Il futuro del pianeta dipende dalla possibilità di dare a tutte le donne l’accesso all’istruzione e alla leadership. È alle donne, infatti, che spetta il compito più arduo, ma più costruttivo, di inventare e gestire la pace.
Rita Levi Montalcini
da Repubblica.it – Cultura 10/5/2014
Dai ricordi di una donna tedesca sopravvissuta al campo di concentramento affiora l’immagine di una bambina italiana, a cui la giovane deportata si era affezionata. Ma nella sua memoria c’è solo l’iniziale del nome. Con il direttore scientifico del prossimo museo della Shoah di Roma abbiamo provato a ricostruire le circostanze di quell’incontro. Poche possibili “Marta”, tante Mirella, Mimma, Milena… “Ma il lavoro di documentazione non è mai finito, noi continuiamo a raccogliere testimonianze”
di SIMONA CASALINI
“Una bambina bionda italiana, col volto dolce, improvvisamente era sgattaiolata vicino a me…la trovavo incantevole…Era arrivata ad Auschwitz con un grande convoglio italiano, sicuramente non era giunta da sola…Le ho dato da mangiare, riuscivo a organizzare qualcosa per lei, perché avevo qualche libertà nel lager…Un giorno però l’ho persa di vista perché mi ero ammalata di nuovo… quando tornai in piedi era sparita, avevano già ucciso quella piccola ebrea”.
Renate Lasker Harpprecht, la sopravvissuta tedesca che racconta il suo Olocausto nel campo di sterminio degli ebrei nell’intervista a Die Zeit che Repubblica ha pubblicato oggi , si sofferma in questo piccolo, dolce e tremendo ricordo nei giorni peggiori. “Il suo nome? Cominciava con la “M” – risponde l’ebrea novantenne – Marta, o qualcosa del genere”
Chi poteva essere quella bimba? E come mai una “bimba” è riuscita a stare per un pò nelle baracche degli adulti, dal momento che ad Auschwitz la quasi totalità dei bambini al di sotto dei dieci anni visti venivano immediatamente eliminati. Marta? Ma davvero la signora ricorda bene il nome? E’ un nome che non rientra in quelli tipici della tradizione ebraica: a quanto risulta dal libro della Shoah in Italia, formidabile database italiano sul peggiore dei crimini del ‘900, sarebbero state solo sei le donne ebree di nome Marta deportate dall’Italia ai campi di sterminio.
Marcello Pezzetti, lei è il direttore scientifico del prossimo Museo della Shoah di Roma. Chi poteva essere la misteriosa bimba incontrata da Renate Lasker Harpprecht?
“La prima cosa che mi viene in mente dopo aver letto la testimonianza è terribile: e cioè che i capelli biondi di quella bimba la signora tedesca li ha potuti vedere per pochissimo tempo. Tutti i deportati che entravano nei campi venivano nel giro di mezz’ora rasati a zero, e dunque anche la misteriosa bambina “M” avrà subìto quel trattamento. E ancora. E’ verissima la scena raccontata dalla sopravvissuta, quel “sgattaiolare” della piccola. Abbiamo molte testimonianze di genitori o parenti che, nella confusione del momento dell’arrivo sulla Judenrampe dove in pochi minuti dovevano essere smistate le famiglie ebree, davano delle spinte ai figli per farli fuggire da qualche parte, tentavano di allontanarli da loro col disperato tentativo di salvarli. E i bambini sbucavano da qualche parte del campo, come dal niente”.
Shoah, cercando la piccola M. LO SPECIALE INTERATTIVO
Scampata, ma per poco tempo, alla Shoah grazie alla “protezione” di una giovane deportata tedesca
“Circa 220 mila bambini vennero deportati ad Auschwitz, e la quasi totalità venne subito eliminata. Nei Kinderblock, le baracche dei piccoli, ne sono finiti solo una piccola percentuale ma solo quelli con qualche particolarità genetica: gemelli, o bambini con qualche deformità o con dettagli apparentemente di poco conto come le iridi di colori diversi e anche figli di genitori “misti”, uno cattolico e l’altro di religione ebraica. Servivano a Mengele per i suoi folli studi sulla presunta ereditarietà dei fattori negativi nei cromosomi degli ebrei e di quelli positivi del carattere ariano. Questa è l’atrocità della Storia. E pochissimi tra loro si sono salvati. Ma forse la bimba “M” aveva più di dieci anni, età discriminante tra bambini e adulti. Magari era piccolina di fisico, minuta, dimostrava meno dell’età dei suoi documenti. Milena Zarfati, ad esempio, aveva appena compiuto 15 anni ma appariva talmente piccina che finì nel blocco dei bambini. No, la bimba “M” non poteva essere lei perché Milena fu una delle pochissime del Kinderblock che riuscì a sopravvivere perché era stata messa al lavoro nelle fabbriche di munizioni per via delle dita sottilissime. E’ scomparsa lo scorso anno”.
La signora tedesca pensa di ricordare il nome “Marta” ed effettivamente risulterebbero sei le donne ebree con quel nome deportate dall’Italia ai campi di sterminio. Lei cosa pensa?
