budget di cui circa il 50% è destinato alla burocrazia? Sicuramente non i cittadini bosniaci, che da tempo hanno capito che l’unico posto di lavoro sicuro è la politica, dove, una volta arrivati, si cerca di restarci sperando che duri il più possibile. I cambiamenti costituzionali sono inevitabili.
Quando negli USA, dove lavoro adesso, parlo di questa tremenda confusione, i miei interlocutori sono increduli. “Questo per 3,8 milioni di abitanti?”, mi chiedono.
2. Un Piano Marshall europeo per la Bosnia. Con questo intendo un “patto” economico e sociale che affronti gli effetti di vent’anni di assistenza economica fallimentare. Deve essere basato su cosa ha funzionato (la guerra è stata fermata, la ricostruzione ha avuto luogo) e su cosa non ha funzionato (troppe cose). Un piano completo per il futuro della Bosnia deve essere ideato tra le forze riformatrici locali e l’UE. Tutti sanno cosa c’è bisogno di fare, ma nessuno lo fa. Cambiamo questo stato di cose e costruiamo uno stato per i cittadini. Tutti i cittadini.

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Wolfgang Petritsch (Foto Luka Zanoni)

Di fondi ce ne sono in abbondanza. Pensiamo a questo: solo l’anno scorso la Bosnia ha perso 45 milioni di euro a causa dell’incapacità dei politici di rispettare persino le condizioni più basilari. Centinaia di milioni di fondi europei sono a rischio per il settennio 2014-2020.
Un altro esempio: da quando la vicina Croazia è entrata nell’UE, le esportazioni dalla Bosnia si sono fermate a causa della mancanza di leggi adeguate in materia sanitaria.
L’economia bosniaca sta perdendo ancora perché i politici si accusano l’un l’altro piuttosto che fare il proprio lavoro. Ci sono fondi ed opportunità notevoli; quello che manca è la volontà politica di metterli a frutto.
Le due misure che propongo, portate avanti congiuntamente, prospettano una seria strategia per il cambiamento. Due aspetti vengono subito alla mente: la Bosnia deve ritornare ad essere una priorità europea. Con la leadership di Bruxelles, paesi vicini ed amici come l’Austria devono fare un passo verso le proprie responsabilità e investire, politicamente, economicamente e nell’educazione. Dopo tutto, la Bosnia non è neanche un decimo dell’Ucraina.
L’UE ha bisogno di nuovi partner. Le vecchie élite, molte ancora attive dai tempi della guerra, devono ammettere di aver completamente fallito, e trarne le conseguenze. Questa è una buona opportunità per loro, che hanno le più grandi responsabilità per il disastro bosniaco, di lasciare la politica. Farebbero al paese e ai cittadini il loro ultimo, grande favore.
La questione è: chi potrebbero essere questi nuovi attori? Difficile da dire, ma la risposta va cercata. Cittadini, lavoratori, accademici e politici non corrotti (molti politici si sono dimessi!) devono prendere sul serio il mio appello.
Io credo profondamente che queste proteste siano un’opportunità storica per la Bosnia; temo, l’ultima.
Posso soltanto sperare che presto ci sarà una leadership civica ed un programma di riforma con una comune visione per la Bosnia che sia realistica nelle sue richieste; che superi le divisioni etniche, che sia aperta ma che abbia cura della selezione dei partecipanti a questo processo.
Ai partiti che ora hanno perso ogni credito non deve essere permesso di infiltrarsi nel nuovo movimento civico. Sento dire dai miei amici bosniaci che molti sono delusi di alcuni accademici, funzionari e ONG che mantengono relazioni troppo intime con gli attuali leader dell’etno-politica.
La cosiddetta comunità internazionale, infine, che ha perso interesse per la Bosnia da tempo, deve capire che il suo intervento umanitario negli anni Novanta (pieno di buone intenzioni) ha fatto il suo corso. Vent’anni dopo la fine della guerra nuove strutture devono rimpiazzare gli assetti di Dayton, a partire dall’Ufficio dell’Alto Rappresentante.
Gli Stati Uniti, l’UE, la Germania e altri devono unirsi e dare alle proprie politiche un impeto nuovo.
La Bosnia deve essere portata irreversibilmente sulla strada verso l’Unione europea. L’ingresso nell’UE non avverrà domani; ci vorrà tanto tempo. Ma il viaggio deve iniziare immediatamente, sostenuto da tante voci civili che parlano una sola lingua.