“Marta non è un nome ebraico, così come è raro, per motivi religiosi, che una ebrea italiana si possa chiamare Maria. Forse Mimma, diminutivo tipico di tanti nomi ebraici romani… E comunque, a quanto si sa finora, nessuna delle sei deportate italiane di nome Marta aveva l’età di “una bambina”. Allora, la più giovane, Marta Ascoli, triestina, aveva 17 anni: ma fu l’unica di loro sopravvissuta allo sterminio ed è scomparsa nel marzo scorso all’età di 87 anni. Direi di ripartire da “M”.
Probabilmente, ma non con la totale certezza, la sopravvissuta ha incontrato quella bambina italiana nell’ inverno del ’43. E ricorda che era arrivata ad Auschwitz “con un grande convoglio italiano”…
“I treni dei deportati erano tutti “grandi”, avevano minimo 500 persone, ma se dobbiamo focalizzare meglio il momento “il più grande convoglio italiano nel ’43” è uno solo, e non c’è modo di sbagliare: è quello proveniente da Roma, due giorni dopo la razzia nazista nel ghetto di Roma il 16 ottobre del ’43, con dentro 1022 ebrei, la quasi totalità romani: pochi uomini, tante donne, anziani e bambini. Qui però non risulta esserci nessuna bambina di nome Marta, e invece erano 11 le giovanissime con un nome che iniziava con la lettera M: l’età variava dai 3 anni di Mara Sonnino ai 19 di Mirella Astrologo. Marisa Anticoli e Mirella Terracina avevano nove anni, Mirella Di Tivoli 14, Milena Zarfati 15, Marisa Frascati era una undicenne. Marina Mieli ne aveva 6 e Marina Tedeschi 16 anni. Tra tutte solo Milena Zarfati ne uscì viva ed è scomparsa lo scorso anno. Chissa mai se è una di loro…”
E gli altri convogli di ebrei italiani nel ’43?
“Uno arriva da Firenze e da Bologna il 14 novembre, con circa 400 deportati dopo le retate in Toscana, Emilia Romagna e Liguria, e l’altro l’11 dicembre: proviene da Milano, da Verona e si unisce un altro treno da Trieste, in tutto 600 ebrei stipati nei carri-merci. E da Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo, arriva i primi di dicembre del ’43 un altro carico di prigionieri, la gran parte di loro sono ebrei di origine francese. Ma non risultano arrivate bambine col nome “Marta” né nel ’43, né nel ’44, con i convogli che cominciarono a giungere dal campo di raccolta di Fossoli fino a fine luglio. E con l’ultimo treno di deportati per Auschwitz che partì da Bolzano nell’ottobre del ’44. Va ricordato però che piccole con nomi italiani potevano provenire dalle deportazioni dalle isole greche e in particolare da Rodi”.
Cosa dice dell’affetto provato dalla donna tedesca per quella bimba “sgattaiolata”?
“E’ da brividi. Abbiamo molte testimonianze di deportate che hanno cercato di proteggere i più deboli, dava forza anche a loro, ma in più qui c’è il fatto che la donna è tedesca, capisce la lingua degli aguzzini, sa bene che quella bambina lasciata sola non ne uscirà viva. Magari è sgattaiolata via dalla rampa della selezione e per puro caso è finita dalla parte dei deportati che lavorano nel campo. Poi la bimba sarà stata portata nella “sauna”, sarà stata tatuata e alla fine riesce ad avere un pò di sollievo, a stare vicino alla sua “protettrice”. Ma era chiaro che, nel momento in cui la donna l’avesse dovuta lasciare – non volutamente, ma perchè ricoverata in infermeria- per lei lì non ci sarebbe stato scampo”.
La sopravvissuta tedesca dice che forse gli italiani non avrebbero compiuto queste atrocità con i bambini, così come hanno fatto i nazisti.
“Non è vero. Forse non l’avrebbero fatto in quella forma organizzata, ma prendere un bambino e darlo in mano a un nazista, così come hanno fatto, e ci sono centinaia di testimonianze, cos’era? Una parte non irrilevante di italiani ha anche cercato di salvare gli ebrei, dunque i rischi che correvano si conoscevano bene. E poi non sono certo immuni da atrocità: in Eritrea, nell’Africa coloniale non dimentichiamoci che gli italiani hanno gasato la popolazione civile”.
Il prossimo anno, nel 2015, ricorrono i 70 anni dell’apertura dei cancelli di Auschwitz. A cosa serve oggi quella Memoria sempre più lontana?
“L’Italia non ha mai fatto i conti su quel passato, continua a aggrapparsi all’idea che il nostro paese fu “vittima” del furore nazista. E invece non è vero: in quei crimini ne fummo alleati consenzienti e collaborativi. Soprattutto sulla questione ebraica. Nel ’46, poi, l’amnistia di Togliatti di fatto sanò tutti i reati legati alla persecuzione razziale. Anno dopo anno, si vanno spegnendo le voci dei testimoni diretti e invece bisogna continuare ad aprire tutti “gli armadi della vergogna”.
Secondo lei qualcuno potrebbe ricordare qualche altro dettaglio su questa storia: un parente, uno che vide, qualcuno che ha dei documenti di allora?
“Noi ogni giorno andiamo a cercare testimonianze. Chi vuole può mettersi in contatto con noi alla mail “info@museodellashoah.it”. Lo scorso anno, grazie alle famiglie che ce le hanno inviate, abbiamo ritrovato foto in cui si vede il volto dei soldati nazisti che parteciparono alla retata del 16 ottobre ’43. Ancora possiamo mostrarle a qualche sopravvissuto alla razzia che potrebbe riconoscerli ma fra pochi anni, di loro, gli ultimi testimoni diretti della Shoah, non ne resterà più nessuno”.
Fonte: La Repubblica
da Il Manifesto del 10/5/2014
Alcuni brani dall’introduzione di Luciana Castellina a “Famiglia e società capitalistica” (Il Manifesto, Quaderno n.1, Alfani Editore, 1974).
Alla battaglia per il referendum arriviamo stretti da tempi ridottissimi e in una situazione politica che tende a tal punto a precipitare in degenerazione istituzionale da sommergere il problema spec- ifico — quello dell’abrogazione del divorzio — entro una problematica enormemente più vasta, quella che risulta da una crisi economica profonda e da una acutizzazione dello scontro sociale in assenza di uno schieramento di opposizione già in grado di offrire un’alternativa compiuta. Ma sarebbe un errore ritenere che di fronte a questa situazione sia necessario eludere la battaglia sul problema che il divorzio propone, quasi essa rappresentasse una dannosa distrazione rispetto alle urgenze della lotta di classe. Proprio la diserzione della sinistra da questo terreno di confronto, oltre a farla oggi trovare «scoperta» rispetto all’attacco reazionario, ha contribuito a mantenere praticamente intatto un sistema di valori, di consuetudini, di strutture sociali, che costituiscono una radicata remota con- servatrice, che pesa inevitabilmente sulla dinamica del processo rivoluzionario. E’ un dato, questo, che se la pigrizia non prevalesse nell’analisi di come in concreto si sviluppa lo scontro di classe, fino a farci semplificare i protagonisti del conflitto entro lo schema di un proletario e di un capitale asso- lutamente astratti, sarebbe naturale riconoscere. E che invece tendiamo a non riconoscere, con la conseguenza di un pericoloso restringimento della nostra azione d’intervento.
Proprio l’ampiezza della crisi, di sistema e non congiunturale, in cui ci troviamo ad operare, dovrebbe farci rendere conto — se siamo convinti che dalla degenerazione del capitalismo non nasce automaticamente il comunismo, ma può derivarne anche caos e regresso per un lungo periodo sto- rico — di quanto vitale sia per la sinistra rivoluzionaria incidere sull’insieme dei rapporti sociali di produzione per avviare, nel corso stesso della crisi, la costruzione di un movimento di lotta capace di affrontare in positivo lo scontro che una drammatica frase di transizione ci prepara. E quando si dice insieme dei rapporti sociali di produzione non si può non intendere che quello specifico rapporto sociale che si esprime nella famiglia ne è parte certamente non secondaria.
Del resto, come non vedere quale riflesso moderato e conservatore hanno le paure prodotte dagli sconvolgimenti sociali che incidono anche sull’assetto familiare, sui modi in cui si organizzano i rap- porti umani, ove la sinistra non sia in grado, come non è stata finora, di proporre anche su questo terreno un’alternativa rivoluzionaria? Impedire il 1984, per usare la metafora di Gunder Frank
e Samir Amin, vuol dire, anche, combattere sul fronte, certo più difficilmente definibile, della ristrut- turazione che il capitalismo tenta al più generale livello dell’organizzazione sociale dell’ideologia;
e sarebbe puerile pensare di preparare la rivoluzione lasciando intatta una crosta ideologica che non è stata praticamente scalfita.
Se è vero, come ha detto Marx, che dal rapporto uomo-donna si misura il livello raggiunto da una civiltà, vuol dire che attorno a tale rapporto si annodano tutti gli altri e che è impossibile pensare di estromettere proprio questo epicentro dalla lotta rivoluzionaria, non vedere come esso di connette
e interseca con gli altri, non misurarvisi. Giudicare questa tematica di per sé interclassista, vuol dire negare in radice la capacità della classe operaia di affermarsi come classe egemone, cioè portatrice di una superiore e universale concezione del mondo. Qualcosa di simile, ma ancora più grave, di quel marxismo volgare e impoverito che alcuni decenni fa negava rilevanza di classe alle lotte di liber- azione nazionale.