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

Almost Europe

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Nei 55 scatti in bianco e nero che compongono il suo libro, Luca Nizzoli Toetti racconta le realtà in divenire dei paesi lungo le frontiere orientali dell’Europa, dall’exclave russa di Kaliningrad fino al Bosforo.Con uno sguardo poetico e delicato, l’autore (Premio Chatwin 2010) costruisce un personale “itinerario emotivo” attraverso territori dai confini labili e sfumati, che in un futuro non troppo lontano potrebbero entrare a far parte dell’Unione. Le immagini, molto curate, rivelano una grande maturità tecnica e nell’editing sono volutamente accostate in modo non cronologico né sequenziale da un punto di vista geografico. Questo lento periplo sul filo delle frontiere nate dal crollo dell’URSS ci restituisce suggestioni visive e atmosfere fatte di sguardi, piccoli gesti, momenti di vita quotidiana colti con incredibile sensibilità e un velo di ironia.
“Con il mio mestiere soddisfo un desiderio di libertà errabonda, di fuga dai vincoli territoriali, ideologici, professionali che sviluppo lontano dai veloci e superficiali meccanismi dei media e metto in atto nel più semplice dei modi: camminando e fotografando”, leggiamo nella postfazione.
Al di là della vecchia cortina, esistono luoghi ancora lontani e inaccessibili, ovattati dagli echi di una propaganda antisovietica non del tutto dissolta e, per questo, difficilmente comprensibili. Le imponenti e sperdute stazioni russe, il litorale ucraino, le brulicanti città delle repubbliche baltiche, i bar di Istanbul, le piazze di Chişinău. “Libero fruitore dell’eventualità”, senza mappe né appuntamenti prestabiliti, l’autore si perde in questi mondi inesplorati come un viaggiatore di fine ottocento, immergendosi “nella massa frettolosa con lentezza, senza far nulla ma inseguendo ogni cosa”.
L’intervista di Babelmed
Cosa l’ha spinto verso quei territori?
Volevo cercare l’Europa dove ancora non c’è e trovare qualcosa che mi parlasse del nostro passato recente, di trenta, quarant’anni fa. Mi interessava parlare di luoghi poco noti che presto, forse, faranno parte dell’Unione europea, anche se alcuni dei paesi che ho attraversato dubito che ci riusciranno. La domanda di fondo che mi ha spinto a partire è stata: “cos’è l’Europa? cosa sono gli europei?”. Ho cercato delle risposte osservando la vita quotidiana delle persone che abitano ai confini orientali di questa entità politica e geografica ma ho trovato solo molte fotografie e tanta gente che si sta chiedendo la stessa cosa…
Qual è stato il suo approccio da un punto di vista fotografico?
Ho scelto di lavorare cogliendo i particolari di quello che succede e che vedo mentre cammino. L’urbanizzazione selvaggia e la quasi totale dipendenza dalle automobili ci costringono a seguire troppo spesso percorsi obbligati e per questo raramente attraversiamo un territorio vivendolo fino in fondo. Alzare la testa e camminare diventa quindi un atto sovversivo, politico. Abbandonare per un momento gli smartphone che occupano ogni pausa delle nostre frettolose giornate, deviare dai percorsi noti, perderci in luoghi sconosciuti lasciandoci stupire dalla realtà che ci circonda. È questo che mi spinge a fotografare. Non uso mai le mappe quando sono in viaggio: le consulto prima di partire e poi provo a riorientarmi sul territorio creandomi dei nuovi punti di riferimento.
Cosa lo ha colpito di più del viaggio?
Non essendo un esperto di geopolitica, non posso esprimermi sulla situazione di quei posti ma attraversandoli, parlando con la gente, vivendone le atmosfere ho sicuramente riscontrato una forte nostalgia per un passato che è stato spazzato via in pochissimo tempo e in modo forse troppo violento. Le persone dell’Est considerano ancora il periodo comunista come un momento di grande disponibilità e umanità, di apertura e condivisione, supporto reciproco. Il nostro punto di vista su quell’epoca storica non può essere obiettivo per via della pesante propaganda anti-russa che era molto diffusa in occidente, ma lì è ancora visibile il retaggio di una grandezza che non si è persa. E anche se l’ideale socialista non c’è più, restano comunque sue tracce indelebili nell’imponente architettura sovietica, onnipresente.