Né vale a dire, che una battaglia specifica su questo terreno non ha senso, in quanto proprio perché l’assetto della famiglia dipende dal capitalismo, basta impegnarsi a scalzarne le fondamenta attra- verso la lotta economica di classe. L’esperienza della mancata rivoluzione in occidente e quella delle rivoluzioni che si sono fatte, dimostra quanto sia difficile, anzi impossibile, superare i rapporti capit- alistici di produzione solo movendo da una modifica della forma della proprietà o utilizzando la pian- ificazione dell’economia; come cioè sia parte integrante del superamento dei rapporti di produzione capitalisti la critica globale e positiva di tutte le dimensioni e gli aspetti dell’organizzazione della vita sociale.
Se è vero che non si può cambiare la famiglia senza cambiare la società è altrettanto illusorio pen- sare di potere cambiare la società senza aggredire alla loro radice tutti i nodi che si intrecciano nell’istituto familiare.
Alla lunga, lo sappiamo, è la trasformazione sociale quella che conta, e non uno spostamento di equi- libri puramente politici, sempre precario dove non affondi una reale modificazione dei rapporti di forza. Per questo non condivido prudenze e tatticismi, ma ritengo che alla battaglia del referendum dobbiamo andare a viso aperto, portandovi tutta la ricchezza della proposta comunista, consapevoli che in questi mesi non potremo fare molto, ma se non altro gettare dei semi, aprire interrogativi, far maturare contraddizioni, imporre una riflessione collettiva su una tematica su cui è il nostro avvers- ario a volere mantenere il silenzio (…)
La concorrenza a chi meglio difende le meschine virtù della famiglia-tana
Ma c’è anche un altro ordine di rischi in cui affrontando la battaglia del divorzio in modo riduttivo e minimizzante si incorre, col pericolo di una sconfitta nel referendum. Il divorzio, è vero, di per sé non incrina la saldezza della famiglia, si limita a ratificare le separazioni di fatto che già esistono
a migliaia, casomai a tutelare giuridicamente chi è rimasto colpito dalle loro conseguenze. Ma per quanto il fronte divorzista ripeterà questa verità — lo vediamo già ora nella diffidenza diffusa che troviamo fra gli stessi elettori di sinistra — non sarà facile imporla contro le mistificatorie denunce dell’avversario(…).
Da cosa nasce, infatti, questa diffidenza? Dal fatto che la famiglia viene oggi avvertita, paradoss- almente assai più che in passato, come una zattera assolutamente necessaria alla sopravvivenza e a mitigare il terrore di una accentuata solitudine. Il capitalismo nel suo procedere, proprio mentre tende a socializzare la produzione, tende nel contempo disgregare ogni comunità sociale e a creare una società atomizzata dove l’individuo si sente sempre più isolato rispetto ai suoi simili (…)
Proprio per impedire che questa atomizzazione proceda fino alle sue estreme conseguenze, per impedire che si giunga alla disgregazione sociale e dunque a una sorta di anarchia che minerebbe il sistema stesso che l’ha generata, lo stato borghese ha bisogno, ai fini della sua stessa conservazione, di ricostituire un minimo di valori comunitari che forniscono isole di aggregazione e con ciò un ter- reno per perpetuare l’ordine stesso. E’ per questo che il capitalismo, mentre per effetto delle sue stesse leggi di sviluppo disgrega l’antica compagine familiare svuotandola di gran parte di quelle funzioni produttive che ne costituivano la ragion d’essere, e immettendo le donne nella produzione, sente nel contempo il bisogno di ricostituirla, esaltandone un ruolo mistificato. Di fronte alla giungla della società, essa si presenta come il solo possibile rifugio contro la società nemica, la sola zona franca per la legge dell’uomo contro quella della merce, fino a divenire grumo struggente di nostal- gia, spezzone di memoria di un mondo in cui le cose avevano ancora un valore d’uso, affondato nell’oceano della competizione e del profitto. La sola isola, in definitiva, di solidarietà.
Ma — e qui sta la contraddizione insuperabile entro cui il sistema si dibatte — questo tentativo di recupero rimane totalmente astratto e riesce in qualche modo a compiersi solo su basi negative, gra- zie alla esasperata contrapposizione fra collettività e famiglia, intesa questa come tana, come rifugio, un sistema di fortezze chiuse dove la solidarietà dei consanguinei è l’altra faccia dell’egoismo bru- tale verso l’esterno, del ripiegamento sul proprio angusto particolare. L’educazione dei figli diventa in questo quadro l’allevamento dei cuccioli di belva da addestrare alla sfida della giungla (vera radice, questa sì, della corruzione) e il risarcimento delle frustrazioni degli adulti che su di loro scar- icano, distorcendo le potenzialità umane dei bambini, i rancori accumulati.
Il tessuto morale della convivenza diventa solo quello gretto dell’egoismo di gruppo, la donna viene indotta ad una castrazione sociale, ad una regressione verso l’animalità che le consenta di rappres- entare nella commedia il ruolo di mediatrice fra progresso e natura, la compensazione dalle tensioni indotte dal mondo industrializzato. Tanto più è estranea alla vita sociale tanto più può sembrare che essa conservi un rapporto con la natura che i cittadini del capitalismo hanno perduto (tutta l’erotologia, peraltro, collabora validamente a questo fine). In lei si fa rivivere il mito del «buon sel- vaggio felice» che, improponibile al maschio addetto ai moderni mezzi di produzione si affida alla donna, nel tentavo di fare ritrovare all’uomo una innaturale naturalità fuori dalla storia. Stuoli di pediatri, psicologi, psicanalisti sono ingaggiati a questo fine, col risultato non solo di perpetuare la subordinazione della donna, ma di distorcere il significato umano dei rapporti, di impoverirne la ricchezza.(…)
© 2014 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE
Fonte: Il Manifesto
di Michele De Sanctis
Dopo 22 anni, la città di Sarajevo ha riavuto la sua biblioteca nazionale, bombardata nella notte tra il 25 e il 26 agosto del 1992 dai serbo bosniaci. Aveva fatto il giro del mondo la foto della “Viječnica”, così i bosniaci chiamano la biblioteca nazionale di Sarajevo, in cui tra le macerie della volta distrutta, sotto la luce che entrava dall’alto, un uomo suonava il violoncello.
Quell’uomo era Vedran Smajlovic, che fu, tra l’altro, uno dei primi civili ad accorrere sulla scena per tentare la messa in salvo degli oltre due milioni di volumi conservati nell’edificio in fiamme.
Oggi, però, la biblioteca di Sarajevo è stata completamente ricostruita e ieri, 9 maggio 2014, è stata inaugurata nel suo nuovo splendore. La Viječnica è stata rifatta com’era. A mancare all’appello, sono purtroppo i moltissimi testi antichi: bruciati nel rogo del ’92.
L’inaugurazione è avvenuta con un grande spettacolo all’aperto fuori dal municipio austro-ungarico che ospitava la Viječnica. «Oggi dopo 18 anni di lavori di ricostruzione e a 118 anni dalla sua prima inaugurazione, restituiamo la Viječnica ai cittadini di Sarajevo, perché essa fa parte della loro identità», così ha parlato il sindaco Ivo Komsic.
L’edificio, non solo è stato ricostruito in maniera fedele alla sua antica architettura, ma per quanto possibile, sono stati recuperati i suoi materiali originali. D’ora in avanti, la Viječnica ospiterà l’amministrazione cittadina, oltreché una parte del patrimonio librario della Biblioteca Nazionale e il Museo di Sarajevo.
La cerimonia di inaugurazione ha visto la partecipazione della Filarmonica di Sarajevo e di altri 200 solisti, danzatori, musicisti, ed è culminata con la proiezione sulla facciata della Viječnica di un video in 3D che raccontava la storia del palazzo intrecciata con la recente e più drammatica storia di Sarajevo.
di Michele De Sanctis
Se a maggio la natura si risveglia, lo stesso capita alla voglia di leggere: anche quest’anno i libri tornano a sbocciare. Giunto ormai alla sua quarta edizione, il Maggio dei Libri è un’iniziativa promossa dal Centro per il Libro e la Lettura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, con il patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, e ha l’obiettivo di sottolineare il valore sociale della lettura come elemento chiave della crescita personale, culturale e civile. ‘Leggere fa crescere’: è questo lo slogan con cui la campagna nazionale, nata nel 2011, tenta di incentivare la voglia di libri. Oltre a godere del supporto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Il Maggio dei Libri è altresì promosso dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome e dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani, in collaborazione con l’Associazione Italiana Editori. La campagna è iniziata lo scorso 23 aprile, in concomitanza con la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore (indetta dall’UNESCO) e terminerà il prossimo 31 maggio.
Con il Maggio dei Libri 2014 ci si richiama alla tradizione popolare, all’idea di crescita, di maturazione, ma anche di rinascita, di risveglio della natura, di allegria, come testimoniano le radici di diverse feste popolari.
In fondo, cos’è un libro se non un amico, un compagno di vita. L’obiettivo del Maggio dei Libri 2014 è dunque quello di condurre questo compagno nella vita quotidiana di ognuno di noi, fra la gente, distribuendolo, incentivando la lettura, facendo sì che si stabilisca un legame affettivo, affinché il libro abbia finalmente il valore sociale che merita. Affinché la lettura risvegli le menti, letteralmente sbocci in chi avrà l’opportunità di avvicinarsi a un libro.
Tantissimi sono gli eventi del Maggio dei Libri 2014, oltre 1700, da Nord a Sud, dalle grandi città ai piccoli centri. A promuovere le iniziative, biblioteche, associazioni culturali, case editrici, club di lettori, comuni, province e regioni. Ma non solo. Il libro, infatti, evade dai contesti abituali per raggiungere gli innumerevoli ‘non lettori’, fino ad arrivare negli uffici postali, nei supermercati, sui treni e nei ristoranti grazie ad un accordo di partnership con Poste Italiane, UniCoop Tirreno, Librerie Coop, Italo Treno, Eataly e Librerie Feltrinelli. A disposizione di tutti c’è poi anche l’app, che tra i suoi contenuti offre il calendario degli appuntamenti in programma, le novità e le immagini della campagna. L’app Il Maggio dei Libri 2014 è disponibile gratuitamente per iPhone e iPad su AppStore e si può scaricare da qui. Potete, inoltre, trovare tutte le informazioni sul sito Il Maggio dei Libri. Sarà, infine, possibile accedere alle bacheche Facebook e Twitter de Il Maggio dei Libri per seguire e commentare gli eventi e i concorsi legati all’iniziativa.