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Qual è l’atteggiamento dei giovani di questi paesi rispetto all’Europa?
Alla gente non manca l’Europa, né un’economia diversa. Le persone vorrebbero magari un po’ di ricchezza in più ma alla base del loro disagio c’è la libertà di movimento negata. Per muoversi hanno bisogno del visto e molti non riescono a ottenerlo per viaggiare liberamente e scoprire il mondo, che dovrebbe essere un diritto di tutti. L’elemento più forte è, dunque, un desiderio di mobilità condiviso, soprattutto tra i giovani.
Il tuo è in qualche modo anche un lavoro sul confine, sulla frontiera. Potrebbe dire qualcosa a riguardo?
Il tema dei muri mi affascina molto, ma ciò che mi interessa approfondire va al di là dei muri fisici che vediamo nel mondo. Venticinque anni fa, quando è caduto quello di Berlino, abbiamo assistito all’abbattimento di una barriera di mattoni che per molto tempo aveva separato due mondi che finalmente potevano riavvicinarsi. Oggi ci sono altre dinamiche, altri muri, più invisibili e sofisticati che il progresso tecnologico ci ha costruito attorno: sono i nostri corpi, sempre più isolati, sono gli smartphone che usiamo di continuo e che filtrano la realtà esterna, sono il bombardamento mediatico che ci riempie di notizie nell’illusione di informarci in modo adeguato.
“Almost Europe” è stato realizzato grazie a un sistema di prevendite on line. In che modo?
Si tratta di un sistema che andava molto di moda all’inizio del secolo scorso e che ora si sta diffondendo di nuovo per far fronte alla crisi dell’editoria. Prima di ogni nuova tappa del viaggio, ho lanciato una campagna di raccolta fondi per finanziare gli spostamenti in programma specificando di volta in volta gli itinerari e offrendo ai donatori alcuni scatti realizzati grazie al loro contributo, firmati e numerati. Così, prima che l’opera fosse stampata, ne erano già state vendute 120 copie.

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Quali saranno le sue prossime tappe?
Sto già lavorando a un secondo viaggio attraverso l’Europa: dalla Scandinavia alla Sicilia in treno, grazie allo stesso metodo di finanziamento dal basso. E in futuro mi piacerebbe immaginare un itinerario da Cascais fino alle Repubbliche baltiche.

Luca Nizzoli Toetti, Almost Europe,
Postcard, Roma, Ottobre 2013
122 pagine, b/n, 25 euro.
www.almosteurope.eu

Fonte: Babelmed

La Francia con le spalle al muro davanti a uno shock deflazionistico

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L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali…

Il presidente francese François Hollande deve ora pagare il prezzo per essersi piegato alle politiche recessive dell’eurozona. Il suo paese sta entrando in deflazione.

In gennaio i prezzi in Francia sono scesi dello 0,6% rispetto al mese precedente e sarebbero scesi anche di più se non ci fosse stato un aumento della tassazione una tantum.

I prezzi dei prodotti manifatturieri sono scesi del 3% e il vestiario è sceso del 15,4%, visto che i rivenditori hanno abbassato i prezzi per svuotare i magazzini.

In Francia i prezzi “core” (esclusi alimentari ed energia, ndt) sono in caduta da mesi, anche se l’indice core dei prezzi al Consumo calcolato su base annuale è ancora lievemente positivo, allo 0,1%.

Questa situazione è esattamente quella che un anno fa l’Observatoire Economique aveva previsto che si sarebbe verificata in seguito alle politiche restrittive dell’eurozona, ossia in presenza di una triplice stretta di austerità fiscale, politica monetaria passivamente restrittiva, e drastica contrazione dei prestiti bancari.