Tempo fa Michael Crichton disse che frequentare le librerie può riservare sorprese perché si possono trovare libri che non ci si aspetta. Allora, perché non fare un salto in libreria? La lettura dei buoni libri è una sorta di conversazione con gli spiriti migliori dei secoli passati, diceva Cartesio, ed è per la mente ciò che l’esercizio fisico è per il corpo, secondo Joseph Addison.
Potrei citarvi un altro centinaio di aforismi, per convincervi, ma credo che il modo migliore di concludere questo post sia quello di affidarmi alle parole di Ennio Flaiano. ‘Un libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni.’
Buona lettura! E fate bei sogni…
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Dice il Signore a chi batte
alle porte del suo Regno:
Fammi vedere le mani;
saprò io se ne sei degno.
L’operaio fa vedere
le sue mani dure di calli:
han toccato tutta la vita
terra, fuochi, metalli.
Sono vuote d’ogni ricchezza,
nere, stanche, pesanti.
Dice il Signore: Che bellezza!
Così son le mani dei Santi!
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di Andrea Serpieri
C’è stato un tempo in cui tra la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’70, alcuni crossdresser avevano trovato un rifugio in cui essere se stessi in un isolato complesso di edifici, nel territorio di Hunter, New York. Si trattava di un un posto sicuro per molti che sentivano il bisogno di evadere, dai propri vestiti come dalla propria pelle, e se lo concedevano per qualche giorno a settimana, in risposta a una società che ancora non dava né comprensione né soluzioni. Felicity, Gail, Fiona, Cynthia, erano questi i nomi che avevano scelto per loro: per alcuni era un problema di presa di coscienza, per altri insoddisfazione velata. Questo posto è rimasto sconosciuto per decenni, custodito dalla sola memoria dei suoi ospiti, fino a che qualcosa lo ha reso noto, portandolo alla ribalta della più scafata, sebbene non sempre tollerante, società contemporanea.
Un vero e proprio dossier fotografico, scene di vita privata, segreti scatti di un’esistenza alternativa, è ciò che per caso è tornato alla luce quando Robert Swope, punk-rocker e mobiliere di New York ha rinvenuto un centinaio di foto in una scatola comprata al mercatino delle pulci. Uomini travestiti da donne, ma in pose familiari e composte di donne sofisticate, nessuna volgarità. Cross-dresser borghesi che bevono tè, giocano a bridge, guardando l’obbiettivo con sincero stupore e un leggero velo di imbarazzo. Insospettabili e distinti signori della middle class: editori, vigili del fuoco, imprenditori, uno sceriffo di una piccola contea nel New Jersey. Seppure l’ambiente e la qualità delle fotografie appartengano alla fine degli anni ’60, vestiti, acconciature e ammiccamenti sono, invece, tipici del decennio precedente. Le foto ritraggono una sorta di club privato: Casa Susanna. Swope non sapeva di cosa si trattasse. Tutto ciò che aveva era quello che vedeva, ossia uomini vestiti da donne, eleganti quanto rassicuranti. Donne serene, talora gioiose. Niente di eccessivo, nessun tipo di Drag Race e nessuna Ru Paul a condurre la gara, nessuna queen dai capelli supercotonati e coperta di strass che mima parole dei brani di grande successo facendo la pazza, come Vida Boheme e Noxeema Jackson insegnavano all’inesperta Chi Chi Rodriguez, nel film ‘A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar’. Quegli scatti, mostravano, in verità, qualcosa di più simile alle foto di famiglia, una cena per un’occasione speciale, un happening dove andare vestiti bene, bacettii sulle guance, un picnic sull’erba.
A lungo Swope non volle saperne niente, finché insieme al suo compagno, Michel Hurst, decise di mettere insieme tutte queste foto e farne un libro – intitolato, appunto, Casa Susanna, edito nel 2005 da powerHouse Books– lasciando agli scatti l’arduo compito di raccontare una storia segreta che gli stessi autori cominciarono a conoscere soltanto dopo la pubblicazione del testo, quando le testimonianze dei frequentatori di Casa Susanna iniziarono a ricongiungersi alle immagini.
Susanna, la matrona di questo gineceo alternativo, si chiamava Tito Valenti ed era un uomo che aveva scelto di spendere il resto della propria vita da donna.