Sorpresa, sorpresa! L’aggregato monetario M3 dell’eurozona è in contrazione fin dallo scorso marzo.

Molti ridevano delle previsioni dell’Observatoire. Adesso nessuno ha più voglia di ridere. Come ha detto l’IMF la scorsa notte, manca solo uno shock esterno perché l’Europa sprofondi decisamente in deflazione.

“Un nuovo rischio per l’attività economica deriva da un’inflazione molto bassa nelle economie avanzate, soprattutto nell’eurozona che, se dovesse rimanere sotto il proprio obiettivo di inflazione per un periodo prolungato, potrebbe compromettere le aspettative di inflazione a lungo termine. Una bassa inflazione comporta il rischio di deflazione in caso di un grave shock negativo dell’economia. Nell’eurozona, la bassa inflazione complica anche il compito della periferia dove il peso reale del debito sia pubblico che privato aumenterebbe in seguito all’aumento dei tassi di interesse reali.”

Da dove lo shock potrebbe arrivare, non è un mistero. La Fed e la Banca centrale cinese stanno facendo politiche restrittive, provocando una tempesta nei mercati emergenti che si sta aggravando di giorno in giorno.

Una lunga lista di paesi sono obbligati ad alzare i tassi di interesse per difendere le loro valute, creando un ulteriore impulso alla contrazione. Alcuni di questi paesi stanno uscendo fuori dai binari tutti contemporaneamente.

Gli ottimisti hanno una fede commovente nella locomotiva tedesca, che secondo loro dovrebbe tirare l’eurozona fuori dalla palude, ma i dati più recenti dimostrano che i salari tedeschi sono scesi dello 0,2% nel 2013. Anche la Germania è in deflazione salariale.

Il che fa sorgere la domanda: come diavolo faranno la Francia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia a recuperare la competitività del lavoro perduta nei confronti della Germania tramite delle “svalutazioni interne”, se i salari tedeschi sono in calo?

Questo costringe tali paesi ad entrare in una deflazione salariale ancor più profonda per colmare il divario, cosa che a sua volta porta le dinamiche del debito fuori controllo, poiché l’effetto denominatore peggiora la situazione.

Esiste una soluzione tecnica per questo. Si chiama Quantitative Easing. La Banca Centrale Europea può allontanare dagli scogli l’intero sistema UEM lanciando un blitz monetario per centrare il proprio target di crescita M3 del 4,5%.

Purtroppo, la Corte costituzionale tedesca ha appena sollevato l’asticella della politica sul QE a un livello così alto che la BCE dovrà attendere l’urto sugli scogli prima di reagire, e allora sarà troppo tardi.

Contrariamente a quanto si crede comunemente, nei trattati non c’è nessun divieto contro il QE. Mario Draghi ha detto esplicitamente che “non è illegale” e rimane un’opzione in extremis.

Maastricht vieta la monetizzazione del deficit ma non le operazioni di mercato aperto (QE) necessarie per mantenere la stabilità monetaria.

Il presunto vincolo è interamente politico e ideologico, e spinto dal timore che gli euroscettici tedeschi possano contrastarlo nei tribunali.

Così abbiamo una situazione di stallo. Cosa succede ora, se le polveri bagnate della ripresa dell’eurozona ancora una volta non prendono fuoco? Il destino del Giappone è dietro l’angolo.

Fonte: Goofynomics

Traduzione: Voci dall’estero

Gli invisibili dell’Europa

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Di Barbara Spinelli, pubblicato su La Repubblica 26/02/2014

Il dolore sta producendo risultati”: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse.

Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: “Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”.

Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo.
“Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica”, constata la rivista, “ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista”. Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.

Né è solo “questione di comunicazione” sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi “sono alle prese con resistenze sociali molto forti”. Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.

Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20.

Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta.

Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne.
Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.

La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: “L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali” – “l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale”. Nessuno sa quale contributo.

Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi “interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale”. Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani. Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ’14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: “Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà”.

La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.

Fonte ALBA SOGGETTO POLITICO NUOVO

Capital Economics: gli Olandesi Starebbero Meglio se Uscissero dall’Euro

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Bruno Waterfield (The Telegraph – Londra)
Bruno Waterfield commenta sul Telegraph un recente studio pubblicato dall’istituto internazionale di ricerca macroeconomica Capital Economics, già vincitore del Premio Wolfson per l’Economia nel 2012 con uno studio sul miglior modo per smantellare la moneta unica. Secondo Capital Economics gli Olandesi avrebbero grandi vantaggi economici ad abbandonare sia l’euro che l’Unione Europea. Lo studio è stato commissionato dal politico “euroscettico” Geert Wilders, tuttora in testa ai sondaggi in Olanda. L’articolo del Telegraph: “Secondo un importante studio, ci sarebbero grandi benefici economici per gli olandesi se lasciassero l’UE. Secondo un recente studio, se l’Olanda abbandonasse euro e Unione Europea la famiglia media olandese starebbe meglio per l’equivalente di oltre 8000 sterline l’anno e il reddito nazionale olandese crescerebbe di oltre mille miliardi. Lo studio sul Nexit, termine che designa una potenziale uscita dell’Olanda, condotto dalla sezione britannica della rispettabile società di ricerca Capital Economics, riporta che ci sarebbero significativi benefici durante i prossimi due decenni se il paese cambiasse la sua appartenenza all’UE con uno status simile a quello che hanno Svizzera o Norvegia. “Un’eventuale decisione di lasciare l’UE è prima di tutto una decisione sociale, culturale e politica. Ruota attorno a questioni che riguardano la sovranità nazionale, la cittadinanza e la libertà di autodeterminarsi,” sostiene il report. “Ci sono comunque anche delle buone ragioni per ritenere che un paese, svincolandosi dalla burocrazia di Bruxelles e diventando capace di prendere decisioni da solo, anziché lasciarsi imporre delle politiche in stile taglia-unica-adatta-a-tutti, trarrebbe dei benefici anche dal punto di vista economico.” La ricerca è stata colta al volo dagli euroscettici per contrastare quelli che essi ritengono degli avvertimenti allarmistici da parte di leaders del mondo delle imprese e politici mainstream sul presunto tracollo economico della Gran Bretagna se lasciasse l’UE. “Questo report è significativo perché è stato prodotto da un gruppo di ricerca credibile della City. Non può essere liquidato tanto facilmente,” ha dichiarato Douglas Carswell, un parlamentare conservatore del collegio elettorale di Clacton. “Dimostra che non siamo più soli. Non siamo solo noi britannici ad avere capito che l’integrazione europea è difettosa fin dalle basi. Noi siamo molto simili agli olandesi, un piccolo paese che ha prosperato commerciando su scala globale. Pensate cosa potrebbero essere paesi come i nostri in un tipo diverso di Europa.” Pur riconoscendo i rischi di un’uscita dall’UE, Capital Economics conclude il report sostenendo che l’Olanda, paese creditore dell’eurozona con rating AAA, starebbe meglio fuori dall’UE a causa della minaccia alla sua ricchezza a lungo termine posta dai problemi strutturali della moneta unica europea. “Ci sono ovviamente dei rischi a lasciare l’unione – e questi devono essere riconosciuti e affrontati da tutti nel momento in cui si considera il Nexit,” dice il report. “Ma ci sono anche dei rischi significativi nel restare dentro il blocco dei paesi che condividono una moneta che ha dei difetti fondamentali. Qui la nostra analisi mostra che l’Olanda farebbe meglio a riprendere il controllo del proprio destino, anzichè mantenere un atteggiamento del tipo ‘si vedrà’.” Il report conclude che il reddito nazionale olandese potrebbe crescere per un ammontare pari a 1500 miliardi entro il 2035, portando un aumento della ricchezza di circa 9800 euro a famiglia ogni anno. Anche se l’Olanda non fosse in grado di ottenere accordi come quelli concessi a Svizzera e Norvegia, che sono nel mercato unico europeo pur non essendo membri dell’UE, “l’economia sarebbe in condizioni migliori restando fuori piuttosto che dentro l’unione,” sostiene