Robert Hill, ricercatore dell’Università del Michigan che una decina di anni fa si è occupato di ricucire le storie che giravano attorno alle foto di Swope, ha intervistato alcune delle amiche di Susanna, come Sandy, imprenditore divorziato. Lui racconta che Casa Susanna era un posto eccitante «perché quali che fossero le tue fantasie segrete, incontravi altre persone che ne avevano di simili e ti accorgevi di essere, sì, “diverso” ma non “pazzo”». Sandy, che oggi ha più di 70 anni e non si traveste da qualche decade, negli anni sessanta era ancora studente universitario e nei weekend frequentava Casa Susanna. «Era estremamente liberatorio. Sono cresciuto in una famiglia molto conservatrice. Volevo sposarmi, avere una casa, un’auto, un cane. Cose che alla fine sono successe. Ma allora avevo questi impulsi conflittuali e non sapevo da che parte voltarmi. Non sapevo quale fosse il mio posto nel mondo».
Il ricordo di Casa Susanna, dei suoi weekend e delle suoi party declina fino a perdersi nella memoria dei suoi ospiti, pur seguendoli negli anni a venire, attraverso le loro scelte di vita, che poi per la maggior parte di loro si riducono a un unico enorme bivio. Continuare nella presunta normalità come Sandy o diventare donna, come Fiona che si trasferì a Sidney, dove visse come Katherine Cummings, libraia ed editrice. Lei, che alla nascita si chiamava John.
E poi c’era Virginia Prince, farmacista e fondatrice della rivista specializzata ‘Transvestia’ e del movimento transgender. «Ho inventato i trans – rideva ancora 96enne, poco prima di morire – ma se questa gente sapesse che non mi sono mai operata mi farebbe la pelle».
E infine c’era Susanna, a cui lasciamo concludere questa storia rubata ai ricordi di un gruppo di uomini, che, quando negli States vivere la propria diversità era ancora troppo difficile, nonostante fossero gli anni della liberazione sessuale, hanno deciso di trovare conforto alla loro condizione in un rifugio isolato, ma col reciproco sostegno di altri fratelli di condizione. Anzi, sorelle.
«Scena: il portico di fronte all’edificio principale del nostro resort nelle Catskill Mountains. Ora: circa le quattro del mattino, il Labor Day sta per sorgere oltre l’oscurità distante. Personaggi: quattro ragazze che chiacchierano. È buio. Solo un fascio di luce illumina parte della proprietà a intervalli regolari – fa magari un po’ freddo a quasi mille metri d’altitudine. Ogni tanto una fiamma in punta di sigaretta illumina un volto femminile – un altro weekend al resort, ore in cui impariamo a conoscere noi stessi un po’ meglio osservando la nostra immagine riflessa in nuovi colori e in una nuova prospettiva attraverso le vite dei nostri amici». È forse questa la sintesi di cosa fosse Casa Susanna. A parlare, infatti, è proprio lei, Susanna, che da qualche parte nei primi anni Settanta scriveva della sua Casa sulle colonne di ‘Transvestia’.
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Quante ore al giorno trascorriamo all’aperto? E quante tra le pareti di casa o del nostro luogo di lavoro? La stragrande maggioranza della nostra vita, purtroppo, si svolge rinchiusa all’interno di mura, la risposta è più che ovvia. Ma è possibile rendere queste mura più confertevoli?
La soluzione al quesito arriva dall’Oriente.
Certi luoghi hanno il pregio di farci sentire a nostro agio, mentre altri proprio non riescono ad essere accoglienti. Le ragioni possono essere le più svariate, dalla psicologia al semplice gusto estetico, possiamo trovare più di una motivazione. Ma alcune di queste sono da ricondurre al Feng Shui, una nota disciplina orientale, le cui origini si perdono nel tempo: un’antica arte che coniuga filosofia ed architettura, sapienza e pragmatismo nel costruire e nell’arredare.
Il Feng Shui di un luogo è l’insieme delle sue caratteristiche, a partire dagli esterni per passare agli interni. Nel feng shui, come anche nella medicina tradizionale cinese, il termine ‘Chi’ indica l’energia universale, vale a dire quel particolare tipo di energia che ci circonda, che permea tutto ciò che è intorno a noi. Più specificamente, nel Feng Shui, questo termine si riferisce sia all’energia presente dentro di noi, sia a quella che si trova all’interno e all’esterno della nostra abitazione.
La ‘Sheng Chi’, cioè l’energia vitalizzante, armoniosa e piacevole si presenta quando le caratteristiche del ‘macro’ sono favorevoli e promuovono una vita attiva, con un buon ‘movimento’ (mentale, spirituale, fisico e materiale), ed un buon collegamento con Terra (energie dense, di supporto = nutrimento, lavoro, denaro) e Cielo (energie sottili = spiritualità, ideazione, pensiero). La Sheng Chi viene distribuita dal vento e raccolta dall’acqua. L’energia ‘Chi’ è necessaria come l’aria ed è una connessione tra ossigeno (yang) e l’energia universale (yin), in cui essa si manifesta. Ma si esplica, altresì, in un’estrema varietà di forme, secondo la teoria Feng Shui dei cinque elementi. Nel feng shui, inoltre, Chi si manifesta anche in diversi colori, forme, intensità, ecc.
L’obiettivo principale del Feng Shui – a prescindere da quale scuola si segua – è quello di attrarre, indirizzare e nutrire il flusso positivo di Chi all’interno della nostra casa, al fine di veicolarlo all’interno del nostro corpo.