il report. Lo studio indipendente era stato commissionato da Geert Wilders, leader del partito olandese anti-UE, il Freedom Party, per valutare i costi che l’Olanda dovrebbe affrontare lasciando l’Unione, giacché lui è in testa ai sondaggi nazionali per la corsa alle elezioni europee di questa primavera. “Al contrario di quanto di quanto affermano gli allarmisti, la nostra economia non s’inchioderebbe. Anzi, guadagneremmo miliardi rispetto ad ora,” ha detto. “All’inizio ci sarebbe un periodo di transizione per passare, ad esempio, dall’euro al fiorino. Ma passato quello, l’economia crescerebbe molto più di ora, un dieci percento in più entro il 2024 e un tredici percento entro il 2035.” ha concluso. Sondaggi d’opinione svolti da Maurice de Hond in Olanda hanno rilevato che una maggioranza del 55 percento sarebbe favorevole a lasciare l’UE se si dimostra che ciò porterebbe una maggiore crescita economica e alla creazione di posti di lavoro. Nel 2012 Capital Economics aveva vinto il prestigioso premio Wolfson per uno studio su come gestire uno smantellamento ordinato dell’euro, durante il picco della crisi del debito in Europa. Lo studio, lungo 164 pagine, sdrammatizza i costi e la turbolenza implicati dall’uscita dall’euro. “Ci sono costi economici per lasciare l’UE, specialmente legati al fatto di dover rimpiazzare la moneta unica con una moneta nazionale. Ma questi costi sono modesti e gestibili,” afferma. Molta della crescita economica prevista in caso di abbandono dell’UE, in un paese dominato dal porto di Rotterdam, viene da una “crescita più veloce delle esportazioni verso i mercati non-europei, dovuta alla possibilità di negoziare e commerciare con economie emergenti in rapida crescita senza essere vincolati alle politiche comunitarie europee sul commercio”. Attualmente molti accordi di libero scambio nell’UE sono sospesi o impantanati nei dissensi interni tra paesi più orientati al libero scambio come Gran Bretagna e Olanda e i paesi più protezionisti del blocco latino guidati da Francia e Italia. Il report sul “Nexit”, un’espressione che mescola l’abbreviazione della parola “Netherlands” (cioè “Paesi Bassi”, ndt) e la parola “exit” (cioè “uscita”, ndt), considera anche che ci sono vantaggi economici nello stare fuori dall’UE, tra cui una riduzione dei costi per le imprese per “un minimo di 20 miliardi all’anno entro il 2034, attraverso il ritorno a una regolamentazione nazionale nelle aree attualmente sotto la giurisdizione delle istituzioni di Bruxelles”. Complessivamente, il rapporto conclude che gli olandesi sarebbero in grado di gestire la propria economia “in modo più efficiente avendo la libertà di stabilire delle politiche monetarie e fiscali su misura per le condizioni del loro paese, e non su misura dell’intera eurozona”. Lo studio riporta anche di una “riduzione della spesa pubblica di minimo 7,5 miliardi di euro all’anno sino al 2035, per il fatto di non essere più legati alle leggi UE sulla libera circolazione e “attraverso una revisione delle politiche sull’immigrazione per orientarle più strettamente su coloro che possono dare un contributo economico”. Lo studio contraddice un precedente studio ufficiale olandese sui benefici dell’appartenenza all’UE, calcolati in Olanda sui duemila euro all’anno a persona. Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle finanze olandese nonché presidente dell’eurogruppo, ha attaccato l’idea del Nexit come “decisamente imprudente”, e ha difeso la moneta unica europea. “Lo leggerò, ma so una cosa per certo: l’Olanda è una potenza economica dell’Europa. Noi guadagnamo la maggior parte della nostra ricchezza commerciando con paesi dell’UE, per cui l’Olanda ha decisamente interesse ad avere un mercato interno in cui il commercio sia facilitato” ha detto. “C’è anche la moneta unica. Attualmente è molto forte e le condizioni dell’eurozona adesso appaiono molto migliorate rispetto ad alcuni anni fa. Non c’è motivo di intraprendere nuove avventure. Sarei decisamente contrario.”

Fonte: Voci dall’estero