Possiamo misurare e sentire la qualità dell’aria ma per l’energia ‘Chi’ non esiste alcun organo sensoriale. La possiamo percepire solo intuitivamente. Ad esempio esistono posti o ambienti che siamo istintivamente portati ad evitare, mentre ce ne sono altri dove stiamo meglio. È, forse, questa la spiegazione più chiara per descrivere l’energia ‘Chi’.
Nel Feng Shui c’è un detto che dice : è l’energia del posto che ci sceglie, non siamo noi a scegliere il posto.
Ad ogni buon conto, l’energia che sarebbe meglio evitare in casa, in ufficio, o in qualsiasi altro luogo, è la ‘Sha Chi’, che potremmo immaginare come una lama o una freccia, da cui è necessario proteggersi. Negli esterni questo si fa mettendo piante fra noi e lo Sha, la lancia avvelenata che cerca di colpire la nostra vitalità.
Nel Feng Shui ciò che conta è capire quest’energia ed usarla a proprio favore, se si può, oppure, come proteggersene.
È molto frequente che un ambiente chiuso possa presentare degli ostacoli al flusso di energia, come, ad esempio, quando di fronte all’ingresso principale di una casa c’è un muro che delimita l’ingresso, o quando si colloca un’armadiatura ingombrante in prossimità dell’entrata in una stanza.
Molto comune è anche la dispersione di energia, come quando la porta d’ingresso è perfettamente allineata con quella sul retro o se in corrispondenza di una porta principale viene posizionata una grande finestra.
È importante imparare a visualizzare la Sheng Chi della nostra abitazione (l’intuito sarà il nostro occhio), l’energia scorre in casa nostra come acqua: cerchiamo di non ostacolarla, di non lasciarla stagnare in un solo angolo e di farla defluire in ogni posto.
Fate del vostro meglio per creare una casa con un flusso di Chi liscia, perché il flusso di energia in casa prima o poi si rifletterà nel vostro corpo. Sarà la vostra Forza Vitale e migliorerà la qualità della vostra vita.
Da ultimo, passiamo al lato pratico delle cose. Il Feng Shui viene sempre più applicato nell’architettura contemporanea, nuova edilizia e ristrutturazioni, ma se non abbiamo i soldi per comprare, ristrutturare o semplicemente cambiare l’arredamento? Non so voi, ma io questo problema me lo pongo. Possiamo provare a cambiare la disposizione dei mobili che abbiamo o fare qualche piccolo lavoretto di bricolage e con una piccola spesa realizzare, in un angolo preciso di casa, una sorta di catalizzatore di Sheng Chi: ad esempio, basta installare un acquario. Infatti, secondo le regole del Feng Shui, l’acquario è considerato portatore di fortuna e prosperità per chi lo possiede. I principi della tradizione cinese suggeriscono una collocazione dell’acquario nella zona sud-est di una stanza, per attirare le energie positive. L’ambiente migliore dove collocarlo sarebbe il soggiorno, mentre bisognerebbe evitare di posizionarlo nei pressi della camera da letto, in cucina e in bagno. Io l’ho appena fatto. Non mi aspetto di convertire il mondo al Feng Shui, io stesso ero un po’ scettico all’inizio. Ma lo scetticismo è apprezzabile solo se abbinato a una critica costruttiva. Come faccio a dire che non funziona, se prima non ci provo?
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di Michele De Sanctis
Pasolini Roma è il titolo della mostra inaugurata lo scorso 15 aprile al Palazzo delle Esposizioni e che resterà allestita nella Città Eterna fino al 20 luglio, quando proseguirà il suo viaggio a Berlino dall’11 settembre, fino ad arrivare a Barcellona e Parigi. Tra video, installazioni, fotografie, frammenti di film, manoscritti, sceneggiature, storyboard, articoli di giornali (c’è anche il celebre “Io so” pubblicato sul Corriere della sera nel 1974), disegni e dipinti, qui troverete il pensiero e l’uomo Pasolini.
La mostra si sviluppa cronologicamente in sette sezioni progressive e le immagini videoproiettate si inseguono, una dopo l’altra: Pasolini insieme agli amici, con il fratello partigiano Guido, con i suoi alunni e la madre. Pasolini, nato nel 1922 a Bologna, aveva trascorso la giovinezza tra il capoluogo emiliano e il Friuli e arrivò a Roma con sua madre nel 1950. Lì costruì il successo della sua opera letteraria e cinematografica, spesso legandola alla città, alle sue persone e alla sua cultura, fino a quando fu ucciso al Lido di Ostia nel 1975. Venticinque anni di universo pasoliniano: i suoi luoghi, i suoi volti, l’artista. La sua Roma, di cui fu il “cantore delle borgate” e, nel contempo, un capro espiatorio per la sua diversità, «un perseguitato», come lui stesso si definiva.
Pasolini Roma
Fino al 20 luglio
Roma, Palazzo delle Esposizioni
A cura di Gianni Borgna, Alain Bergala, Jordi Balló.
Info: http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-pasolini-roma
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